Luigi Faccini e Marina Piperno raccontano l’irripetibile viaggio in Italia di Alan Lomax e Diego Carpitella facendo rivivere quel nostro paese, ormai sconosciuto alla stragrande maggioranza della nostra popolazione fino a riappropriarsi della vitalità perduta di quella nostra gente, arricchendosi di quelle identità soffocate se non addirittura negate. Le prime presentazioni a Roma, in Sardegna e a Folkest.
di Andrea Del Favero
Luigi Monardo Faccini è personaggio difficilmente riconducibile a poche righe di cappello: si rischierebbe sicuramente di dimenticare alcune delle tante e significative esperienze della sua vita. Meglio allora affidarci a ciò che di lui dice il critico cinematografico Antonio Medici:
Autore di contenuti alti, raffinato nelle scelte stilistiche, Luigi Faccini è portatore di un cinema libero, esigente, scomodo. Lottatore dallo sguardo partecipe, scandaloso e poetico, ha mutuato dalla sua gente, i tenacissimi liguri di levante, la necessità del viaggio: come fatica e avventura, come scoperta ed esilio, come congedo e ritorno. Per sviluppare il suo discorso etico ed estetico, unico in Italia, ha utilizzato i più diversi mezzi tecnici e linguistici, dalla pellicola al nastro, dalla pittura alla fotografia, fino alla scrittura letteraria…
E quest’ultima sua fatica, RADICI, idealmente nata dalle fascinazioni popolari di Marina Piperno e dedicata allo spaccato che dell’Italia dei primi anni Cinquanta fecero Alan Lomax e Diego Carpitella, ha tuti i numeri per rappresentare un autentico avvenimento culturale, chiaramente per chi ha orecchi per intendere e occhi attenti ai mutamenti del mondo. Proprio quegli occhi curiosi che Luigi Faccini ti pianta addosso assieme al suo aperto sorriso. A quest’indagatore di anime non potevamo perder l’occasione per farci raccontare il percorso che ha portato alla realizzazione di quest’opera. Un film che segnerà una traccia, nel continuo riscontro tra le immagini dell’epoca e i momenti della musica popolari di oggi, pur nelle mutate funzioni della stessa.
Folk Bulletin: Quando e come Alan Lomax e Diego Carpitella sono entrati nella tua vita?
Per primo Lomax. Nei primi anni ’60. A Parigi, dove facevo scorpacciate di capolavori nella sala della Cinemateque diretta dal mitico Langlois. Scrivevo di cinema e Parigi era tappa obbligata. In Italia non esisteva ancora nulla di simile a quel tempio laico. E Parigi era stata, come sai, la seconda patria del blues e del jazz prima della seconda guerra mondiale. Dal suo grembo salvifico era nato l’Hot Club de France, il quintetto in cui brillavano Django Rheinardt e Stephane Grappelli. Con il jazz e il blues nero avevo dimestichezza, da ascoltatore, mio pasto mentale con la prosa on the road di Kerouac e il kaddish for Naomi di Ginsberg. I negozi di vinile della città, traboccanti di originali americani, erano per me una vera e propria trappola, stravizio sorridente, in cabina e cuffia, che contendeva ai film il tempo delle mie giornate. In un budello che si apriva sulla rive gauche avevo scovato Murderers’ Home e Blues in the Mississippi night, quattro facciate di un doppio che in copertina portava questa dicitura: Authentic Recordings from the Alan Lomax collection of Negro Folk Music, sotto l’immagine disegnata di sette neri, seduti e occhi persi, nella divisa a righe orizzontali grigie e nere degli ergastolani, incatenati l’uno all’altro. Il vinile risultava prodotto nel 1957 da Denis Preston per la Jazz Vogue, ma registrato nel 1947 da Alan Lomax nel Mississippi Penitentiary di Parchman con i forzati che lavoravano nelle piantagioni di cotone dello Yazoo Delta. Fu il mio primo incontro con le work song dei discendenti degli schiavi venduti sui moli di New Orleans. Quel doppio mi accompagna da più di cinquanta anni. Ascoltandolo ripetutamente, per la lavorazione di RADICI, è come se Lomax mi desse di gomito quando i colpi di mazza, tra il grido e il respiro, spaccavano pietre o inchiodavano binari alle traversine. Lomax è il nome che, nei miei vinile, ricorre sotto quelli di Leadbelly, Son House, Muddy Waters, Fred Mac Dowell, da lui scoperti, ma anche degli sconosciuti al grande pubblico che figurano nelle serie di Sounds of the south e di Southern journey registrate tra il 1959 e 1961. Magistrali, oltre le sue foto di copertina, le note di presentazione che narrano le brutalità patite dalla minoranza afro-americana. Alan Lomax! Il suo nome era il marchio di qualità che inseguivo negli acquisti, senza sapere che la stessa persona, pochi anni prima, era stato per lunghi mesi in Italia nel corso di una campagna di registrazione sul campo, risalendo lo stivale, dalla Sicilia, e toccando tutte le regioni italiane, tranne la Lucania e la Sardegna. Seppi di questo viaggio meraviglioso quando vidi spiccare il suo nome, questa volta insieme a quello di Diego Carpitella, in giallo, sul nero ornato di fiori stilizzati, che strillava FOLKLORE MUSICALE ITALIANO, registrazioni originali di Alan Lomax e Diego Carpitella. Erano un paio di vinile che pescai nella bottega del provvidenziale e romanissimo Consorti, in Viale Giulio Cesare, quasi di fronte all’omonima sala cinematografica. L’ascolto immediato mi spalancò un mondo infinitamente più ampio di quello che conoscevo, da ligure di levante e di colline lunigiane cresciuto nello stridere di violini e sbracciare di fise che mettevano l’argento vivo addosso. Il viaggio di Lomax e Carpitella, così entusiasta e iniziatico, fu la sberla che mi spinse a varcare i confini delle mie localistiche certezze etnomusicali.
Nella copertina dei due vinile spiccava la sigla PULL, senza alcun nome di persona che la rappresentasse come produttore o la affiancasse come delegato. Quell’anonimato mi inquietava. E perché in Premessa, identica nelle due contro-copertine, Lomax e Carpitella avevano scritto quel nemo propheta in patria che li riguardava in quanto persone inascoltate? Chi non aveva riconosciuto il loro straordinario lavoro? Lessi, dall’inizio: Questa prima antologia sonora di musica folklorica italiana fu pubblicata in America nel 1957: a distanza di sedici anni viene ora ristampata in Italia riconfermando, per lo meno, il vecchio adagio popolare… Trasecolai! Una ricerca di quella ampiezza e importanza ridotta al silenzio per un così lungo tempo!? Com’era spiegabile? La Premessa proseguiva: La causa di questa tardiva apparizione in Italia non è dovuta unicamente a motivi mercantili ma anche, e soprattutto, ad una certa sordità culturale: solo adesso, infatti, si è approdati al consumo del folklore e da più parti si avverte l’esigenza di titoli sulla musica popolare in genere, ed italiana in particolare. Sordità culturale? Era una affermazione fortemente accusatoria! Rivolta a chi? Singole persone? Più singoli coalizzati? Di una o più istituzioni portatrici di culture divaricate rispetto a quelle popolari documentate da Lomax e Carpitella? Da parte nostra si è ritenuto opportuno ristampare in edizione italiana questa antologia per diversi motivi: anzitutto perché le registrazioni contenute nei due dischi (76 brani dei 3000 registrati in tutte le regioni italiane tra il giugno 1954 e l’agosto del 1955) possono considerarsi dei pezzi unici e irripetibili. Inoltre perché le ulteriori, ma sparute, antologie discografiche sul folklore musicale italiano, apparse successivamente non hanno scoperto il dinosauro, nel senso che i motivi e le forme tradizionali da noi raccolti circa 18 anni fa rimangono tuttora il repertorio più ampio ed esteso che sia stato dato della musica folklorica italiana. Presumiamo pertanto che questa antologia sia ormai un classico, e come tale, nella presente edizione, viene riprodotta senza alcuna modificazione per quel che riguarda la scelta dei brani e la loro sequenza, ma con qualche lieve correzione nel commento e nelle note introduttive ai diversi canti. Il commento e le note risentono, forse, dello stupore pionieristico che noi stessi allora provammo, raccogliendo e registrando sul campo, cioè per le campagne, i casolari, i paesi montani, le coste: tuttavia nella loro sostanza, che oltre alla scoperta implicava una divulgazione di buon livello per un vasto pubblico anglosassone, hanno ancora una loro validità. Oggi come oggi, se dovessimo fare un corpus della musica folklorica italiana, in dischi, con i 3000 documenti allora raccolti e depositati in copia nell’archivio del Centro Nazionale Studi di Musica Popolare (dell’Accademia di S. Cecilia e della Radiotelevisione italiana), probabilmente scriveremmo un commento e delle note più rigorose e puntuali, forse a scapito di quella atmosfera meravigliosa ed incantata di cui fu soffusa, diciotto anni fa, tutta la nostra esperienza di raccoglitori, tra contadini, pastori, pescatori e artigiani. Quella presentazione intrisa di elegante risentimento mi disturbava: Ulteriori ma sparute antologie!? Quali erano gli autori delle sparute antologie, non nominati ma certamente ben conosciuti da Lomax e Carpitella? Non c’era che da scorrere l’elenco di chi aveva proseguito la loro ricerca dopo il 1955! Proprio sulla spinta del viaggio meraviglioso in Italia si era sviluppato un sostenuto processo di ricerca, non solo archeologica ma anche interpretativa e creativa, che, negli anni ’60 e ’70, con alterne vicende e contrasti ideologici, aveva preso il nome di folk revival. Nel 1973, proprio perché l’opera vedeva finalmente la luce anche in Italia, Lomax e Carpitella si limitarono a blande, ma chiare, allusioni. E’ comunque incomprensibile e imperdonabile che la loro ricerca, chiamiamola madre, venisse pubblicata solo tardivamente, dopo averne sterilizzato i fortissimi segnali antropologici e identitari. Si volle nascondere il disastro etnico del nostro popolo, migrato al nord a causa del cambiamento di modello economico e culturale, da agricolo a industriale, che caratterizzò il periodo postbellico? Certo è che il boom economico, mentre la televisione di Stato convertiva alla lingua nazionale un paese ancora immerso nei suoi dialetti e in un diffuso analfabetismo, aiutata dalla musica di consumo che cancellava origini e omologava le identità locali, emarginò il mondo delle sapienze e conoscenze popolari, sospingendo il nostro paese verso la competizione internazionale. Era questa immane trasformazione, positiva ma spaesante per milioni di persone, che andava enfatizzata a spese delle radici profonde del nostro paese? Oppure qualcuno ebbe paura dell’energia analitica e della creatività etnomusicologica che Alan Lomax e Diego Carpitella, insieme, avevano sviluppato? I termini cantometrica, per Lomax, e cinesica, per Carpitella, soprattutto il primo dei due, ancora oggi fa venire l’orticaria a più di uno tra i professionisti dell’etnomusicologia posteriore al gran viaggio, senza che se ne conoscano confutazioni altrettanto documentate. In Luciano Berio, sperimentatore impavido, che immaginò un progetto a quattro mani con Lomax, senza realizzarlo per carenza di mezzi economici, la cantometrica suscitò grande interesse. In una sua trasmissione per la Rai indusse Lomax ad illustrarne i nodi metodologici. Solo sedici anni dopo l’edizione americana, Gianni Meccia, un aggraziato cantautore, ebbe il coraggio di editare per la PULL questo tesoro della cultura italiana…
I nomi di Lomax e Carpitella, oggi, sono conosciuti in Italia?
Nella cerchia degli etnomusicologi, degli antropologi e dell’antropologia visuale, certamente, e in quella di coloro che praticano il folk, sia archeologicamente che innovativamente. Lomax soprattutto tra i bluesofili. Ma praticamente ignoti nella cognizione generale. Ed è una lacuna gravissima perché i due, Lomax e Carpitella, sono i salvatori di tutto ciò che costituisce le radici della musica popolare italiana, ma anche gli sperimentatori di discipline analitiche con le quali è necessario confrontarsi per allargare il concetto stesso di musica popolare, trasformandolo in un insieme dinamico fatto di antropologia, Storia, memoria, sentimento, vita. Ho voluto fare questo film, RADICI, per riaffermarne la funzione fondante e per raccontare, lungo il viaggio che fecero insieme, l’amicizia che tra loro non venne mai meno…
Critico, regista e scrittore, Luigi Faccini è stato tra i fondatori di Cinema&Film, rivista che nel 1966 introdusse semiotica e strutturalismo nello studio del linguaggio audiovisuale. Pubblicata da Garzanti ebbe Pier Paolo Pasolini come amichevole interlocutore. Nel 1970 esordisce nella fiction con il film Niente meno di più per gli Sperimentali della Rai, inizio di una carriera che lo porterà verso il grande schermo, nel 1976, con Garofano rosso, liberamente ispirato al romanzo omonimo di Elio Vittorini. Ma è soprattutto nel corso degli anni Ottanta che rivela la sua caratura di antropologo e storiografo prestato al cinema. Del 1980 è Nella città perduta di Sarzana sulla presa del potere di Mussolini (Targa d’argento Pietro Bianchi). Del 1982 e 1983 sono i mediometraggi Sassalbo provincia di Sidney e L’Amiata è anche un fiume, che gli valgono il Premio Bernagozzi per la ricerca antropologica. Da una lunga video-ricerca nell’ospedale psichiatrico di Arezzo negli anni eroici in cui nacque la legge 180 e si chiusero i manicomi, nasce Inganni, sulla vita reclusa del poeta Dino Campana. Era il 1984 (Nastro d’Argento alla regia e alla fotografia; quattro Laceni d’oro a Bruno Zanin, Mattia Sbragia, Marina Piperno e Luigi Faccini). Del 1988 è Donna d’ombra, con una ispiratissima Anna Bonaiuto all’esordio da protagonista (Laceno d’oro e nomination al David di Donatello).
Gli anni Novanta si aprono con una prolungata esperienza di ascolto e animazione nel carcere minorile di Roma, e, successivamente, nel quartiere romano di Tor Bellamonaca, in un centro di integrazione sociale nel quale confluivano tutte le marginalità giovanili. Due anni di lavoro che portarono alla realizzazione di Notti di stelle, dedicato ai “ragazzi delle periferie invisibili”. Era il 1991 (Venezia – menzione OCIC; Targa d’Argento Giuseppe Fava). Con gli stessi ragazzi di strada realizza Giamaica, nel 1998, sull’omicidio di Auro Bruni, un ragazzo nero, ad opera di assassini rimasti impuniti. Evento speciale a Locarno, Giamaica gli vale il Premio Tertio Millennio del Vaticano. Dopo aver pubblicato nel 1997 il suo primo romanzo La baia della torre che vola, per una decina di anni alterna alla scrittura letteraria i suoi film digitali di lunga e lunghissima durata, che hanno Marina Piperno quale protagonista: Storia di una donna amata e di un assassino gentile presentato al TFF(2009), che vale a Marina il Nastro d’Argento alla carriera; Rudolf Jacobs, l’uomo che nacque morendo a Venezia (2011); Diaspora, ogni fine è un inizio al Festival internazionale delle donne, Firenze (2016) e al Salone del libro di Torino (2017). Luigi Monardo Faccini ha ricevuto, per questo film, il Nastro d’Argento alla carriera (2018) e Marina Piperno una menzione speciale del Premio Exodus (2019). Ed é proprio con Marina Piperno che Luigi Monardo Faccini aprirà parteciperà al Folkest del 2019. Il titolo del film, che nasce dall’innamoramento di Marina per il suono delle launeddas, è Radici, cronaca ricostruita del “viaggio meraviglioso” che Alan Lomax e Diego Carpitella fecero nell’Italia del 1954-55, registrando e salvando tutta la musica popolare che stava per essere cancellata dalle modificazioni economiche e sociali del nostro paese sfociate nel boom degli anni Sessanta. Due documentari in uno, che si intersecano: dice l’autore. Uno a colori, sulla musica popolare di oggi, l’altro in bianco e nero, su quella del passato. Le radici del titolo sono le tradizioni popolari, che “vanno tutelate, ma anche sviluppate”, secondo quanto sosteneva Diego Carpitella. Radici è prodotto e distribuito da Luce-Cinecittà, avvalendosi della preziosa collaborazione dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e dell’Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia. Nel cast artistico di Radici brillano le presenze di Ambrogio Sparagna, dei Tenores di Neoneli, di Orlando Mascia, dei cantori di trallalero genovese La Squadra, l’intensa cantante lucana Caterina Pontrandolfo e molti altri.
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