di Daniel Spizzo
Decisamente ricco e stimolante il Czech Crossroads Festival di quest’anno. Siamo alla quinta edizione e i nostri amici di Ostrava non finiscono di stupirci. Format, location e concept, di anno in anno, assumono una valenza strategica sempre più orientata a cogliere in anticipo le tendenze future della global music, rendendoli così degni di essere imitati – a mio avviso – anche da altri eventi in Europa, soprattutto in Italia.
Non si tratta un semplice Showcase festival che vuole presentare al mondo i talenti locali più promettenti. In realtà i due giorni di Crossroads servono per accendere i motori (o meglio, come vedremo, gli altiforni) al suo fratello maggiore, un evento clou: il Festival Colours of Ostrava. Si tratta del più quotato in Repubblica Ceca. Con i suoi circa 50.000 spettatori viene collocato addirittura dal Guardian tra i 10 top festivals in Europa.
Il tutto avviene dietro la sapiente regia di Zlata Holušová, la main dramaturge di Colours, che coadiuvata da Petra Hradilová, ne determina la filosofia di fondo. Per cui vedere Crossroads come un’iniziativa che vive di vita propria non ha senso. Funge, a dire il vero, quasi da prefestival destinato a confluire direttamente in Colours: il luogo pubblico e popolare dove verrà poi rigenerato secondo i dettami globali dell’odierno Music Remix. Ed è questo appunto che ne fa un unicum.
Il Format: vivere a traino di Colours of Ostrava
Partiamo dal format. E’ grosso modo sempre quello dal 2014. Czech Crossroads dura due giorni ed è rivolto essenzialmente agli addetti del settore della World Music, allargata al jazz e al folk: musicisti, produttori, agenti, art director ed esperti di vario genere, inclusi – strano a dirsi – anche DJ, interessati a conoscere la scena musicale del luogo.
Di mattina si inizia con una serie di conferenze su temi caldi della global music con ospiti di eccezione da tutto il mondo (tra cui quest’anno spiccano i nomi di Cheikh Lô, Roger Holdsworth, Chris Eckman, Lucy Duran e Simon Emmerson). Di seguito, il pomeriggio, i presenti vengono invitati, sul modello degli showcase del Womex, ad assistere alle esibizioni dal vivo di 14 nuove proposte musicali selezionate dai partners dell’iniziativa di quest’anno: dai magnifici sette giurati di Crossroads (per la Repubblica Ceca), da Katowice City of Gardens (per la Polonia), da Amity Civic Association/World Music (per la Slovacchia) e da Hangvető Zenei Terjesztő Társulás (per l’Ungheria).
Le performance alla fine sono sottoposte al voto della giuria di esperti e della giuria pubblica. Con l’annuncio ufficiale del vincitore o della vincitrice poi prende avvio Colours of Ostrava, che dura per altri quattro giorni da mercoledì a sabato. Orbene il maggiore valore aggiunto dell’iniziativa risiede proprio in questo: il fatto di rivivere parte delle esperienze (esperite quasi a porte chiuse accanto ai cantanti visti sui showcase i giorni prima) questa volta in mezzo al numeroso pubblico del Festival che davanti a ben tredici palchi mirabilmente allestiti e gestiti segue le innumerevoli conferenze di eminenti relatori e l’esibizione di una rilevante fetta del gotha della musica contemporanea (dai N.E.R.D arrivando fino a George Ezra, passando per Grace Jones e Ziggy Marley). Il tutto su sei giorni, dal 16 al 21 Luglio 2018.
La location: tutti intorno all’Athanor
Ma parliamo ora della location. E’ semplicemente magica. Palchi e sale conferenze si trovano nel bel mezzo del vecchio complesso siderurgico di Dolní Vítkovice (tra la miniera di carbone, i depositi di coke, le halles soufflantes e i due altiforni di fabbricazione penso ancora sovietica). Con Crossroads i presenti possono assistere anche agli ultimi preparativi nei camerini, alle prove generali sui palchi grandi e piccoli, agli allestimenti degli stand dei designer locali e dei rivenditori della birra Radegast. Siamo nella città una volta proibita, nel cosiddetto Stahlherz – il cuore d’acciaio – dell’Impero Asburgico.
Oggi è stata aperto la pubblico. L’ampio sito, con i suoi giganteschi silos per la depurazione dei gas, con i bacini di recupero della slacca e l’infinito retaggio roteante di tubi arrugginiti, come altri siti industriali in Europa è stato riconvertito in una specie di fabbrica culturale atta a ospitare università, PMI innovative e startups, incubatori e acceleratori d’impresa, musei, laboratori, spazi per fablabs e coworkers, sale di registrazione e di concerto. Per intenderci, siamo in linea con i modelli di Ferropolis, di Belval o della Voelklinger Huette oggi patrimonio UNESCO.
Ma con una piccola differenza: la genuinità e l’autenticità conservata. Si perché, a differenza di questi ultimi, Dolní Vítkovice ha conservato molto della sua purezza. La ruggine qui è ancora ruggine, avanza; l’eternit dei tubi d’acqua per il raffreddamento può essere ancora toccato con le mani – pur essendo di amianto – e non è stato eliminato. Lo possiamo toccare in mezzo ai resti di lana di vetro e di pietrischetto carbonifero. Ma soprattutto l’altoforno, il mitico Athanor alchemico, possiede ancora un cuore rosso pulsante fatto di mattoni refrattari screpolati dall’altissima temperatura.
Eccolo: il simbolo del Festival. L’Altoforno, l’Athanor alchemico. Tutto ruota intorno a lui. Idealmente il remix delle sonorità, delle note, delle parole della global music, partendo dal rap più indecoroso, passando per Cheikh Lô e i Dálava, per arrivare alle divine orchestrazioni di Dvořák, convergono sul suo ventre. Se avete un’oretta vi consiglio di visitarlo: prendete l’ascensore ricavato dal vecchio Lift che caricava direttamente il coke e il minerario nell’altoforno, per arrivare a metà della sua altezza, poi proseguite a piedi, sulle scale, attorno alla capsula che è stata innestata sulla sfiatone gigante della sua cima.
Lassù troverete un bar su più piani. Il vento porterà verso di voi, in alto, soprattutto le note dei campionatori dei DJ. Sporgendovi dall’ultima terrazza, che dà sui nuovi altiforni e sui laminatoi d’avanguardia dell’Arcelor Mittal, avrete una visione su che cos’è Colours of Ostrava: un’enorme industria musicale.
Il concept: proiettati verso la mission elettronica
Trovare il concept giusto per un Festival non è facile. L’Art Director sa cosa vuol dire tormentarsi per giornate intere alla sua ricerca. E forse alla fine la formula scovata risulta comunque essere un piccolo compromesso, che non rispecchia appieno la forza dell’idea che ha in mente. Quest’anno il tema dell’incrocio (crossroads) si è ampliato (negli occhi delle due responsabili Zlata Holušová, la main dramaturge e Petra Hradilová) per guardare oltre alla musica della Cechia per arrivare ad inglobare la musica dell’Europa centro-orientale e anche quella della diaspora ceca soprattutto negli USA. Ma la vera apertura dell’edizione di quest’anno è stata compiuta verso la musica elettronica contemporanea.
Finora non ho parlato volutamente del programma parallelo di quest’anno di Crossroads intitolato appunto: Electronic Mission. Per un semplice motivo. Mi premeva prima darvi una visione d’insieme, dall’altro dell’Athanor. La terra su cui sono stati ideati Crossroads + Coulours fanno parte di un bacino siderurgico. Si produce acciaio, di altissima qualità. Arcelor Mittal è main sponsor. Stiamo parlando di grande industria. Il pensiero più affine allo sponsor è quello della grande industria musicale. Giusto? Bene. Quali sono i trend a livello di World Music Industry oggi? Guardate qua.
Le entrate a livello di canali streaming e digital la fanno da padrone. Soprattutto il primo canale cresce di molto negli ultimi tre anni. Aggiungete a questo i dati sul ticketing di IQ nel report 2018. Secondo voi – tra i vari generi musicali che conoscete – chi fa più guadagni al livello di vendite online e sui live? I big data parlano chiaro. Vi lascio immaginare…
Capite ora perché alla fine il programma parallelo intitolato Elettronic Mission diventa centrale per Crossroads? Riuscite a immaginare che senso può avere chiamare attori della scena musicale elettronica in un festival tutto sommato folk ed etnomusicale a Ostrava? L’obiettivo dichiarato sul sito web ufficiale è quello di creare reti e piattaforme per la discussione, la condivisione di esperienze, conoscenze e competenze nel settore della musica elettronica.
Se scendiamo ora dall’altoforno, piano dopo piano, e alla base entriamo nel suo ventre, lì dove una volta avveniva il processo di fusione del metallo, in quel grembo materno della terra che fa nascere la preziosa colata fluida, dal colore oro fuoco, sentirete una tremenda puzza di zolfo. Alcuni di voi avranno paura del Diavolo. Altri delle grandi macchine di potere in mano alle multinazionali. Altri infine si diranno che tutto sommato il Volk di questa terra vive di Arte, Musica e Cultura grazie alla grande industria dei tempi dell’Impero e di quella di adesso.
Chi ha vinto veramente? I Dálava
Con il lume del poi, non ci stupiamo quindi che sia la giuria di esperti che quella pubblica abbiano decretato come vincitrice assoluta Lenka Dusilová. Siamo in linea con i trend della World Music contemporanea. L’industria musicale di oggi detta legge proprio qui, sul sito industriale di Dolní Vítkovice. E’ in linea con la electronic mission dell’Altoforno. Lo spazio è ben delimitato dai circuiti elettrici e dai tubi di aria calda compressa che lo circondano. Il suo tempo segue i ritmi e i sound della produzione delle nuove fonderie elettriche, teleguidate con devices digitali di ultima generazione.
La sua live performance mi è sembrata quella di una Sirena dal canto incantevole addetta al pulpito di commando dell’Athanor. Davanti a sé una scrivania con luci, lucette e manopoline deputate al controllo dei carrelli di coke e di minerario, un microfono per cantare ordini ed incantare gli uomini dell’équipe nella fonderia. Tutto sotto il suo controllo sovrano. Una specie di Loreley che dall’alto della capsula è scesa giù nella sala comandi, accanto al ventre materno della fonderia.
I campionatori loop sfiatavano ritmi regolari di carico e scarico della materie prime: il tutto con una messa in scena un po’ spartana e una presenza scenica direi – per non essere cattivo – da segretaria poi passata all’ufficio commerciale, che alla fine della giornata rendiconta la produzione giornaliera al suo capo. Il tutto sicuramente avrebbe potuto beneficiare di qualche arricchimento scenografico. La standing ovation finale ai miei occhi rimane un Mistero. Per me straniero in terra ceca, deputato alla valutazione del potenziale di promozione in Italia e in Europa dello spettacolo della Dusilová presentato a Crossroads 2018, non saprei da che parti cominciare. Peccato. Anche perché in passato la Dusilová si è esibita in spettacoli folk, rock e pop molto interessanti con i Čechomor (Proměny), con i Baromantika (Baromantická), con i Blue Effect e con David Koller. Ha la fama di sperimentare molto, la Dusilová, tra vari generi, ma in questo caso la platea internazionale non può di certo cavalcare l’onda del suo successo in patria. Manca un ponte che possa proiettarla sulla scena internazionale.
Diverso il discorso per la performance dei Dálava (arrivati secondi a quanto pare) e della maestria soprattutto della cantante Julia Ulehla e del chitarrista Aram Bajakian. Qui entriamo decisamente in un altro mondo. Intanto la Ulehla ha saputo subito incantare con il suo inglese candido e gioioso-infantile, la platea straniera: arriva dal mondo del Belcanto e non necessita di alcun impianto. Domina l’acustica della sala, addirittura piena di pubblico, con il suo corpo e il suo campo energetico, senza amplificazione. Senza effetti, pura, nell’ambiente circostante ha saputo non farsi intimorire dal complesso industriale circostante – veramente coraggiosa. Con l’aiuto poi del gruppo è riuscita a portare la Storia del canto popolare moravo, dentro, nella città proibita dell’acciaio. Non sembrano scesi dall’alto, ma da sotto terra, i Dálava, collegati alle radici profonde che ancora troviamo sotto, nella miniera di carbone o sotto l’Athanor. Il suond in alcuni brani sembrava una combinazione psichedelica tra Neil Young, Lou Reed, Velvet Underground e il blues rock “bizzarre”. Ogni canzone nell’animo di Julia veniva rappresentata come un organismo vivente, una cellula viva di memoria con la sua energia vitale.
Dall’acustico all’amplificato il passaggio è stato dirompente e sono stati capaci di risvegliare attraverso un richiamo musicale lontano, con sonorità remote, alcune parti dormienti ben presenti in noi. Rendendo così dal vivo, attraverso un’esecuzione danzante e ipnotizzante tra i presenti, lo spirito del loro ultimo album: The Book of Transfigurations, Il libro delle trasfigurazioni. Qualcosa in noi è rinato, dopo la rottura dei confini spazio temporali. I Dálava ci hanno trasfigurati, trasportandoci in un altro mondo, dal basso verso l’alto. Hanno saputo dominare fino in fondo, con la loro umanità, la macchina della grande industria, con tutta la sua puzza di zolfo. Ecco perché sono loro ad aver vinto moralmente l’edizione 2018.
Electro Folkmission
La nostra missione elettronica in terra ceca però non finisce qua. Visto che format, location e concept ci hanno provocato sul versante electro-folk, electro-jazz ed electro world, mi preme chiudere col presentarvi almeno altre due belle scoperte che abbiamo compiuto. Tra i 14 performers, sul versante electro-folk, spicca per me innanzitutto il gruppo slesiano degli Krzikopa (da pronunziare in italiano Ksci-copa) che nel mixare strumenti tradizionali (violini, fisarmoniche) con i ritmi (D’n’B, dubstep) delle loro console e drums costumizzati, hanno ri-arrangiato brani tradizionali del più grande bacino industriale della Polonia in chiave dance. Vecchie canzoni slesiane sono così stati rese ballabili anche per il pubblico di Colours. Innovazione nella tradizione, nel più puro stile progressive electro-folk. Veramente divertenti e coinvolgenti, con dinamiche mozzafiato.
E poi ci sono gli Zabelov: letteralmente stupefacenti per il loro coraggio innovativo. Un gruppo composto da due giovani – Roman Zabelov e Jan Šikl – veri e propri perfezionisti della musica che hanno unito le tecniche del fisarmonicismo industriale fine ottocento al mondo delle loop station, degli effetti midi e del percussionismo batteristico più sperimentale del nuovo millennio. La loro musica sembra, nel contempo, jazz e non-jazz, folk e iperfolk, world e rootmusic. Il canto di Zabelov si combina con sonorità che ricordano le arpe laser di Jean Michel Jarre, per poi perdersi in vocalizzi eterei imprevedibili, ma sotto il pieno controllo ritmico del batterista Šikl. Decisamente provocatori i field recordings, che vengono esaltati da piccoli virtuosismi ai fiati e ai moog. Siamo curiosi di conoscere il loro prossimo album EG in uscita il 5 Ottobre. Con gli Zabelov possiamo proprio asserire che la nostra missione elettronica in terra ceca ha portato a scoperte di gran rilievo!
Le foto sono di Andrea Del Favero
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