di Christian Romanini
Il mensile in lingua friulana La Patrie dal Friûl, sul numero di agosto del 2017, pubblicava un’intervista esclusiva a Elena Ledda.
Grazie alla disponibilità della Redazione de La Patrie dal Friûl, che ringraziamo, vi proponiamo la versione in italiano di quell’intervista che potete leggere anche in lingua friulana a questo link: www.lapatriedalfriul.org/?p=19064Elena Ledda, vôs de Sardegne
Parlare di musica e Sardegna oggi è impossibile senza citare Elena Ledda (Selargius, 17 maggio 1959). Talento naturale, studio e ricerca, una carriera lirica abbandonata per dedicarsi alla musica tradizionale con grandi collaborazioni internazionali, ma anche impegno attivo in politica con una forte coscienza identitaria, Elena Ledda anche quest’anno (2017, n.d.r.) è tornata in Friuli grazie a Folkest, dopo che nel 2016 era stata protagonista di quell’edizione dedicata proprio alla Sardegna.
Innanzitutto io non penso di essere la voce della Sardegna e non voglio nemmeno avere questa responsabilità… – ci tiene a precisare Elena Ledda prima di iniziare a rispondere alle domande.
C.R.: Come hai conosciuto il Friuli?
E.L.: Il Friuli è il primo posto dove sono venuta a cantare per lavoro fuori dalla Sardegna, partecipando a Folkest. Avevo vent’anni!
C.R.: Cosa hai trovato qui?
I luoghi dei ricordi di guerra di mio nonno e che credevo fossero sue invenzioni. Ma quando ho potuto vedere coi miei occhi dove lui era stato, mi sono emozionata moltissimo. Poi ho subito notato che il paesaggio è molto diverso: in estate in Sardegna è tutto secco, invece in Friuli era tutto verde e addirittura si annullavano in concerti a causa della pioggia… E tante emozioni che mi hanno legata a questa terra, che amo moltissimo.
C.R.: Che legame è nato col Friuli dal punto di vista personale?
E.L.: Una grande amicizia con Andrea Del Favero e tanti musicisti come Riccardo Tesi e gli altri che dopo hanno segnato la world music in Italia: ci siamo conosciuti tutti qui grazie a Folkest.
C.R.: Per te quale legame c’è tra Friuli e Sardegna?
E.L.: Anche se siamo abbastanza lontani, ci sono tanti aspetti che ci accomunano, come la difesa dell’identità e della lingua, del nostro essere diversi che è anche la nostra fortuna: in un mondo dove tutti sono uguali, avere una propria lingua, una propria cultura e una propria musica è una ricchezza infinita. Sarebbe un grave danno per il mondo se tutto questo andasse perduto. Non è una questione di affetto personale, perchè non sarebbe sufficiente. Si tratta di un valore obiettivo: il legame tra cultura e lingue è indissolubile. Io canto in sardo e la musica che faccio è legata fortemente alla lingua, perchè quando canto in un’altra lingua, la mia voce cambia. Se sentiamo cantare una cantante irlandese, o una spagnola o un’araba, sentiamo suoni diverso perchè le loro lingue condizionano la loro voce.
C.R.: Della lingua del Friuli cosa ti colpisce?
E.L.: Una profonda musicalità, caratteristica che hanno tante altre lingue che si parlano in Italia, ben più dell’italiano.
C.R.: Cosa pensi quando ci definiscono minoranze linguistiche?
E.L.: Che è una realtà come lo è l’italiano nel mondo. A chi mi chiede perchè canto in sardo che nessuno mi capisce, io rispondo: Perchè? Se canto in italiano, dove mi capiscono?. Il mio orizzonte va oltre l’Italia, ma cantando in sardo sono più autentica e più musicale: se canto in italiano non mi capisce nessuno ugualmente ed io sono ridicola.
C.R.: Cosa rappresenta Luigi Lai (1932)?
E.L.: Luigi Lai è un monumento non solo per la Sardegna, ma per il mondo intero: il massimo rappresentante della cultura popolare, ma al tempo stesso un’autorità nella musica internazionale. Lai può suonare in tutti i teatri più importanti del mondo, come il Metropolitan di New York, ma anche nelle feste religiose di paese in Sardegna: da oltre cinquant’anni accompagna con le launeddas la processione di Sant’Efisio, un voto che va avanti da quasi quattrocento anni a Casteddu (Cagliari, n.d.r.), una processione che non si è mai fermata, nemmeno sotto i bombardamenti della seconda guerra mondiale.
C.R.: Vuoi ricordare Andrea Parodi (1955-2006)?
E.L.: Ricordo Andrea nel giorno del suo compleanno il 18 luglio, ma lo ricordo anche nel giorno della sua scomparsa il 17 ottobre. E lo ricordiamo sempre col Premio e con la Fondazione che portano il suo nome, nati per proseguire il suo lavoro, perchè con lui più volte avevamo detto che il nostro obiettivo doveva essere quello di creare una strada per chi viene dopo di noi.
C.R.: C’è differenza tra il concetto di musica sarda e musica in sardo?
E.L.: Oggi in Sardegna c’è molta più musica in sardo, che non musica sarda, ovvero una grande confusione che forse è partita da Napoli, col genere neomelodico. E così anche in Sardegna abbonda la musica in lingua sarda che però per le sue caratteristiche non mi piace. Dopo sarà la storia a decidere cosa rimarrà, come è già successo per la musica tradizionale dove molte cose brutte sono scomparse e altre sono rimaste proprio perchè erano belle musicalmente, anche se quella società non esiste più.
C.R.: Cosa dici a chi rinnega le proprie radici?
E.L.: Gli dico che è un povero e che mi dispiace per lui.
C.R.: Da un po’ di tempo sembra che la politica abbia riscoperto un certo neocentralismo… che ne pensi?
E.L.: Non è un’impressione: è una tragedia! In Sardegna sono state abolite le provincie che avevano il nome delle città e ora non si capisce più nulla! Per esempio adesso io non sono in provincia di Casteddu (Cagliari, n.d.r.), ma nell’area metropolitana. Non posso essere a favore di qualsiasi riforma che abolisca quelle poche forme di autonomia che avevamo. In Sardegna, all’ultimo referendum (dicembre 2016, n.d.r.) il 72 % della gente ha votato per il NO.
C.R.: Come si può insegnare ai bambini la musica tradizionale?
E.L.: Posso portare la mia esperienza: insegno ai bambini con un progetto che si chiama Gioga, gioga e, appunto giocando, questi bimbi imparano non solo la musica, ma anche la lingua, la cultura e il ritmo del ballo. In tre giorni i bambini imparano moltissimo e sono entusiasti.
C.R.: Cosa pensi dei talent show?
E.L.: Non mi sento di criticare i giovani, che cercano solo un’occasione per esprimersi. Io mi arrabbio con i grandi che dicono loro di fare gavetta. Oggi forse per i giovani è molto più difficile fare gavetta e i giovani anche la farebbero, ma se non hanno luoghi dove suonare, dove devono andare? Una volta non era più facile, ma era più possibile perché c’era più attenzione per i giovani che suonavano nei locali e nelle piazze.
C.R.: Chiudiamo con un ricordo di Maria Carta (1934-2004)…
E.L.: Maria Carta è stata una cantante importante per la Sardegna, ma non solo, perchè anche lei ha aperto una strada, cambiando il modo di pensare alla musica popolare. Negli anni Settanta ha dimostrato coi fatti che la musica popolare, quella che molti ritenevano figlia di un dio minore, poteva entrare nei teatri senza alcun complesso di inferiorità. Questo ha permesso a quei musicisti, quasi rassegnati a suonare solo nelle sagre e nel mezzo dell’odore di salsiccia, di poter entrare nei grandi teatri: come è capitato anche a me che ho potuto cantare alla Filarmonica di Berlino, all’Opera di Francoforte….
C.R.: C’è qualche giovane che segue l’esempio di Maria Carta, Luigi Lai, il tuo?
E.L.: In Sardegna c’è molta musica, ma forse c’è troppa confusione. Io dico che si dovrebbe difendere la nostra essenza, i nostri moduli, i nostri strumenti, i nostri ritmi e non importare tutto quello che viene da fuori. Ma per far questo si dovrebbe aver prima studiato e conoscere la tradizione: se non si conosce, come si può andare avanti?
Le foto contenute nell’articolo sono state scattate da Walter Menegaldo e Angelo Salvin a Folkest 2016.
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