Una amichevole chiacchierata con Marco Ongaro
a cura di Maurizio Bettelli
Marco Ongaro è probabilmente uno dei più interessanti artisti della parola che calcano la scena musicale e letteraria nazionale, e negli anni ha saputo declinare questa sua abilità in varie forme, dalla canzone alla narrativa, dalla poesia al teatro e più recentemente al giornalismo.
La mia amicizia con Marco è antica, e risale alla metà degli anni Ottanta del secolo scorso, quando entrambi ci ritrovammo assieme a Max Manfredi, Giorgio Bassi, Marco Caronna, Marco Piemonte, Claudio Sanfilippo a condividere l’avventura di Cantare in italiano: una formula inventata da Edoardo De Angelis per promuovere quella che all’epoca era considerata la Nuova canzone d’autore.
Da allora ci siamo sempre seguiti a distanza, a volte intrecciando epistolari, a volte dividendo il palco, come avvenne per un evento organizzato a Modena nel 2012 per commemorare i 100 anni della nascita di Woody Guthrie, ma senza mai interrompere il filo dell’amicizia e della stima reciproca.
E’ stato quindi inevitabile per me coinvolgere Marco Ongaro nei Folkclinic 2023 e invitarlo a tenere un seminario sulla scrittura delle canzoni all’interno della sezione Parole per musica. Il seminario, organizzato in due momenti, uno didattico e uno laboratoriale, si intitolerà Marco Ongaro tra canzone, teatro, narrativa e poesia e si svolgerà nei giorni 1 e 2 luglio a San Daniele del Friuli nell’ambito di Folkest 2023 (www.folkest.com)
Ho incontrato Marco nella sua Verona a metà maggio di quest’anno e, tra un bicchiere di vino e l’ascolto di una canzone ancora inedita, ci siamo messi a parlare un po’ di noi, del nostro rapporto con la musica e di quale senso abbia oggi scrivere canzone d’autore. Partendo da lì siamo andati a zig-zag nel tempo, toccando temi, momenti, esperienze e progetti passati, presenti e futuri che alla fine hanno dato corpo a un ritratto abbastanza completo dell’artista Marco Ongaro, del suo poliedrico lavoro creativo e della sua vivace personalità.
Folk Bulletin: Sono cambiati i modi di fruire la musica, non si vendono quasi più dischi, i concerti sono sempre più radi e chi li organizza tende a proporre nomi pescati dal mainstream. Sono cambiati i gusti del pubblico o si è interrotto qualcosa nel passaggio delle consegne dai cantautori degli anni Settanta-Novanta ai nuovi autori di canzoni? Come vivi la musica oggi e soprattutto: ha ancora senso scrivere canzoni oggi?
Marco Ongaro: Non ho mai avvertito ci fosse un passaggio di consegne tra cantautori, semmai sfide continue alternate a qualche collaborazione. Poi è venuta la voga dei duetti, ma anche quando si parlava di scuole (romana, genovese), il senso di rivalità non è mai venuto meno. Questa almeno è la mia sensazione. Ora il cosiddetto featuring è una scelta di marketing, ma forse lo è sempre stato. I dischi oggi non hanno più senso come non lo hanno più i cellulari nokia, è una questione di evoluzione tecnologica. Il vinile torna perché la grande truffa del cd (indistruttibile? Eterno? Ma per piacere) ha reso meno obsoleta la vecchia locomotiva a vapore. La fruizione è cambiata su questa via: come non si riesce più a infilare una normale cuffia a cavi in un iPhone perché hanno distrutto l’ingresso universale, così le canzoni si ascoltano in macchina solo con chiavette o in streaming perché non vendono più auto con stereo provvisti di lettore cd. Non c’è scelta. Il sopruso è servito. Come non guardi più dvd perché non ci sono più lettori e guardi i film sulle piattaforme, così corri su Spotify o YouTube per sentire delle canzoni. Comodo, spesso con ascolti ignobili, cioè telefonici. Il giorno in cui non costruiranno più chitarre a corde ma solo sintetizzatori, buonanotte suonatori.
Cionondimeno scrivere canzoni, espressione massima dell’esibizionismo grazie alla loro rapida fruibilità anche a tavola o ai piedi del letto, è un’attività artistica legata come la scrittura più al mittente che all’ipotetico destinatario. Si scrive per il piacere di avere qualcosa di inedito da cantare o far cantare, invece di ascoltare per l’eternità la solita solfa come pare sia destino dei tempi attuali, figli dei tributi e degli omaggi e delle cover, dove nessun valore pare più attribuito alla creazione di qualcosa di inascoltato. Ragazzi, non c’è niente di nuovo sotto il sole, ma qualche nuova combinazione delle solite vecchie dodici note la si può cavar fuori dal fondo del barile, perché mai rinunciare? Senza l’inascoltato non ci sarà più neanche l’inaudito. Siamo immersi in un oceano di nostalgia di brani e artisti già estinti, ne escono ogni tanto di nuovi ma fanno fatica a emergere in un mondo in cui riconoscere è sempre più facile che conoscere. Ma le canzoni si scrivono, e si scrivono nuove, non ho mai fatto un disco di Greatest Hits, anche perché non ho mai avuto Hits, a parte la Playback Fantasy di O’gar. Neanche una raccolta dal vivo. Ogni disco che faccio è di inediti, ma c’è chi mi sta chiedendo di passare alle cover e prima o poi cederò, come fece con grande successo perfino Franco Battiato. Scrivere canzoni è comunque più interessante che cantarle a un folto pubblico, perché non è detto che il folto pubblico le voglia ascoltare. Stiamo a un angolo di strada a cantare una canzone che nessuno vuole ascoltare, scrive Thomas S. Eliot, e non a caso lo fa dire a un coro di operai. Siamo operai della canzone, presi dalla curiosità di una nuova forma, della combinazione di nuove parole e scale e armonie, con un pubblico che non ha alcuna voglia di sbattersi per ascoltare qualcosa che non abbia già sentito.
Le nuove forme di canzone, quelle attuali, la trap e altri rimpasti di passati modelli, sono sempre più appiattite sul discorsivo, su voci adulterate con pochi accordi sullo sfondo utili a sostenere un comizio, un sermone o qualcosa del genere. A volte mi pare di riascoltare i vecchi talking blues, il rock fortunatamente è sempre nei paraggi, spruzzatine remote di tango, jazzy, funky. Sono cambiate le sonorità, giusto per una questione di tecnologia, come si diceva sopra, ma il panorama è questo. Poi d’estate esplode il reggaeton, e siamo tutti più sereni.
Folk Bulletin: Negli anni hai collaborato con molti colleghi cantautori dando origine a opere scritte a più mani (Manfredi, Moscati, Pavone, De Scalzi e altri…). Hai anche partecipato ad alcuni tributi (Ciampi, Bardotti, ecc) vuoi parlarci di queste esperienze?
E ancora, parlando di canzoni, c’è una canzone tua che ti rappresenta più di altre e che ti piace indossare e portare in giro per il mondo?
Marco Ongaro: La collaborazione con altri artisti è sempre bella perché ti costringe a uscire dai tuoi binari, ti mette alla prova facendoti sconfinare dalla tua zona di conforto, ti costringe a rivedere le alchimie, scomposizione e ricomposizione di criteri compenetrati con l’Altro. Indispensabile. La differenza dell’Altro è la cosa più bella. Max Manfredi e io siamo diversi strutturalmente, amiamo la canzone ad ampio raggio nella stessa misura, ma quando ne facciamo siamo su due pianeti differenti, una meraviglia. Per cui abbiamo soprattutto condiviso il palco dal vivo, ai nostri inizi, senza mai veramente mescolarci nelle canzoni. Lui rispondeva con una sua canzone a una scritta da me e viceversa. Io gliene ho dedicata esplicitamente una, in uno stile in cui lui non l’avrebbe scritta, affermando nel tributo la nostra separazione. Si ama ciò che è diverso da sé, sennò che noia. Dodi Moscati era un’amica, la prima ad aver inciso una canzone mia, Non lacrimate le aiuole, un’anima volata via troppo presto. Pino Pavone è una creatura speciale, autore con Piero Ciampi e già per questo nella leggenda della canzone italiana. Mi ha donato il manoscritto originale de Il vino nel 1990, a Roma, e quasi vent’anni dopo ho cantato la sua In un palazzo di giustizia al Regio di Parma. Ma soprattutto abbiamo condiviso con Dodi e Max quella che ho intitolato La fame romana, un breve periodo comunitario da Maledetti amici in concomitanza con il suo debutto come frontman di se stesso, sfociato in seguito nella sua Targa Tenco per l’opera prima. Un club ristretto all’interno di un club più ampio, in cui è entrata un’altra Targa Tenco, Alessio Lega, e poi l’altra Cristiano Angelini, un mondo in cui già eravamo stati con il prototipo Lucio Quarantotto. Ora che mi ci fai pensare, lì c’era molta più comunità che rivalità, mi rimangio quello che ho detto in risposta alla prima domanda. Poi con De Scalzi a lavorare su Riccardo Mannerini su indicazione di Enrico de Angelis, esperienza bellissima, umanamente arricchente, che mi lega ulteriormente a Genova con amore. Con lui ho scritto anche le canzoni di uno spettacolo teatrale sulla Costituzione che ci ha valso una medaglia della Presidenza della Repubblica. E poi gli ho scritto i testi per un disco rock progressivo tutto incentrato sulla ricerca del Graal, mai uscito. Me ne ha dato giusto una copia che tengo da qualche parte, sperando che il cd sia davvero un supporto eterno e indistruttibile. Eravamo amici, ma con Vittorio De Scalzi era davvero molto facile essere amici. Anche i tributi a Ciampi e Bardotti sono stati veicolati da Enrico de Angelis, che insiste nel suo operare culturalmente nell’ambito della canzone d’autore, appellativo che peraltro ha inventato lui. C’è da dire che il primo tributo a Ciampi, quello dell’Argentina a Roma, è stato organizzato da Pino De Grassi, altro elemento fondante, insieme al mio produttore di allora Renato Venturiero, della banda de La fame romana.
Per quanto riguarda una canzone che mi piace indossare e portare per il mondo, essendo un autore di inediti, la risposta è semplice: sempre il singolo del disco più recente.
Folk Bulletin: In ambito canzone ti sei misurato anche con la traduzione e l’adattamento in italiano di opere scritte da altri (Cohen, Guthrie, Knopfler, Jagger-Richards, ecc.) Cosa hai imparato da loro, cosa ti sei messo in tasca delle loro parole, frasi, idee ecc, che poi hai riutilizzato nei tuoi lavori originali?
Qualcuno degli autori che hai tradotto ha in qualche modo influenzato il tuo modo di essere? Se sì, in che modo? (Penso a Gainsbourg, tra i tanti…)
Marco Ongaro: Erano già influenze esistenti. Il primo impulso della traduzione è quello di divulgare l’idea, la bellezza, il testo originale, dire ai miei connazionali perché mi piace una canzone e che razza di testo ha. Per questo la fedeltà, pur nelle spire dell’adattamento musicale, dev’essere sostanziale. Nei miei brani originali entrano di sicuro, anche subliminalmente, gli autori che scelgo di tradurre, sono parte dell’evoluzione verticale cromosomica del mio modo di scrivere e cantare con cui Roland Barthes definisce lo stile. Ho tradotto Non portartelo a casa se è duro di Leonard Cohen perché non credevo di avere il coraggio di scrivere un brano sessualmente tanto esplicito. Ho tradotto Comprensione per il diavolo di Jagger-Richards perché mi piaceva cantarla e alle cover preferisco le traduzioni che hanno un senso divulgativo più completo. Ho tradotto Romeo e Giulietta di Knopfler per sentire come suonava in italiano, e poi era un esercizio per la mia classe di songwriting. La traduzione è l’appropriazione debita di una canzone che si vorrebbe aver scritto, certo che se ne è influenzati, ben prima di tradurla. Di Serge Gainsbourg ho voluto tradurre praticamente la vita, non solo La canzone di Prévert per il mio ultimo album Solitari. Così è venuto al mondo il libro Un poeta può nasconderne un altro – Il senso per la parola di Serge Gainsbourg che nel 2022 ha vinto il premio Cartacanta come miglior volume italiano di argomento musicale. Mentre tradurre una canzone è riassumere il senso di un’ammirazione, scrivere un intero libro su un autore è un modo per conoscerlo molto a fondo, esplorarlo, farlo entrare nella propria esistenza nell’istante in cui si entra nella sua. Sono mesi di vicinanza giorno e notte, ore e ore di pensieri condivisi. Non si tornerà mai più a essere due estranei. Quando qualcuno adesso mi dice di andare a una mostra su Gainsbourg o cose del genere provo una strana sensazione: come se mi si dicesse di andare a vedere l’immagine pubblica di qualcuno che conosco molto intimamente. Un fratello, un parente molto stretto di cui so troppe cose per assumerne aspetti mediati da altri. Lui è ormai quello che è diventato per me, non posso più tornare indietro a fruirne come fossi parte del suo pubblico.
Folk Bulletin: Il tuo rapporto con la poesia. Pensi che la poesia sia la sorella nobile e la canzone una sorta di Cenerentola? Ti senti più poeta o cantastorie? Hai fatto un gran lavoro sui personaggi Shakespeariani, costruendo un album di canzoni per Giuliana Bergamaschi, come nasce questo disco?
Marco Ongaro: La canzone è poesia. Poi c’è buona e cattiva poesia, sia essa canzone o componimento privo di musica. In principio la poesia, che vuol dire creazione, era cantata. In principio per noi che culturalmente discendiamo dai Greci. È Nietzsche a suggerirci come nel tempo si sia persa la musica e siano rimaste solo le parole a cercare una loro intrinseca musicalità. Dunque altro che Cenerentola: è la poesia che ha dovuto far ricorso a forme antiche e nuove (le rime non esistevano) per darsi una dignità autonoma dopo che la musica, unica motivazione primigenia della metrica, era venuta a mancare. Il cantautore era l’aedo. Omero era un cantastorie. Il rapsodo era invece quello che faceva cover. Mi sento poeta a pieno titolo, con la fortuna di saper mettere anche la musica sulle mie parole e viceversa, cosa che molti poeti odierni più o meno esplicitamente ci invidiano. Da questa mutilazione deriva la boria con cui si liquida la canzone come forma artistica inferiore alla poesia. Per fortuna quelli del Nobel l’hanno capito, premiando il riluttante Dylan. La canzone è una forma diversa, certo, tanto che Dylan non ha ritirato il premio personalmente considerandolo forse, tutto sommato, meno prestigioso di un Grammy. Il suo atteggiamento era del tipo: d’accordo, ho scritto i testi, ma che ne dite delle musiche?
Il giusto atteggiamento. Dylan è un faro per tutti noi, da molti decenni.
Per Shakespeariana di Giuliana Bergamaschi il discorso è stato talmente spontaneo da essere naturale. All’epoca ero immerso nella produzione del Bardo inglese perché collaboravo strettamente con Paolo Valerio al Teatro Nuovo di Verona e con lui condividevo la passione per Shakespeare, lo respiravamo. Lui allestiva Otello, Amleto, Romeo e Giulietta, ci ragionavamo tutti i giorni. Era la conseguenza più ovvia che volessi trasporne il mondo in canzone. Giuliana è una donna, e nel repertorio scespiriano le donne non mancavano, sebbene interpretate da attori maschi. Era un modo di restituire in epoca moderna quel qualcosa in più di cui erano state deprivate a causa di interpretazioni maschili contraffatte. Di nuovo un omaggio, un’altra forma, più ampia, di traduzione.
Folk Bulletin: Tra i tanti lavori editoriali che hai prodotto, hai scritto anche una serie di manuali poco o quasi pratici di scrittura. Perché poco e quasi pratici? L’hai aggiunto per schermirti o credi che la scrittura creativa non si possa anche insegnare coi corsi e le scuole? Qual è il tuo giudizio sui corsi che hai tenuto e, secondo la tua esperienza, che ricaduta hanno avuto sugli allievi a cui hai insegnato?
Marco Ongaro: Il poco e il quasi giustapposti alla praticità dei miei manuali, scritti con Fabrizio Mastrorocco, sta a rappresentare la percentuale di teoria inserita in essi rispetto alla pratica. Come nei miei corsi, ci sono esercizi che dovrebbero accompagnare l’allievo da una lezione all’altra, ma lascio alla sua responsabilità, com’è giusto, la scelta se svolgerli o no. Chi viene ai corsi per imparare a scrivere, o affinare la propria teoria sulla scrittura e tradurla in pratica settimanale se non quotidiana, ha la libertà di decidere se vuole continuare a scrivere e soprattutto a quale scopo. Ma ogni lezione è ampiamente intrisa di teoria. La letteratura è teoria di sé stessa, basta parlare di grandi scrittori e opere sopravvissute alla morte degli autori per insegnare scrittura e stimolare l’indagine su perché scrivere. Ciascuno ha il proprio movente. Dall’espressione del narcisismo alla volontà di influire sulla società per migliorarla, c’è chi vuol capire se stesso e chi vuole indagare la natura umana, ciascuno durante il corso fa la propria esperienza che lo conduce alla propria designazione di meta. C’è chi ha pubblicato romanzi e continua a farlo, c’è chi ha smesso e si è dedicato alla lettura in modo molto più consapevole, chi ha deciso di tenere una pratica quotidiana di scrittura senza aspirazioni pubbliche. Lo stesso Mastrorocco, per esempio, è stato allievo a tutti i miei tre anni di corso e, tenendone i riassunti lezione per lezione, è diventato mio coautore nella pubblicazione dei manuali. Non avrebbe certo pensato in principio che la scrittura per lui avrebbe preso una strada del genere. Ma eccolo che tra la narrativa e la saggistica ha operato la sua scelta prima di accorgersene e si è trovato a pubblicare un libro con me a fine anno prima di decidere che la saggistica gli era forse più congeniale. C’è chi ha mollato un lavoro insoddisfacente ed è passato a fare il ghostwriter per rimanere tra pagine e frasi, e chi ha tenuto il suo lavoro conducendo una doppia vita nella scrittura. Insegnare a scrivere? Lo si può fare come insegnare il tennis, poi dipende dalle gambe, dai menischi, dalla tenacia e dalla passione dell’allievo. Mica per forza deve vincere a Wimbledon. L’insegnamento è principalmente l’esempio di altri che ci hanno preceduto, nella scrittura come nell’ingegneria. Ma come nello sport ci vuole allenamento.
Folk Bulletin: Recentemente è uscito un filmato sul sito del Teatro Rossetti intitolato Ricordare, portare al cuore, tratto da Per non dimenticare, scritto a quattro mani da te e da Paolo Valerio. Il filmato, che avrà una funzione anche didattica se circolerà nelle scuole, affronta la tragedia dell’esodo Istriano-Dalmata durante e al termine del secondo conflitto mondiale. Vuoi raccontarci come nasce questo lavoro e, già che ci siamo, vuoi parlarci del sodalizio tra te e Valerio, che negli anni ha dato origine a opere sempre molto stimolanti e interessanti?
Marco Ongaro: Il progetto del 2007 allestito al Teatro Nuovo di Verona per l’Associazione Esuli Istriano-Dalmati, poi replicato con regolarità negli anni successivi, è stata una delle tante occasioni di collaborazione con Paolo Valerio in una vita di amicizia e stima. Un’idea da lui sorta, dalla sua visione di attore, regista e direttore artistico di teatro, per intrecciare la drammaturgia con il contesto sociale, sua moderna funzione dacché è venuta meno l’originaria sacralità del palcoscenico. Immedesimarsi nella cronaca per trarne esperienza teatrale è parte del mestiere che Paolo Valerio ha saputo incarnare con esemplare costanza. Ricordare, portare al cuore sta già girando da qualche anno nelle scuole, ben prima che io me ne accorgessi, tanto che un mio nipote mi ha chiesto se la firma ai testi a fine video visto in classe fosse davvero la mia. Paolo Valerio ha dimostrato estro e preveggenza in molti casi, in particolare nell’avviare finalmente il sogno di una vita: una pièce teatrale su un tennista che gioca sulla scena tutto il tempo mescolando intimismo e performance. Quando tra il 2019 e il 2020 abbiamo concepito insieme Il muro trasparente – Delirio di un tennista sentimentale, spettacolo che dal lockdown in poi sta calcando con successo i teatri italiani, non immaginavamo che la parete di plexiglass prevista dalla scenografia avrebbe avuto una funzione così pratica nel debutto immediatamente a ridosso della pandemia di Covid-19. Con gli anni la sua utilità è tornata a essere via via più simbolica, restituendo alla solida trasparenza della quarta parete il potere metaforico dell’idea iniziale. C’è stata nella nostra interazione un’alchimia felice tra la sua visione concreta del palcoscenico, la sua concezione del susseguirsi dei movimenti, la sua voglia di innovazione per tener viva l’attenzione dello spettatore e la mia dimensione letteraria. Una sorta di messa a terra continua, in cui quando ad abbassarmi ero io, lui risospingeva in volo l’insieme. Lui sa cos’è recitare e mettere in scena, è il tramite perfetto nella composizione di un testo tra un drammaturgo da poltrona come me e il pubblico cui l’opera è destinata. Lui mi ha presentato il compositore contemporaneo Andrea Mannucci per cui ho scritto quattro libretti d’opera e altri testi di teatro musicale. Il teatro musicale, molto più che nell’Ottocento, offre oggi spunti di poesia come accadeva nei tempi antichi, anche se con successo decisamente inferiore.
Nel teatro c’è la bellezza irripetibile del momento, proprio come nella musica dal vivo. Ogni serata è un take diverso cui solo le persone presenti in quel momento hanno occasione di assistere. Se nella costruzione di un disco, traccia per traccia, canale per canale, si può intervenire con la sovrincisione, con una sorta di rimedio destinato a una fissità memorabile, come la drammaturgia che precede la messa in scena, non esiste invece un parallelo teatrale possibile che non diventi cinema. Il teatro rimane una purezza dell’istante che solo un concerto può eguagliare. Il teatro musicale abbraccia entrambe le opportunità in un colpo solo. Il fascino dell’effimero vi brilla come una nostalgia annunciata. Il tuffo senza rete del professionista che agisce nell’attuale per replicare un’idea preconcetta di realtà dandovi senso. Un brivido che non ha più nesso e al contempo giustifica la scrittura nel momento della sua esposizione. Ogni volta che ci si mette a uno strumento musicale per eseguire una canzone scritta in precedenza, si prova quel brivido. Il teatro è questo completamento della scrittura agito nel distaccarsene finalmente. Senza teatro e senza esecuzione, tutto resterebbe sulla carta. Scrivere per un artista come Paolo Valerio è delegare una parte del proprio pensiero alla sua idea di azione. Come se entrambi ragionassimo e agissimo per interposta persona.
Folk Bulletin: Quali sono i tuoi progetti futuri?
Marco Ongaro: La domanda delle cento pistole! Nella consapevolezza delle oscillazioni di un avvenire nelle mani degli dei, ho da poco finito di incidere il mio dodicesimo album di inediti. S’intitola La spia che ti amava, ma non lo farò uscire prima del 2024. Lascio che per ora sia pensiero di azione potenziale. Ma ho già previsto di eseguirlo in anteprima dal vivo nel dicembre di quest’anno: per il brivido di suonare l’irripetibile anticipo destinato a un trascolorante supporto cd e a piattaforme immemori di future distopie.
MARCO ONGARO
Biografia essenziale
Marco Ongaro debutta nella canzone d’autore nel 1987 vincendo la Targa Tenco per la Migliore Opera Prima. Da allora ha pubblicato undici album per sé e quattro come autore. Dai primi anni Duemila estende la sua produzione a poesia, libretti d’autore e drammaturgia, condensando la collaborazione ventennale con il Teatro Sabile di Verona nella pubblicazione di tre manuali di scrittura creativa, cui aggiunge saggi biogafici su Kiki de Montparnasse, Niki de Saint Phalle e il recente Un poeta può nasconderne un altro – Il senso per la parola di Serge Gainsbourg, che gli vale il Premio CartaCanta 2022 per il miglior libro italiano di argomento musicale.
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