di Nicola Cossar
Quella dell’editoria musicale italiana, ma anche quella delle radio, delle tv, dei negozi di dischi, del mondo squalesco dei promoter di concerti, è una storia complessa, articolata, traboccante di nomi e vicende, molti sconosciuti ai più. Una storia da raccontare. E chi poteva scriverla se non Max Stèfani, che ha fatto… storia fondando riviste come Il Mucchio selvaggio e Outisder, na anche Duel e tante altre belle realtà al servizio della musica di qualità, compreso il popolarissimo sito web rockol.it. La sua nuova fatica come scrittore/narratore di musica si intitola In rock we trust. Un titolo raccontato da chi c’era, con centinaia di testimonianze, e che non parla soltanto di rock, ma di un’epopea coraggiosa e meravigliosamente sfrontata, di un sentire musicale forse perduto per sempre, ma che rivive in tutta la sua profondità in questo volume.
F.B. Max, siamo davanti a un fiume di ricordi, copiosi, generosi, belli e amari. L’Italia che racconti era così magmatica, confusa, coraggiosa e spesso anche inconcludente?
M.S. Era l’Italietta che è ancora oggi. Provinciale, ai confini dell’impero, catto-comunista se mi si concede un termine desueto. Uscivamo da una guerra che ci aveva lasciato letteralmente senza scarpe. L’America ci aveva salvato e dovevamo pagare pegno. E in tutto questo la musica pian piano avrebbe trovato sì un’importanza ma solo per non pensare e divertirsi (che non c’è niente di male, beninteso), ma mai come forma d’arte alla pari della pittura, del cinema o della letteratura. E’ sempre rimasta in disparte, disprezzata e non capita dai più.
F.B. Pochi come te hanno attraversato un’epoca così ricca, anche di contraddizioni, in cui esisteva (ed era credibile) la critica musicale, in cui i giornali e i dischi si vendevano, ai concerti si andava in migliaia. E c’erano anche il rito dell’attesa e lo stupore della scoperta. Cosa resta di quegli anni?
M.S. Ben poco. Il mondo cambia e certe cose diventano desuete e inutili. Pensa al ruolo del cavallo prima delle macchine. Per la musica è successo lo stesso. L’avvento di internet ha cambiato il mondo. Con i pro e i contro. E’ cambiato il modo di ascoltare la musica, è scomparso l’oggetto fisico, ovvero i dischi in vinile, i cd e i giornali su carta. E’ cambiato il modo di comprare. I negozi sono spariti. Anche il modo di confrontarsi, di discutere che prima trovava spazio nei negozi, ai concerti o al bar adesso si è trasferito su facebook. E’ venuta anche a mancare la necessità dell’approfondimento. Tutto si è fatto più veloce. Ai posteri l’ardua sentenza se era meglio prima o adesso. Certo la qualità della musica è scesa parecchio. E questo senza voler andare ai mitici anni Sessanta/Settanta.
F.B. Il Mucchio selvaggio rimane il tuo figlio più bello, il tuo snodo principale, professionale ed esistenziale. Ripeteresti quell’esperienza? E quale delle numerose altre ti ha saputo dare altrettanto?
M.S. Sì, il Mucchio è stato importante. Almeno fino a fine anni Novanta, poi è sopravvissuto, ma senza nessun scopo. Come del resto tutti gli altri giornali. Quei pochi che restano sopravvivono, ma senza nessuna capacità d’incidere nei gusti e nelle vendite. Non hanno saputo reinventarsi, ma forse non è semplicemente possibile. L’unico che ci ha provato – e secondo me era una scelta vincente – è stato Outsider. La ripeterei? Certo, ma in quegli anni, dove tutto era possibile. Comunque Il Mucchio mi ha dato soddisfazioni e da vivere per quasi trentacinque anni. E sono anche contento di altri giornali, magari meno fortunati, come Duel. Oggi in Italia non succede niente. Siamo un popolo morto, senza presente e senza futuro. Ognuno pensa al suo orticello, dal singolo, all’imprenditore, al politico. E se c’è qualcuno cha va controcorrente o prova a inventarsi qualcosa di nuovo o accenna a elevarsi sulla media, viene subito boicottato.
F.B. In questo libro troviamo una quantità infinita di informazioni, e di questo io e chi si occupa di musica e di comunicazione ti siamo profondamente grati. Mi ha colpito molto anche come tratti l’epopea dei concerti e l’eroismo di molto organizzatori. Ideali e percorsi che sembrano smarriti. O no?
M.S. Beh in certi casi si trattava di eroismo o perlomeno di avere coraggio e una certa capacità imprenditoriale. Il promoter è uno sporco mestiere, ma qualcuno deve pur farlo. Ci vuole pelo sullo stomaco. Negli anni Settanta era anche pericoloso fisicamente per via dei famosi ‘anni di piombo’. Con l’arrivo degli anni Ottanta tutto è stato più facile, ma anche più difficile, perché ci si è dovuti confrontare con le multinazionali del settore, ovvero squali senza nessuna pietà. Basta vedere quello che succede oggi con Live Nation e il secondary ticketing. Diciamo che siamo terra di conquista. Cosa che del resto si ripete dai tempi della caduta dell’Impero Romano.
F.B. Radio e tv ci hanno fatto crescere. Forse. Mi pare sia tutto scomparso…
M.S. Già bei tempi. Alla Rai all’inizio facevano di tutto per controllare la messa in onda delle canzoni rock per non eccitare troppo i ragazzi, poi piano piano intorno a metà anni Sessanta hanno capito che portava numeri e quindi soldi, fino ad arrivare agli anni Ottanta in cui c’era rock free dalle due del pomeriggio alla mattina dopo. Incredibile. Poi hanno deciso di smontare tutto. E come non ricordare le radio libere? Che fonte di energia! Poi anche lì si sono standardizzate e oggi sono tutte inascoltabili. Credono facciano una gara a chi trasmette la musica peggiore. Ma forse è quella che vuole il pubblico. In questo senso come dargli torto?
F.B. Giornali. Oggi non si legge più, ma con un po’ di buona volontà ci può essere un pubblico meno superficiale e meno ignorante per la musica cosiddetta di qualità, italiana e straniera…
M.S. Sì c’è. Ma stiamo parlando del 2%? L’ignoranza è aumentata esponenzialmente e di conseguenza la qualità di quello che si ascolta, si legge o si vede anche. Negli anni Sessanta/Settanta eravamo tutti più preparati, più curiosi, più desiderosi di fare, di non accettare lo status quo. Oggi si pensa solo a fare più soldi possibile con la minore fatica possibile. Cane mangia cane. È anche vero che la qualità del giornali, in primis i quotidiani, è scesa parecchio. Anche loro devono fare i conti con le minori entrate. Di conseguenza non esistono più i giornalisti di un tempo e c’è più censura. Insomma di far pensare chi legge o ascolta, magari anche facendolo arrabbiare, non interessa più a nessuno.
F.B. Fra le tante belle e importanti realtà di cui tu sei papà c’è anche rockol.it. Quanto credi nel web?
M.S. Il web è il presente. C’è poco da crederci, bisogna solo accettarlo. Con tutti i lati positivi e negativi che comporta. Per certe cose è molto utile, lo vedo quando devo scrivere dei libri. Ci metto 3 mesi quando – se non ci fosse – ci metterei un anno, senza contare l’acquisto dei libri. L’unica cosa che non sopporto sono facebook e simili, che purtroppo sono una grande bar dove ognuno può dire la sua nell’anonimato completo e questo tira spesso fuori le cose peggiori. Non esistendo poi la ‘diffamazione’, è ovvio che è permesso scrivere qualsiasi cosa. Rockol è cresciuto molto senza di me ed è una buona fonte d’informazione.
F.B. Che musica ascolta Max nel 2017?
M.S. Facendo due libri l’anno, quasi solo il materiale su cui scrivo. Che è anche un buon modo per riascoltare vecchie cose. Negli ultimi due anni, da quando ha chiuso Outsider, pochissima roba nuova. Vado ogni tanto su Spotify. Quando i vari siti/giornali fanno i best dell’anno appena passato ascolto i dischi più citati. Ma mi pare che non siano granché.
F.B. In rock we trust è un libro di storia. Parliamo troppo al passato o il presente è così sterile?
M.S. E’ sterile, è sterile. E non per la solita tiritera dei nostri vecchi che rimpiangevano il passato. Il rock ha dato il meglio in quei vent’anni. C’è poco da fare. Sono stati anni magici.
F.B. Dopo I quattro cavalieri dell’Apocalisse (Clapton, Beck, Page e Green), a quando il libro sui loro cugini americani?
M.S. E’ finito. Esce a metà marzo. Nel secondo capitolo i quattro cavalieri sono diventati 6: Duane Allman, Jimi Hendrix, Mike Bloomfield, Jerry Garcia, Jorma Kaukonen, Stephen Stills. Periodo 1960-1975. Ovviamente si parla dei gruppi dove sono passati, quindi Allman Brothers, Paul Butterfield Blues Band, Electric Flag, Grateful Dead, New Riders of The Purple Sage, Jefferson Airplane, Hot Tuna, Buffalo Springfield, CSN&Y… Come quello precedente si soffermava su Londra, questo riguarda molto la California. Quindi Hollywood, Laurel Canyon, Lsd, festival e molto altro. Ma anche, ovviamente, Crosby, Joni Mitchell, Bill Graham… Un bel viaggio nel tempo.
Non è in vendita nelle librerie. Solo attraverso la mia mail (HYPERLINK mailto:max@outsiderock.com – max@outsiderock.com) o su facebook. Sono libri preziosi, per pochi.
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