In questo nuovo appuntamento ancora recensioni di alcuni ottimi dischi. Qualcuno dice che il blues è in crisi. A me non sembra proprio. Almeno a giudicare dai dischi che girano nel mio lettore cd.
RICK HOLMSTROM, JOHN “JUKE LOGAN, STEPHEN HODGES –
TWIST –O–LETTZ –
Mocombo Records M – 55027, 2010
“Three veteran musicals cohorts cut wild, raw & live blues…”. Ecco, in questa frase che è scritta sul retro di questo album sta tutta l’essenza di “Twist-O-Lettz”. I tre veterani che hanno registrato un gran bel disco di blues (ma non solo) grezzo, selvaggio ma soprattutto “vivo”, nel significato più profondo della parola, non hanno certo bisogno di presentazioni. Rick Holmstrom è senza dubbio uno dei più ammirati chitarrista contemporanei. Nel suo curriculum vanta anni di militanza nella straordinaria band di Rod Piazza nonché il suo più recente ingaggio al fianco di Mavis Staples del cui sound Rick è pilastro fondamentale. John “Juke” Logan è uno dei più originali musicisti della scena blues californiana. Ha collaborato con Ry Cooder e i Los Lobos e la sua armonica si può ascoltare in tantissimi film tra i quali spicca senz’altro “Crossroads” di Walter Hill. Stephen Hodges ha suonato nei dischi di tanti grandi artisti tra cui Tom Waits, John Hammond, Charlie Musselwhite e James Harman. Sia Holmstrom che Hodges hanno contribuito alla creazione di quel fantastico album che è “You are not alone” di Mavis Staples, un disco che si è aggiudicato un Grammy come miglior disco di “Americana” del 2010. Tutti e tre i musicisti hanno uno stile assolutamente inconfondibile. E tutti e tre i musicisti cercano con il loro strumento di creare qualcosa di originale, di unico. Questo è ciò che Holmstrom, Logan e Hodges hanno cercato di fare, con successo a mio avviso, quando si sono chiusi nello studio di Señor Sol Nishida per registrare “dal vivo” una manciata di canzoni di sicuro interesse. L’album è composto da un intrigante e variegato “melting pot” sonoro in cui trovano posto il “vero” west coast blues delle origini (lontano mille anni luce dalle sue espressioni più patinate), il rock n’ roll dei primissimi T-Birds, un pizzico di jazz tinto di swing e tanto, tanto divertimento… Il divertimento di valenti musicisti che si ritrovano a suonare in trio (rigorosamente senza basso) per donarci la loro visione del blues di oggi. Un blues sporco e irriverente in cui si possono ritrovare il Tom Waits di “Swordfishtrombones” e “Mule Variations”, il Robert Lee Burnside delle incisoni Fat Possum, il sound originalissimo primitivo e sofisticato di Hollywood Fats (un maestro per Holmstrom), il Charlie Musselwhite di “Sanctuary”, blues funky e paludoso di Slim Harpo e persino il genio e la sregolatezza dei Rolling Stones di “Exile on main street”. A farla da padrone in “Twist-o- lettz” (che prende il nome dalla band di Chris Kenner, l’autore di “Land of a thousand dances”), almeno in termini compositivi, è Rick Holmstrom che non solo si rivela ottimo autore ma anche e sorprendentemente cantante convincente e capace. Tra brani originali e qualche classico l’album scorre via in un baleno.
C’è solo un’avvertenza importante che mi preme segnalare e che è riportata sul flyer che accompagna il cd in cui la casa discografica ha scritto: “ATTENZIONE! Questo disco contiene un tipo di blues che arriva direttamente dalla giungla urbana del pianeta X… NON guidate e non operate su macchinari finché non avete scoperto gli effetti che questa musica ha su di voi. Per ottenere il miglior risultato e buone vibrazioni ascoltate il disco solo ad ALTO VOLUME”.
A parte gli scherzi, adesso siete avvertiti. Se volete ascoltare il blues che ascolterebbe l’equipaggio di Star Trek in un viaggio indietro nel tempo, correte a cercare questo disco. Sono sicuro che non ve ne pentirete.
CAROLINA CHOCOLATE DROPS – GENUINE NEGRO JIG
Dixiefrog – DFGCD 8684
Sul loro sito Justin Robinson, la giovane e affascinate cantante e polistrumentista del trio scrive una frase saggia e illuminante che si può tradurre più o meno così: “La tradizione ti deve guidare non imprigionare. Noi ci consideriamo moderni musicisti che portano avanti un’ antica tradizione musicale”. Beh, come dichiarazione di intenti non mi sembra affatto male. Ma vediamo di conoscerli meglio questi Carolina Chocolate Drops. Tra l’estate e l’autunno del 2005, tre giovani musicisti neri, Dom Flemons, Rhiannon Giddens e Justin Robinson, si ritrovano ogni giovedì sera a Mebane in Nord Carolina a casa di Joe Thompson un vecchio violinista afroamericano che all’epoca aveva già superato abbondantemente gli ottant’anni per suonare con lui sino a notte fonda. La musica che Joe conosceva era una sola. Quella che gli avevano tramandato i suoi nonni e i nonni dei suoi nonni. Una musica che apparteneva alla tradizione della sua famiglia da tantissimi anni. Erano canzoni che aveva imparato sin da bambino quando alla sera la sua gente si ritrovava sotto la veranda di casa dopo una dura giornata di lavoro nei campi. Joe pensava che il tempo stesse passando velocemente per lui e aveva chiesto a quei tre ragazzi di aiutarlo a mantenere viva una tradizione che altrimenti dopo la sua morte sarebbe scomparsa per sempre. I tre giovani studenti presero a cuore la questione e fecero qualcosa di più, formarono una band. Nulla di serio all’inizio, ma piano piano la cosa cominciò a prendere piede. Quella musica che da patrimonio degli afroamericani si era trasformata in bluegrass diventando la musica bianca per eccellenza doveva tornare ai luoghi e alle persone a cui era appartenuta. Era una questione di giustizia. Si sentivano di doverlo a Joe, ma anche a tutti quei musicisti ai quali non solo erano stati portati via strumenti come il banjo ma anche quella geniale mistura sonora fatta di gighe e reels europei e ritmi africani. Decisero di chiamarsi Carolina Chocolate Drops come omaggio ai Tennessee Chocolate Drops un formidabile combo composto da tre fratelli neri: Howard, Martin e Bogan Armstrong, che hanno illuminato, seppur per un breve periodo, la scena musicale nel 1930. Le Gocce Cioccolato della Carolina iniziano a portare le loro canzoni un po’ ovunque, soprattutto per strada. Il loro palcoscenico ideale sembrava quello delle piazze e dei mercati contadini. Lì sembrava che avessero trovato il pubblico che poteva apprezzare la loro musica antica ma per certi versi modernissima fatta con chitarre, banjo, violino ed effetti sonori e percussivi creati con la voce o con l’ausilio di piccole ossa di animali. Da lì in poi hanno cominciato a raccontare la “vera storia della musica tradizionale americana” raccogliendo anche tantissimo materiale “sul campo”. Una storia che molti conoscevano ma che è stata taciuta per molto, troppo tempo. Hanno cominciato a raccontare ai loro spettacoli la storia di “Dixie”, il controverso inno del sud più retrogrado, vera e propria torch song per l’esercito confederato, che eminenti musicologi hanno scoperto esser stato “rubato” da Dan Emmert (uno che si dipingeva la faccia di nero per prendere in giro gli afroamericani) a Thomas Snowden, un musicista nero dell’Ohio appartenente a una stimata “string band family”.
E’ certamente un brutto colpo per coloro che hanno sovente pensato che musica bianca e musica nera in America abbiano sempre viaggiato separate. Non solo non è vero come hanno spesso testimoniato i Carolina Chocolate Drops gran parte di quella che per anni è stata conclamata come la musica dei bianchi americani altro non era che il repertorio tradizionale dei neri.. Anche la canzone che dà il titolo all’album “Genuine negro jig” viene dal songbook degli Snowden. Il trio non vuole fare polemiche né tantomeno creare divisioni. Tra i musicisti divisioni non ce ne sono mai state. Il loro sogno è quello di potersi esibire al Grand Ole Opry la trasmissione country per eccellenza. Una trasmissione seguita anche dal pubblico nero delle campagne che però non ha mai avuto la soddisfazione di vedere un musicista nero su quel palco (se si eccettuano Charlie Pride e DeFord Baley). Ormai Carolina Chocolate Drops sono una realtà amata e apprezzata sia negli States sia in Europa. Anche in questo suo debutto targato Dixiefrog il trio prepara la solita gustosa ricetta fatta di esuberanza, ironia, virtuosismo e da un contagioso groove acustico che si basa su una solida base guidata da banjo e violino, un sound nato più di un secolo fa ai piedi delle colline della Carolina del Nord, e più precisamente nella regione rurale del Piedmont dove sono cresciuti Rhiannon Giddens e Justin Robinson, ma sorprendentemente attuale . Dopo due uscite indipendenti e autoprodotte i Carolina Chocolate Drops per questo terzo disco hanno scelto di lavorare con il produttore Joe Henry, un nome che è sicuramente una garanzia. sulla effettiva Negro Jig. Come aveva già fatto con Ramblin’ Jack Elliott qualche anno fa, anche per questo disco Henry si limita a sottolineare con grande gusto la semplicità, la genuinità e lo straordinario interplay esistente tra i tre musicisti. Quello che ne esce è un sound pulito (a volte forse sin troppo) in cui l’accento è posto sullo spirito che alberga in queste performance, antiche e moderne allo stesso tempo. I brani strumentali si alternano a brani cantati e ogni musicista trova il giusto spazio per arrivare al cuore (o ai piedi) di chi ascolta. Tra i brani che ho maggiormente apprezzato l’iniziale “Peace behind the bridge” infuocata dance song con banjo, fiddle e bones sugli scudi, “Your baby ain’t sweet like mine” vagamente vaudeville; “Cornbread and butterbeans” bel brano modale tra Irlanda e Africa da tempo nel repertorio del trio che qui la propone in una nuovissima versione; e la già citata title track, un brano strumentale in minore per solo violino e percussioni che spiega più di mille parole perché un musicista bianco un giorno rubò questa canzone al suo vicino di casa nero. La rubò perché era bellissima. Probabilmente se ne innamorò così perdutamente che volle fuggire con lei. A volte, la storia della musica è piena di sorprese. Il trio suona di tutto e canta sempre con convinzione e maestria. Nell’armamentario della band oltre ai già citati banjo, violino e chitarra ci sono scatole di sigari che fungono da percussioni, armoniche a bocca, kazoo e anfore giganti per imitare il basso. Su tutto poi spicca la voce quasi classica di Rhiannon che avvolge tutto con grande eleganza, poesia e delicatezza. Altri brani di sicuro interesse nel disco sono “Kissin’ and Cussin’” intrigante ballata quasi sperimentale con protagonista l’autoharp; e la conclusiva ‘”Trampled Rose” brano vaudeville tratto dal repertorio di Tom Waits. Spero di avervi incuriosito a dovere.
Per saperne di più:
www.carolinachocolatedrops.com
www.dixiefrog.com
KENNY NEAL – HOOKED ON YOUR LOVE
Dixiefrog – DFGCD 8693, 2010
Sono anni che seguo di Kenny Neal e devo dire di aver sempre avuto una grande considerazione per lui e per il suo lavoro. Kenny è un grande chitarrista e un altrettanto ottimo armonicista e proviene da una dinastia musicale di tutto rispetto. Raful Neal gigante dell’armonica da Baton Rouge, Louisiana era suo padre e i suoi fratelli sono tutti acclamati session men della scena blues statunitense. E’ quindi un vero peccato che Kenny non sia mai riuscito ad ottenere la fama che sicuramente merita anche perché ogni suo disco è sempre un gioiellino colmo di belle canzoni suonate con garbo, estro e maestria. Anche “Hooked on your love” non smentisce l’eccellente pedigree del bravo cantante, chitarrista e armonicista che anche qui come altrove si fa notare anche come compositore di indubbio talento. A scanso di equivoci, dobbiamo dire che questo nuovo disco di Kenny sposta la barra dal suo più consueto swamp blues a un soul blues talvolta più tradizionale (alla Little Milton per intenderci spingendosi talvolta sino ad arrivare ai lidi della scuola Motown). Il disco si distingue quindi per la gran quantità di sonorità e di stili. Ce n’è davvero per tutti i gusti. Questo è un disco che contiene davvero tutti i colori del blues. O meglio tutti i colori della musica black. Ad accompagnarlo in questa avventura un solidissima band in cui spicca la figura del grandissimo Lucky Peterson all’organo e al piano. Il disco si apre con la canzone che dà il titolo all’album, un ottimo soul blues in cui spiccano la voce di Kenny e i cori femminili davvero efficaci in tutto il cd. “Bitter with the sweet “ è tra le cose migliori dell’album. C’è un bell’intro alla B.B. King e la voce commovente e matura di Neal sembra quella di Ray Charles. La traccia seguente “Down in the swamp” sembra provenire dai lavori precedenti di Kenny. Si tratta di un pregevole tributo a New Orleans e alla Louisiana: un gustosissimo funky blues in cui per l’occasione Neil sfodera la sua inconfondibile armonica alla Slim Harpo. Il brano numero quattro si muove sempre in territori funky con ottimi sconfinamenti nelle terre del soul e del gospel. Di grande effetto qui il piano di Peterson. Un altro brano che mi ha colpito è certamente la splendida “Things have got to change”; una classica ballata errebì con un pizzico di soul e pop che non guastano. Una canzone in cui si apprezzano soprattutto il gran lavoro della sezione fiati e del piano elettrico. La traccia otto è ancora un brano rhythm & blues che non avrebbe sfigurato nel repertorio di Albert King e ci conduce agevolmente ad un’altra splendida composizione: “Old friends” uno swamp blues torrido al punto giusto con la voce, la chitarra e l’armonica di Kenny che girano a mille. Il lavoro si avvia alla conclusione con tre buone composizioni: “Tell me why” una canzone niente male a metà tra Marvin Gaye e Stevie Wonder; “Voodoo mama” che sin dal titolo evoca la Louisiana e tutto il suo crogiolo di musiche; e “You don’t love me” convincente Chicago shuffle in cui ancora una volta sono protagonisti indiscussi l’armonica e la sezione fiati. Kenny Neal è uno di cui ci si può fidare. Credetemi.
Anche qui per saperne di più:
www.kennyneal.net
www.dixiefrog.com
AA VV– BLACK & WHITE
Recorded in the fields by Art Rosenbaum
Dixiefrog – DFGCD 8697, 2010
Una raccolta che ci accompagna lungo un interessantissimo viaggio nel profondo sud degli States, sulle tracce dei personaggi immortalati dai fratelli Coen in “O Brother, Where Art Thou?” percorrendo le piste già in parte battute dai Lomax, Alan e John. Un disco che per certi versi documenta ciò che i Carolina Chocolate Drops stanno cercando di riportare in vita; ovvero il concetto indiscutibile che a formare il cuore della musica tradizionale americana siano stati in egual misura musicisti bianchi e musicisti neri senza alcuna differenza o pregiudizio razziale. E l’immagine di copertina di questo prezioso documento sonoro è già di per sé un manifesto inoppugnabile a supporto di ciò che ho appena scritto. Autore del disegno che campeggia sulla front cover del cd è Art Rosenbaum, classe 1938, illustratore, pittore di fama, docente universitario, scrittore e musicista egli stesso (suona il banjo) che, insieme alla moglie Margo, fotografa professionista, ha girato in lungo e in largo il sud e il midwest degli Stati Uniti raccogliendo sul campo una quantità notevole di materiale: eccellenti registrazioni e documenti visivi che oggi ci vengono offerti con la consueta cura dalla francese Dixiefrog.
Ad ispirare il suo lavoro di documentarista sonoro furono le registrazioni che Rosenbaum ascoltò da ragazzo: le canzoni sindacali di Burl Ives, Pete Seeger; e poi la “Harry Smith Anthology of American Folk Music”, vero e proprio monumento alla musica delle radici d’oltreoceano. Partendo dall’Indiana, suo stato originario, Art inizio riscoprendo il leggendario chitarrista blues Scapper Blackwell e un violinista di nome John W. Summers. Da lì i Rosenbaum incominciarono a viaggiare, raccogliendo materiale in tutti gli States e in particolare in Georgia, Iowa e Kentucky. Il repertorio da loro archiviato comprende antichissime ballate di origine europea, blues, spirituals, canti di lavoro risalenti ai tempi della schiavitù, canti religiosi della tradizione bianca e canti la cui origine va cercata senza dubbio nel cuore dell’Africa. Varrebbe la pena di analizzare ognuna delle ventiquattro tracce del cd perché ciascun brano meriterebbe un trattato a parte. Di grande aiuto se e quando ascolterete il cd, sarà l’utilissimo libretto allegato al disco. Quaranta pagine bilingui (inglese e francese) colme di informazioni e splendide immagini. Tanti i momenti affascinanti del disco, a partire da “Old Joe Henry died on the mountain” sorta di work song in cui uniche protagoniste sono le voci , un piccone e un bastone che detta il ritmo. Il brano narra la storia di uno schiavo fuggito dalla sua prigione che muore cercando di attraversare le implacabili Blue Ridge Mountains mentre tenta di raggiungere casa. Un altro è il classico brano old time “I wish I was a mole in the ground” suonato da un gruppo di distillatori di moonshine, il whiskey di contrabbando; e un altro ancora una versione da pelle d’oca del classico “John Henry”, mitica incarnazione di lavoratore fiero e indomabile, magistralmente eseguita da Mose Parker in un’emozionante versione che sta perfettamente sospesa, complice uno splendido lavoro di slide, tra blues, musica africana e folk music bianca. Non manca neanche il gospel più autentico con i Silver Light Gospel Singers che intonano una versione antica di “Don’t let nobody turn you round” un brano divenuto celebre durante le lotte per i diritti civili degli afroamericani. Di sicuro interesse anche “Mandolin stomp” pregevole strumentale che vede protagonista il più celebre mandolinista blues di tutti tempi, il grande James “Yank” Rachel. Strepitosa d’altro canto anche la performance di Lawrence e Vaughn Eller che ci regalano un brano senza tempo introdotto dall’arco a bocca, antenato africano dello scacciapensieri. Sembra un brano tipico della comunità nera se non fosse per il fatto che tutti i musicisti coinvolti sono bianchi! Un’altra affermazione evidente che non è mai esistita una musica totalmente nera o totalmente bianca. E a proposito di musica “bianca”, davvero gustoso “Going down the road feeling bad”, avo musicale del più moderno bluegrass, qui eseguito dai Golden River Grass con tanto di armonica, strumento che poi misteriosamente sparirà quasi del tutto dalle formazioni di musica tradizionale dedite a quel genere. Curiosa ma assolutamente godibile la versione “nera” dello stesso brano ad opera di Jake Staggers che ce ne fornisce una rilettura per soli banjo e voce. Brady Doc e Lucy Barnes entrambi afroamericani ci regalano uno dei più toccanti brani dell’intero progetto. Si tratta di “Free go Lily” una brevissima ma intensa ninna nanna per sole chitarra e voce. Ben Entrekin e Uncle John Patterson, bianchi come il latte, eseguono “Flat Foot Charlie” canzone indubbiamente black , seguiti da Cecil Barfield un musicista di strada non del tutto nuovo agli amanti del blues delle radici perché venne registrato anche dal ricercatore George Mitchell. Barfield suona “Georgia bottleneck blues” e sembra Mississippi John Hurt con una chitarra slide. E sempre dalla Georgia arriva uno degli ensemble più impressionanti dell’intera raccolta. Si tratta dei McIntosh County Shouters guidati da Lawrence McKiver qui alle prese con un bellissimo spiritual guidato da voci che sembrano perdersi nella notte dei tempi e bastoni che ritmicamente fanno battere i loro cuori all’unisono con quelli dei loro antenati strappati a forza dal continente nero. C’è posto anche per la musica cajun qui rappresentata dai Balfa Brothers e Nathan Abshire, nomi di tutto rispetto per quanto concerne la musica francofona della Louisiana. E poi ancora dell’ottimo Mississippi blues con Guitar Pete Franklin subito seguito dal banjo dello stesso Rosenbaum che duetta felicemente con il violinista Albert Hash riproponendo “Train 45” un altro brano che sembra avere solidi collegamenti con la tradizione africana. Eddie Bowles è un ottimo bluesman nero capace di affascinarci con un sound tra dixieland e blues made in New Orleans; mentre Bobby e George Childers sono invece due ottimi musicisti bianchi che sanno decisamente il fatto loro quando si tratta di musica old time. Naturalmente la parte del leone la fa Scapper Blackwell, un grande che alla fine degli anni venti del secolo scorso insieme al pianista Leroy Carr formava un duo famoso in tutti gli States. La loro “How long, how long blues” fu un successo di enorme portata. Rosenbaum lo incontra nel 1958. Ormai anziano Balckwell si esibisce di rado. Quando però imbraccia la chitarra e comincia a cantare tutta la classe, l’eleganza e la maestria di uno che ha fatto la storia del blues vengono fuori. Alla grande. Sentire per credere! Il cd scivola in un baleno verso il gran finale con il reverendo Nathaniel Mitchell alle prese con uno spiritual nero eseguito in un raffinato stile nubile, Tony Bryant che si conferma bluesman di razza; e Junita e Oscar Shorty Shenan che cantano “Free little birds”, un brano che musicalmente farà da genitore alla celebre “Rolling in my sweet baby arms”.
Nel 2008 in occasione della sua prima pubblicazione per la Dust to Digital questa raccolta ha vinto il Grammy Award come “Best Historical Album” dell’anno. Se avete amato i dischi della Folkways e se nel vostro petto batte il cuore di un ricercatore ancora curioso di ciò che la musica americana tradizionale ha da offrire in termini culturali ed emotivi questo disco, degno delle migliori raccolte Smithsonian, è sicuramente per voi.
MISSISSIPPI FRED McDOWELL
COME AND FOUND YOU GONE
Devil down 0001, 2010
Quello che oggi è chiamato Mississippi Hill Country Blues non sarebbe forse mai esistito senza la figura gigantesca di Mississippi Fred McDowell, musicista importantissimo nella storia del blues. Bluesmen oggi leggendari come R.L Burnside e Junior Kimbrough e band come i North Mississippi All Stars si sono sempre dichiarati suoi discepoli assoluti. Mississippi Fred McDowell, scoperto quasi per caso dal leggendario Alan Lomax nel 1959, aveva tra i suoi sostenitori più convinti musicisti del calibro di Ry Cooder, Bonnie Raitt e i Rolling Stones. Questi ultimi registrarono la loro versione del traditional “You gotta move” ispirandosi proprio a quella proposta da McDowell. Chiunque ancora oggi decida di infilarsi in un dito un ditale di vetro e di lasciarlo scivolare sul manico di una chitarra, gli deve sicuramente qualcosa. Quando tutto sembrava davvero già pubblicato per quanto concerne la figura di questo mitico bluesman, ecco apparire questa meravigliosa raccolta di brani inediti. L’idea assolutamente meritoria di dare alle stampe quest’inaspettata proposta è partita dall’Associazione Rootsway di Parma che in collaborazione con diverse istituzioni statunitensi, due riviste europee, la francese ABS magazine e l’italiana “Il Blues”; si occupa anche della distribuzione via internet del disco, uscito peraltro in tiratura limitata. Musicista a suo modo originale, seppur con qualche debito da lui stesso espresso nei confronti dell’immenso Blind Willie Johnson, Fred McDowell da Como, Mississippi; diventò in pochi anni un personaggio di culto grazie ad un sound percussivo, ipnotico, ed essenziale basato quasi esclusivamente sulla sua voce, sulla sua chitarra inesorabilmente slide e sul battito incessante del suo piede. Le registrazioni contenute nell’album sono state raccolte dal musicologo Bill Ferris che nel booklet e nell’ultima traccia del cd racconta ancora visibilmente emozionato del suo incontro con i gentili, modesti e disponibili coniugi McDowell avvenuto il 2 agosto 1967. Ecco alcune delle sue parole: “Era fantastico vederlo suonare. Ricordo che alla fine di ogni canzone si fermava per accordare con cura la sua chitarra. Quasi nessuno dei bluesman che avevo conosciuto lo faceva. Quando era sicuro dell’intonazione di ogni singola nota Fred riprendeva a suonare trasmettendo a chi lo stava ad ascoltare la potenza di un’intera orchestra e la forza straordinaria di un treno in corsa che sbuffa sui binari”. Queste incisioni dal carattere assolutamente genuino e “casalingo” per certi versi mi hanno ricordato quelle effettuate da George Mitchell; che registrò McDowell sempre nel 1967 in compagnia dell’armonicista Johnny Woods. Anche in questo caso si tratta di un set acustico registrato a casa di amici dei McDowell. Ben dodici tra le canzoni qui proposte vengono alla luce per la prima volta. Oltre ai brani più celebri come “Shake ‘Em On Down”, “Baby Please Don’t Go” e “John Henry”; in questo tesoro ritrovato si ha l’opportunità di ascoltare perle di rara bellezza come “Dream I Went To The U.N.”, e intensi spiritual come “Get Right Church”, “You Gonna Meet The King Jesus” e “I Got Religion”; momenti di grande e commossa comunione in cui la partecipazione istintiva dei presenti e in particolare della moglie di Fred, Annie Mae, tocca nel profondo la nostra anima. Ospite speciale per questa session informale l’armonica solitaria di Napoleon Strickland, collaboratore di lungo corso di Otha Turner, che propone qui un efficace strumentale intitolato “The Boogie”. Utilissimo e ben curato il libretto bilingue (inglese e francese) di ben sedici pagine con interessantissimi contributi di Luther Dickinson dei già citati North Mississippi All Stars e ora anche chitarrista dei Black Crowes; Vincent Joos e dello stesso Ferris. Consigliatissimo!
Per saperne di più e acquistare il cd visitate www.fredmcdowell.eu
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