CARAVAN/SONY COL511283 2,2003 – CANZONE D’AUTORE/ITALIA
Luigi Grechi ed io abbiamo, musicalmente parlando, parecchie cose in comune. Entrambi siamo follemente innamorati dell’altra faccia dell’America, quella faccia “un po’ sporca” che non sempre si vede in televisione o al cinema. E’ l’America che più ci assomiglia, l’America che tentiamo di afferrare ma che ci scappa di mano per raccontarci sue storie fatte di gente vera e panorami mozzafiato, di beautiful losers – bellissimi e dannati – e colossali bevute di whiskey intorno a un fuoco. Luigi Grechi ed io abbiamo anche gli stessi eroi musicali. Eroi che spesso, come succede in America, dove qualche volta i sogni si avverano, sono diventati nostri amici. I nomi sono quelli di artisti entrati ormai da tempo nella leggenda: Peter Rowan, Jerry Jeff Walker, Tom Russell, Ponty Bone, Jimmy LaFave…Io poi con parecchi di questi ho anche avuto il privilegio di suonare la mia armonica a bocca. Ecco perché quando ho messo nel lettore il disco di Luigi, che per una serie di sfortunate coincidenze è arrivato in redazione solo adesso, subito sono stato catturato dal fascino delle sue canzoni, belle, autentiche e piene di passione. Canzoni che lasciano il segno, canzoni che ti aiutano a vivere e a sognare. Perché come canta Luigi nello splendido brano che da il titolo all’album: “un uomo è ciò che mangia ma anche i sogni che si porta nel cuore”. E Luigi, i sogni se li porta davvero nel cuore, e lo fa da una vita, e con le sue canzoni da sempre ci aiuta quando perdiamo quella sacrosanta abitudine che ci permette di riflettere, sperare e giocare con la nostra esistenza, con la stessa innocenza che hanno i bambini. E’ uno che viene da lontano Luigi. Come i cowboys che popolano i suoi testi e forse le sue notti, Luigi ha cominciato a cavalcare le polverose strade della musica parecchi anni fa agli inizi degli anni Sessanta. La sua prateria in quel periodo, era il Folkstudio di Roma, il leggendario locale che fu davvero in quegli anni la meta prediletta di una generazione musicale d’avanguardia.
Lì Luigi suonava le sue canzoni e brani che hanno fatto la storia della musica americana del novecento: brani di Woody Guthrie, Bob Dylan e John Prine, solo per citarne alcuni. Schivo e incorruttibile come gli eroi solitari delle sue storie Luigi deve aspettare il 1975 per dare alla luce il suo primo, ancora oggi splendido album. Il disco aveva un titolo che era quasi un manifesto per lui e per la sua generazione: “Accusato di libertà” cui faranno seguito l’eccellente “Luigi Grechi” (che conteneva autentiche perle come “Rosso corallo”, “Se la mia penna fosse un’ala” e “L’elogio del tabacco”); e “Come state?”. E di libertà Luigi dimostra di intendersene parecchio: in quegli anni suona dappertutto, fa il bibliotecario a Milano e gira in lungo e in largo l’Italia, l’Europa e l’America diventando un musicista di “culto” apprezzato soprattutto da un pubblico attento, affettuoso e dal palato fine. Verso la fine degli anni ottanta scrive “Il bandito e il campione” una delle più belle canzoni d’autore italiane portata al successo dal fratello Francesco De Gregori (Grechi è un “nome d’arte”, il cognome della madre), con la quale si aggiudica il premio Tenco nel 1993.
Da lì in poi Luigi ha continuato ad incidere e a viaggiare tra le colline dell’Umbria, le strade d’Italia e le pianure d’America incidendo “Dromomania”, “Azzardo”, “Girardengo e altre storie” “Cosivalavita” e tre anni fa “Pastore di nuvole”. Il disco è solo l’ultima conferma del grande talento di Luigi che ha saputo costruire con l’aiuto di Guido Guglielminetti -produttore del lavoro-, un album che è davvero l’affresco sonoro di un mondo, il mondo di oggi e quello genuino e trasognato di Luigi, realizzato con la convinzione e la consapevolezza che partendo dalla tradizione country-folk americana ci si può muovere tra vari stili musicali senza perdere la rotta e senza scadere nella citazione di maniera. Splendidamente suonato da Paolo Giovenchi alle chitarre, Dayana Sciapichetti alla fisarmonica, all’armonica e alle tastiere, da Alessandro Valle – bravissimo alla pedal steel e al dobro – da Guido Guglielminetti al basso e da Elio Rivagli alla batteria il disco ci offre davvero dieci canzoni di grande valore musicale e letterario. Tanti i brani che mi hanno colpito dall’iniziale e autoironica “Eccolo lo stronzo” al lirismo quasi metafisico di “Pastore di nuvole” che chiude in bellezza il disco con un riuscitissimo intervento di pianoforte di Alessandro Arianti, da “Il fuoco e la danza” ispirata ai nativi americani all’ottima “Le vespe” vestita di un efficace sound tex mex; da “Ma che vuoi da me?” eccellente traduzione di una bella canzone di Tom Russell e Peter Case alla commovente “Venti gradi sottozero” dedicata allo struggente tema dell’emigrazione; da “Aldilà del confine” segnata da un grande solo di pedal steel a “Stivali e tequila” introdotta da una bella armonica graffiante e “dylaniana”. E a proposito di Dylan e di armonica c’è da segnalare l’intervento di armonica del fratello Francesco in “Ma che vuoi da me”, ospite del disco insieme ad un grande bassista che non avrebbe bisogno di presentazioni: Gregg Cohen. Davvero un gran bel lavoro che farà “vibrare” le nostre emozioni per tanto, tanto tempo.
Fabrizio Poggi
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