Febbraio 2015.
Tra i protagonisti della canzone d’autore, della musica e della cultura italiana, Francesco De Gregori è probabilmente quello che ha saputo individuare e seguire un percorso personale e coerente all’insegna dell’equilibrio tra passione e intelligenza, edificando e consolidando un saldo rapporto con diverse generazioni di pubblico. Come lui stesso conferma in una lunga intervista recentemente concessa al quotidiano “la Repubblica”, si è saggiamente tenuto a distanza dagli effetti distruttivi di certa immagine televisiva, centellinando i media, e lasciando sempre che fossero le sue canzoni a parlare per lui. Così, a volte, si ha l’impressione, o il desiderio, di scoprire in ogni suo brano qualche tratto autobiografico.
– Buongiorno Francesco, fino a che punto è così?
… Veramente c’è qualcosa di autobiografico, sempre, in quello che si scrive. Credo che anche nei Promessi Sposi ci sia molto della vita personale di Manzoni anche se la storia in sé è una ” fiction”. Intendo dire che quello che appartiene alle tue vicende personali confluisce sempre, magari anche involontariamente, dentro quello che scrivi. Poi ci sono alcune canzoni che ho scritto dove si può leggere chiaramente un pezzo di vita vissuta, persone esistite, fatti avvenuti. Ma se non ci fosse anche qui un’invenzione, qualcosa che sposta la canzone dalla cronaca individuale a qualcosa di più interessante su un piano emotivo di tutti, qualsiasi canzone avrebbe poco senso. Per essere chiari: se ti lascia la fidanzata puoi scriverci una canzone sopra, ma solo se poi chi la ascolterà proverà le tue stesse sensazioni di smarrimento, di gelosia, di dolore o di quello che ti pare, solo in questo caso quella canzone è una buona canzone, qualcosa che andava la pena di scrivere. Ti faccio anche un altro esempio a proposito di biografia in canzone: capita che noi due scriviamo una canzone insieme, “La Casa di Hilde”, partendo da un tuo racconto su un episodio d’infanzia capitato durante una gita con tuo padre. Da lì partiamo, ma poi la canzone si fa tutto un giro per conto suo, cominciamo ad inventare diamanti, doganieri, capre etc etc… Quanto c’è di autobiografico e quanto di invenzione? Boh.
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Nella stessa intervista sostieni che con il successo di Rimmel ti eri già assicurato una posizione nella storia della musica italiana, e che quindi, con misura, non hai voluto premere sull’acceleratore, preferendo pubblicare un album meno “immediato”, come Bufalo Bill, per non dare punti di riferimento troppo precisi. Chi ti ha ascoltato, però, li ha trovati lo stesso, costantemente, lungo tutto l’arco della tua carriera, fino a oggi. A guardare indietro negli anni, ci sono canzoni che sono sulla strada e sulla bocca di tutti, e costituiscono ben più di un punto di riferimento per la nostra cultura, la nostra società, la nostra storia: Alice, Rimmel, Titanic, Generale, La donna cannone, La storia… Quali altre, tra le più recenti, metteresti per completare il paniere di questi capitoli eccellenti?
Ormai mi sono rassegnato al fatto che la gente consideri la parte migliore del mio lavoro quelle dei miei primi vent’anni (Rimmel, Alice, La donna Cannone, Titanic, Viva l’Italia…) ma non credo che sia vero. Ho scritto un sacco di canzoni buone, anche di recente. E non tutte quelle del periodo “d’oro” erano dei capolavori. Degli ultimi tempi (ultimi si fa per dire) mi piacciono molto Compagni di viaggio, Bellamore, Caldo e scuro, Celestino, (anzi mi piace quasi tutto di quel disco). Poi anche dopo… L’Infinito, Finestre Rotte,Cardiologia. E tutto il disco che si intitola “Sulla strada”, che è l’ultimo inedito che è uscito.
– A me sembra che ti abbia sempre divertito cambiare faccia alla musica delle tue canzoni. Ora con questo corposo e snello VIVAVOCE hai realizzato un atto d’amore nei confronti del pubblico e di te stesso. Quando, come e perché è nata l’idea?
Vivavoce l’ho voluto anche per questo, per dare un’altra occasione al mio pubblico di andarsele a sentire e magari scoprirle per la prima volta. Sai, magari qualcuno se l’è comprato solo perché dentro c’era Alice con Ligabue e poi ha detto “beh, però non è male Un Guanto, da dove esce fuori?”. Comunque l’ho fatto anche perché volevo continuare a fare musica e non volevo darci troppo dentro con i concerti, così ho passato un sacco di tempo con la chitarra in mano comunque.
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Ho ascoltato con piacere e interesse tutto l’album, felice di scoprire il nuovo vestito di canzoni che conoscevo, che riconosco. Trovo il lavoro ben fatto, semplice, molto diretto, come acqua limpida e fresca di torrente, vicino al live. Apprezzo poi tutta una serie di finezze, tra le quali la citazione, delicata e sentimentale, di Com’è profondo il mare nel finale di Santa Lucia. Non ti perdono invece l’esclusione di alcune canzoni, Due zingari, ad esempio. Come si è sviluppata la scelta?
Il criterio con cui ho scelto i pezzi rispondeva un po’ a questa voglia di metterci dentro canzoni più recenti e magari non troppo famose, ma è stato anche dettato dal gusto che provavamo mentre le suonavamo per registrarle. Quando dovevamo faticare troppo per farle venire bene le mollavamo. Onestamente a “Due Zingari” non ci abbiamo pensato, ma per esempio “Rimmel” abbiamo provato, ma non ci veniva fuori niente. Sarà per la prossima volta!
– Dal FOLKSTUDIO a FOLKEST, da Caterina Bueno al grande pubblico, passando e ripassando per le collaborazioni con Giovanna Marini e con Ambrogio Sparagna… Qual è, a tuo parere, il rapporto tra canzone popolare e canzone d’autore?
Beh, questo del rapporto fra folk e musica d’autore (ma io preferirei chiamarla “pop” così tagliamo corto) è un discorso doloroso qui da noi. Mentre in altri Paesi (penso all’America, ma anche alla Francia, per non parlare dell’Inghilterra o della Spagna) vedi che c’e un certo prelievo da parte della musica pop nei confronti del patrimonio della musica tradizionale e nessuno ci trova niente di strano, qui in Italia sembrano essere mondi separati. Mi piace pensare che tante melodie e tanti testi della tradizione sarebbero perfetti per scriverci delle canzoni nuove, ma ci vorrebbe uno veramente coraggioso, lo accuserebbero di copiare. Invece andrebbe fatto. Per come stiamo messi il folk rischia di finire in una nicchia accademica, roba da studiosi e basta. Roba da studiare invece che da suonare. E questo nonostante ci siano tanti gruppi di musicisti giovani, che si rifanno a questo. Ma non fanno una vita facile. Quando con Giovanna Marini abbiamo fatto “Il Fischio del Vapore” un sacco di gente – intellettuali, appunto, musicologi, professori universitari – si è incazzata perché avevamo osato trattare le “loro” canzoni con le chitarre elettriche. Che ci vuoi fare?
– Ammesso che ci sia distinzione, come definiresti la tua posizione personale?
Io al Folkstudio li avevo conosciuti in carne e ossa i grandi interpreti della musica popolare italiana, Giovanna a parte, e quindi mi sembrava così normale che quello che portavano fosse utile anche a me che facevo il cantautore. E prendevo, hai voglia se prendevo. Anche Antonello… Ma tu te la ricordi Tapùm di Antonello? O anche “A Cristo”? Anche Roma Capoccia è una canzone popolare romana, a tutti gli effetti. Gran belle cose. Poi magari ci è piaciuto anche venirne fuori… col blues, Dylan, il rock. Va bene, ma quella roba che sentivamo da Matteo Salvatore o da Rosa Balistreri quanto ci è servita? Lo voglio dire a testa alta. E tutto il lavoro di Ivan Della Mea? L’uso che faceva del dialetto milanese nelle sue ballate? In certi casi, giustamente, era difficile trovare un confine fra le canzoni popolari e quelle che alcuni andavano scrivendo.
– La stessa domanda, riferita a Bob Dylan e Leonard Cohen.
A proposito di questo viene fuori per forza il nome di Dylan, l’uomo che ha preso tutto quello che si poteva prendere dalla musica tradizionale americana e senza nessuno scrupolo l’ha fatta totalmente sua. Assai più di Cohen o di Springsteen. Ma anche loro sono figli consapevoli della musica che li ha preceduti e che è un giacimento infinito di storia e di storie, e di melodie su cui alla fine si finisce sempre per ritornare, per girarci intorno. Tutto viene usato, la tradizione non è uno scavo archeologico ma una fonte di energia rinnovabile.
– Così come alcuni altri significativi artisti (penso a Fabrizio De Andrè, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Francesco Guccini …), ma con la tua personale letteratura, hai scosso con le canzoni la coscienza civile, la memoria storica, hai contribuito alla consapevolezza. Penso, tra le altre, a 1940, Viva l’Italia, Bambini venite parvulos, Scacchi e tarocchi, Il cuoco di Salò… Versi quali “legalizzare la mafia /sarà la regola del duemila” li definiresti più etici o profetici?
Profetiche certe canzoni? Certamente no, se potessi predire il futuro farei altre cose. È solo che gli artisti si collegano al presente con un altro occhio, vedono luccicare delle cose che altri non vedono. Gli artisti “guardano” in profondità, non in avanti. Ma sicuramente dalla profondità del loro sguardo vengono fuori delle cose che ad altri risultano invisibili. E allora magari puoi trovare nel lavoro degli artisti una visione che sembra profetica semplicemente perché è in fin dei conti più acuta di quella di un sociologo o di un giornalista o di un politico. Quanto all’etica è una parola pericolosa. Odio i contenuti normativi nell’arte, non sopporterei di aver scritto una canzone impegnata, non credo che le canzoni e l’arte in generale abbiano a che fare con la bontà.
– Infine, Francesco, ti confesso che molte tue canzoni, sia pure ascoltate e riascoltate, imparate e digerite, tornate ora all’attenzione con VIVAVOCE, toccano ancora corde profonde, tra brivido e commozione. Vedi, ad esempio, Il canto delle sirene. Quali tra le tue canzoni sortiscono uguale effetto anche sull’autore?
Certo che mi emoziono quando sento o canto alcune cose. È per questo che si scrivono le canzoni. A parte alcune delle mie ti posso dire che quasi sempre quando sento “Sfiorisci bel fiore” di Jannacci o “Bella ciao ” cantata da Giovanna Daffini o da Giovanna Marini nella versione delle mondine la mia risposta è emotiva, antintellettuale. Si muove qualcosa che ha a che fare con il sentimento puro, come certi suoni, quello della zampogna o, paradossalmente, dell’organo Hammond.
– Ti ringrazio, e dopo l’onda lunga di questa raccolta, e un nuovo giro d’Italia in tour, attendo qualche nuova canzone che mi stupisca e mi faccia pensare ancora a quanto è bravo il mio amico. Mi accorgo adesso che non ti ho proposto nemmeno una domanda cattiva, o imbarazzante … Facciamo come da Marzullo? Vuoi suggerirmela tu?
… Beh, c’è stato un periodo in cui Marzullo mi invitava regolarmente ad andare da lui ma non ci sono mai andato proprio perché ero terrorizzato da questa domanda. Risparmiamocela!
Roberto Bolelli dice
Grande! Anche le domande sono molto argute. Che bello se De Gregori e Venditti facessero di nuovo qualcosa insieme…