Il Gruppo Operaio ‘E Zezi è da tempo sostenitore della lotta per l’autodeterminazione del popolo Sahrawi tanto da dedicargli il disco Zezi vivi nel 1996. Da allora fino ad oggi continuiamo ad appoggiare la lotta dei popoli contro gli oppressori, nel Sahara così come nel Kurdistan, in Palestina così come in Europa.
L’inaudita censura operata dal Marocco nei confronti di una mostra al Centre Pompidou di Parigi obbliga a una profonda riflessione su tutti i nuovi totalitarismi e i nuovi e vecchi oppressori dei popoli.
Questa è la nuova Francia di Macron, quello che schira i carri armati e i poliziotti in tenuta antisommossa contro la gente che manifesta ballando nelle vie di Parigi. Proprio a settant’anni dalla Dichiarazioni dei diritti dell’Uomo!!!!
Riportiamo qui di seguito la lunga protesta da loro inoltrata alle autorità parigine.
All’attenzione del Signor Serge Lavignes Presidente del Centre George Pompidou
30 ottobre, 12 novembre 2018
Un articolo pubblicato dal giornale online Algerie Patriotique («Le Centre George-Pompidou consacre une galerie à la lutte du peuple sahraoui»), dal titolo e dai contenuti così inattendibili da screditarsi da soli nel giro di poche righe, è stato usato strumentalmente per mettere in discussione l’autonomia del Centre Pompidou e il contenuto dell’opera esposta, temporaneamente, in un’area dedicata al libro Necessità dei volti.
Il materiale proposto dal Pompidou, fa riferimento al Sahara Occidentale e rappresenta una rara testimonianza della tragedia vissuta da due popolazioni limitrofe nel corso del conflitto tuttora ricordato dagli storici come la «guerra fantasma». Il libro da cui prende nome il progetto, mostrato chiuso nella sua speciale custodia in una vetrina del museo, come avvenuto in altri spazi pubblici di differenti paesi, è un oggetto nato durante il con- fronto armato iniziato il 6 novembre 1975, preludio dell’invasione marocchina dell’ex Sahara spagnolo e della resistenza sahrawi. Dal mancato processo di decolonizzazione del territorio (sollecitato già dal 1964 dalle Nazioni Unite e da queste immediatamente ripro- posto dopo la firma del cessate il fuoco tra Marocco e Fronte Polisario del 6 settembre 1991), vengono l’esilio di metà della popolazione sahrawi, costretta ancora a vivere nei campi profughi allestiti nel deserto algerino dell’Hammada, e la trattativa di pace bloccata negli anni dagli infiniti rimandi di Rabat. Sul processo di autodeterminazione del territorio, continua ad esprimersi la comunità internazionale. Appena il 31 ottobre scorso, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ha prorogato ancora per un semestre, con il voto favorevole della Francia, il mandato alla «Minurso» (Missione delle Nazioni Unite per il referendum nel Sa- hara Occidentale) ed ha fissato per il 5 e 6 dicembre, a Ginevra, le date di ripresa della trat- tativa interrotta, attraverso negoziati diretti e senza condizioni tra i due firmatari.
Lo statuto giuridico del Sahara Occidentale è quello di «territorio non autonomo», secondo l’espressione conferita alla regione dalle Nazioni Unite e adottata dall’insieme delle cancellerie mondiali. Al punto che nessuna Nazione al mondo, compresa la Francia, ri- conosce ufficialmente come appartenente al Regno del Marocco la parte, straordinariamente ricca di risorse naturali, che resta occupata manu militari. «Necessità dei volti» raccoglie, nella sua complessa articolazione, fotografie che del lungo conflitto portano trac- cia: i lineamenti di chi è stato mandato in guerra a morire per un salario e l’ombra, appena visibile, di chi quelle fotografie ha sottratto all’oblio con un gesto di custodia. Mostrate dalla resistenza sahrawi ai pochi giornalisti o funzionari delle organizzazioni internazionali che si avventuravano nelle zone di guerra, le fotografie personali dei soldati, le lettere, le attrezzature e i documenti militari presi al termine degli scontri armati, risultavano l’unica evidenza da opporre alla strategia mediatica del Regno del Marocco che negava l’esistenza stessa della guerra e delle migliaia di morti. Al termine del confronto armato e nella prospettiva di una soluzione definitiva dello statuto dell’ex possedimento spagnolo, le fotografie raccolte non sono state disperse. Conservate in povere casse per munizioni nel cortile del Museo sahrawi della resistenza, chiuse come chiuso è il libro che da venti anni ne conserva una sequenza di 483 scatti, potranno un giorno essere restituite da famiglia a famiglia, sottraendosi all’obbligo di cerimonie inadeguate al dolore provocato dalle armi e dal dominio coloniale.
A distanza di tempo, un episodio inedito, forse unico, di rapporto tra popolazioni con- trapposte in guerra si rivela in quell’archivio, dove riposano insieme i ritratti e il gesto che li ha messi al riparo. Qualcosa che brucia al suo interno, perché di fuoco si tratta, ci dice che forse è ancora possibile superare l’odio se le offese saranno affrontate, se una ingiu- stizia, venuta a devastare la vita di innumerevoli famiglie, avrà soluzione. Occorre pazienza, ma quella comunità di fotografie, in gran parte anonime e dimenticate, in futuro potrebbe accompagnare chi, dopo aver subito una perdita, vorrà passare frontiere oggi insuperabili. Nessuna certezza ci accompagna nel lavoro ma continuiamo ad agire, a tentare. La storia dei singoli, dei senza volto e dei senza diritti ha una forza che sottovalutiamo e che un giorno potrebbe sorprenderci. Come accaduto in Sudafrica, in diverse condizioni, nel delicato e insieme drammatico processo di riconciliazione nazionale basato sulle tragedie dei singoli e sul confronto diretto tra nemici.
Nel settembre 2012, per la consegna pubblica di «Necessità dei volti» alla Biblioteque Kandinsky, scrivevamo:
Un giorno […] si daranno le condizioni di giustizia che permettano di restituire quelle immagini ai loro proprietari o a chi vi è ritratto: non a uno Stato, ma alle famiglie che in una guerra insensata hanno perso i loro cari e che non sempre ne hanno potuto seppellire il corpo. È nel senso di questo movimento che la raccolta di fotografie non può costituire un possesso. Essa rappresenta invece tutta l’urgenza di una transizione verso la pace. È solo in vista di questo movimento che la raccolta può essere mantenuta.
[…] Vale la pena di continuare il progetto, perché in esso dimora un reale desiderio politico di trasformazione. La pace significherà che il dovere della memoria può e deve essere condiviso.
Se la memoria è parte integrante del gesto di conservazione delle fotografie da parte dei sahrawi e per conseguenza di quello di «Necessità dei volti», è proprio perché una necessità la costringe a restare come progetto, in attesa di ottenere giustizia. Nella provvisorietà di questo gesto è inscritta tuttavia anche l’esigenza che i singoli, che l’ingiustizia l’hanno subita sulla loro pelle, possano voler dimenticare e che essi facciano così valere una sorta di diritto all’oblio. Una memoria che non sia quella degli Stati, che non sia istituzione di una memoria ufficiale, implica che l’esistenza stessa di queste fotografie non debba più essere difesa. Implica che le fotografie, a un certo punto, possono e forse devono essere lasciate andare, al limite scomparire o anche essere dimenticate da parte di coloro che le accoglieranno a loro volta. E che le accoglieranno senza che nessuno si illuda che un ritratto valga da rimborso per tutto ciò che la guerra ha portato via. Solo allora questa collezione di fotografie potrà venire dissolta, per trovare anch’essa la pace che attende.
Il libro resta chiuso in pubblico perché custodisce il segreto che agita le sue pagine, ma non è sempre così. In luoghi privati, in abitazioni che hanno accolto i ritratti e le loro storie silenziose, in luoghi adatti allo studio e alla conversazione, «Necessità dei volti» ha lenta- mente invitato a guardare. Oltre trecento case, di diverse città europee, hanno prestato un ambiente in cui discutere e vedere. Due persone, tre, quattro o dieci, ma sempre un gruppo ridotto di ospiti, hanno avuto il tempo di riflettere e parlare. Se volevano, se pensavano che non era stato sufficiente guardare. Molte lingue si sono espresse in case private o in luoghi pubblici, dando diversa sonorità ai pensieri e alle esitazioni. Mai una registrazione audio o visiva di quanto accaduto in ogni singolo incontro – domani potremmo rimpiangere di aver lasciato cadere la molteplicità delle voci, l’intensità degli sguardi e la facilità o l’affanno a parlare venuti dall’apertura di quelle pagine –, ma il ricordo personale e mute- vole dell’incontro con le fotografie è stato preferito ad una sua fissità. Mai una esposizione pubblica delle immagini, mai la loro verticalizzazione ad una parete, in un museo o in una galleria d’arte. Sono stati piuttosto i corpi di chi guardava, in privato, a curvarsi sulle immagini «straniere», come si fa con quelle dei propri cari, tenendole nel palmo della mano. Trecento e più famiglie, hanno offerto ospitalità ai ritratti e a chi poneva domande o restava muto davanti ad essi. In alcune occasioni, in università, scuole di giornalismo, alberghi, biblioteche ed accademie, la conversazione pubblica ha coinvolto alcune migliaia di persone. A Roma, Beirut, Berlino, Rotterdam, Parigi (ancor prima della donazione alla Bibliothèque Kandinsky), Lisbona, Londra, Ljubljana, Abuja, Tindouf, Bruxelles, Sundarban, Ramallah, Saragozza, ma soprattutto in piccoli centri urbani e contadini, i ritratti hanno stimolato le diverse lingue del mondo a posizionarsi, a pronunciare l’impronuncia- bile di un conflitto nascosto e di una dimenticanza riservata alle vittime, specie se umili. In ogni caso «Necessità dei volti» ha deciso in libertà l’aprirsi o il restare chiuso, non vuole essere obbligato a farlo per volontà esterna. Tantomeno per ragioni di Stato, che dell’«arte», o dell’«onore dei caduti», non sa che farne.
Alle intimidazioni inviate dalla casa reale, per lo più in forma seriale e sgrammaticata, nello sconcerto dei destinatari, sono abituati istituzioni e singoli ricercatori che osano studiare documenti provenienti dal Sahara Occidentale. Due anni orsono, la lettera di un fun- zionario di Mohammed VI, inviata alla Biennale di Venezia 2016, e riguardante il padiglione riservato alla ricerca dell’urbanista Manuel Herz sulle peculiarità dei campi profughi in Algeria («l’autogoverno degli esuli sahrawi nel deserto costituisce una strategia emancipativa per 35 milioni di rifugiati e di persone disperse nel mondo oggi»), spiegava perché il padiglione «Sahara Occidentale» meritava la chiusura: «Dedicando uno spazio ad un paese che non esiste […] i curatori passano da un pensiero critico e militante ad uno sfrontato progetto di propaganda. La nozione di uno stato del Sahara Occidentale costi- tuisce una fantasia pericolosa». E continuava annunciando un ulteriore rischio: «A voler forzare l’architettura in una dimensione politica rischiamo di dimenticare di fare architettura». In quel caso la risposta fu dignitosa. A salvaguardare la libertà programmatica del- l’istituzione veneziana, venne un netto e istantaneo rifiuto alla censura.
Negare ad ogni costo l’esistenza di un conflitto, fino a dichiarare tabù una terra e la sua memoria, è la postura ossessiva assunta da Rabat da tempi anteriori al pronunciamento della Corte internazionale dell’Aja dell’ottobre 1975. Postura maldestramente reiterata ma adatta a produrre qualche risultato, come a Parigi. Stavolta è dalla «Fondazione Nazionale dei Musei» del Marocco che si intima il silenzio sulla «fantasia pericolosa» messa in vetrina al Pompidou: «La posizione della Francia è incisa nella pietra ed è la più esplicita sui diritti che il Marocco ha su questo territorio del Regno». «Vi è costernazione in Marocco sulle motivazioni che hanno portato la vostra istituzione a partecipare alla propaganda di un movimento separatista finanziato notoriamente dall’Algeria. […] Una vostra indagine rivelerà la natura di questa operazione dei servizi algerini. […] L’Arte, nostra causa comune, non può soffrire a causa di queste iniziative». La lettera, indirizzata al Presidente del Centro George Pompidou, avrebbe potuto solo far sorridere i destinatari e messa da parte. Invece ha ottenuto l’immediata chiusura della sala in cui era allestita l’opera. Prima impedendone l’accesso con un laconico cartello: «Sala in corso di riordino», poi con la rimozione pura e semplice della vetrina. Nessuna comunicazione in merito ci è stata inviata, la sparizione dei materiali di «Necessità dei volti» ci è stata segnalata da varie persone che hanno trovato la sala chiusa. Dal personale, gentile ma imbarazzato dalle domande dei visitatori, sono venute risposte vaghe. Di certo non era loro compito fare chiarezza. Mentre si susseguivano notizie online e cartacee a favore o contro la censura, nessuno alla direzione del Pompidou si è sentito in dovere di consultarci.
A curare le attività di «Necessità dei volti» è il Collettivo informale Sahara Occidentale, in- sieme eterogeneo e fluido di ricercatori, che su singole iniziative trova collaboratori e relazioni adeguate alle fasi del suo sviluppo. Le intenzioni del collettivo sono pubbliche, i testi che lo rappresentano sono presso il Pompidou e in altri archivi, fondazioni o abitazioni private nel mondo. Il lungo e complesso progetto che impegna molte persone oltre quelli che hanno firmato i testi diffusi man mano nel tempo, non può spiegarsi con gli articoli che hanno decretato immeritatamente il Centro Pompidou «una galleria consacrata al popolo sahrawi». Tanto meno possono essere usati da funzionari della monarchia che oc- cupa illecitamente la terra sahrawi, per imporre l’invisibilità ad un libro che avrebbe semplicemente preferito non esistere.
Al Centro Pompidou, che ha negoziato la sua autonomia ed è rimasto in silenzio di fronte all’oltraggio di una censura di Stato, abbiamo comunicato la volontà di ritirare l’opera dai suoi spazi.
Cieco è chi guarda solo con gli occhi
Collettivo informale Sahara Occidentale, 16 novembre 2018
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