di Tiziano Menduto
“Quando parliamo di musica popolare parliamo sempre di radici, come se la musica fosse obbligata a rimanere sempre nello stesso posto. Ma dovremmo parlare di ali, e dovremmo parlare di piedi: la musica è immateriale, non conosce confini, attraversa mari e deserti seguendo i passi dei migranti, dei rifugiati, degli esuli, dei viaggiatori. Non sono radici del passato, sono semi del futuro portati dal vento”. Basterebbe forse questa frase, così diversa da quello spirito museale che spesso ci affligge quando ci occupiamo di musiche popolari, per raccontare la collana di canti migranti Roma forestiera e il senso del libro-CD We are not going back – musiche migranti di resistenza, orgoglio e memoria correlato alla collana ed edito dall’etichetta friulana Nota in collaborazione con il Circolo Gianni Bosio e l’Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi.
La frase è di Alessandro Portelli, curatore della collana: storico, ricercatore, docente di letteratura anglo-americana e critico musicale, anche se non ama definirsi tale. Portelli ha raccontato e si è raccontato a lungo in una bella intervista al nostro direttore, Nicola Cossar: www.folkbulletin.com/crossroads-in-italia-alessandro-portelli-racconta-a-folk-bulletin/. Nella presentazione del disco, che apre il libro-CD, Portelli ci ricorda che se negli anni Sessanta l’interesse per la musica tradizionale emergeva dal mondo degli operai, delle classi non egemoni che avevano affidato soprattutto alla musica, al canto e alla danza, la loro memoria e la loro presenza nella storia; ora sono altre le facce che ci guardano dalle pagine dei giornali e dagli schermi delle televisioni. Sono quelle dei migranti. Sono loro che dovrebbero oggi formare la sintassi dei nostri pensieri, l’orizzonte della città, il presente, come scriveva Franco Fortini.
E la musica ora, attraverso i migranti, sta tornando in ogni luogo, ad esprimere non solo una cultura separata, ma anche una cultura che vuole trovare uno spazio per inserirsi e una voce per difendersi.
Il libro-CD, terza produzione della collana, raccoglie i risultati di una ricerca delle musiche di questi migranti che entrano nel nostro paese portando nuove culture bisognose di contatti, di incontri, di contaminazioni. Culture che possono mettere in crisi il nostro stesso concetto di tradizione e ridurre l’importanza che diamo non solo ai confini, ma anche alla lingua e alle origini: la tradizione di un paese è la tradizione di chi il paese lo vive, di chi ci suona e canta, indipendentemente dal luogo di nascita.
I canti migranti raccolti nel CD raccontano dei viaggi di chi arriva, del desiderio di condivisione e integrazione, le difficoltà a misurarsi con parole nuove (come la parola straniero) e le difficoltà di chi vive in paesi contrassegnati da povertà e guerre. Sono canzoni cantate da nigeriani, indiani, somali, afgani, rumeni, senegalesi, mauritani, curdi, ecuadoregni, etiopi, … canzoni che ci mostrano come la contaminazione sia un elemento portante di ogni tradizione, di ogni cultura che si trasforma. E alcuni canti nascono anche da canzoni commerciali che vengono trasfigurate, trasformate, vengono funzionalizzate in una nuova cultura ibrida. Un esempio del processo di cambiamento dei materiali culturali che i migranti portano con sé, i cui testi restano apparentemente gli stessi ma cambiano spesso di senso per il solo fatto di cambiare di luogo.
Un lavoro, quello di Alessandro Portelli, che investiga dunque i suoni delle nuove migrazioni, documentati con registrazioni sul campo, e testimonia l’intreccio di diversità e contaminazioni che ci aiutano a riflettere sul senso dei confini che mettono in contatto, più che dividere. Sulla necessità di governare i cambiamenti delle culture che si incontrano, invece di subirli. Come ha ben spiegato Valter Colle, anima dell’etichetta Nota, durante una presentazione della collana il 28 luglio 2017 al Premio nazionale città di Loano per la musica tradizionale italiana.
Il libro-CD We are not going back (che è anche il titolo della omonima canzone composta dai Têtes de Bois) ci permette non solo di conoscere interessanti contributi del popolo nascosto che ci guarda nelle città, dai giornali e dalle televisioni, ma di ricercare prima le convergenze che le differenze. Questi nuovi popoli, questi nuovi migranti, affrontano sempre di più le nostre stesse criticità, esprimono gli stessi sentimenti che abbiamo oggi o che abbiamo avuto in passato. Questi emigranti esprimono la necessità di un incontro che non si può rimandare all’infinito, un incontro che è prima di tutto culturale, piuttosto che fisico, un’esigenza di cooperare tutti per una società nuova, disposta e desiderosa di modificarsi e contaminarsi.
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