Questo disco non è recentissimo, dobbiamo fare ammenda, ma in realtà stava lì a guardarci sornione, come il gatto Buddy ritratto in copertina, e noi non riuscivamo a trovare la parole giuste per parlar di lui… Però questo è il Ry Cooder che ci mancava, quello dei tempi ormai lontani di “Boomer’s Story”, un disco dalla copertina così scarna che più d’uno pensò trattarsi di un bootleg, il Cooder profondo conoscitore e divulgatore delle canzoni del periodo della Grande Depressione, un chitarrista che per certi aspetti non raggiunge vette enormi di tecnica chitarristica, ma quanto a espressione manda davvero a casa tanti bei nomi…
A voler scomodare il più trito dei luoghi comuni, Cooder bisognerebbe inventarlo se non ci fosse; così però non si porterebbe dentro quel mezzo secolo di sapienza musicale sedimentata che ne fa il genio che è. Sapienza non solo americana o statunitense che dir si voglia, perché negli anni il nostro Ryland ha inseguito la curiosità che gli pulsa nelle vene spingendosi a Oriente, nei Caraibi, nel jazz degli ani Venti e pure là dove tutto è nato, in Africa. A fare l’accompagnatore, o il pigmalione, mettendoci il nome e facendosi coscientemente usare da vetrina per il grande business. A noi in cambio sono arrivati un bel pacco di dischi splendidi e un allargamento del nostro scibile sonoro sul quale in tanti non avremmo neppure scommesso. Dopo gli anni della sbornia R’n.B’ e della musica cubana c’è sempre uno spiritello incontenibile che lo spinge in avanti, in parte, di lato, dovunque… Il nuovo sogno è di proporre una riflessione sulla scomparsa dello spirito del Sogno Americano. Un po’ simile al percorso che lo stesso Robert Redford sta facendo nel campo delle arti visive. Anche se meglio sarebbe dire dei mille grandi e piccoli sogni che lo costituivano: dall’epopea perdente del barrio Chavez Ravine, nella California più disperatamente ispanica, “My Name Is Buddy” presenta infatti settanta minuti che narrano di una sorta di Esopo della Grande Depressione, in una favola reale che si serve di animali per riflettere sul passato (e quindi lo stato attuale) dell’Unione.
Signore e Signori… Ecco a voi un gatto comunista, e poi ancora un ranocchio cieco predicatore e un topo sindacalista che attraversano il paese sullo sfondo delle lotte per i diritti, civili e del lavoro: sono essi stessi dei simboli dentro il flusso degli eventi, o forse dell’Evento, quello che in seguito sui libri verrà chiamato La Storia. Raccontato, cantato, fatto vedere con occhi e orecchie da capacità metaforiche e conoscenza musicale fuori discussione.
Fatica, grandi capoccia, raccolti scarsi, scioperi, guardie giurate, città al tramonto.
Ma quanto assomiglia quest’accidente di vecchia America al mondo d’oggi: c’è gente che perde il lavoro, che preme alle frontiere della speranza, che vaga affamata e impaurita interrogandosi su un futuro precario. Se ne stanno accorgendo in tanti, e i musicisti americani più attenti al mondo reale hanno capito che è più che mai il momento di rimettere in circolo la tradizione del folk, laddove per loro è molto più la musica della classe lavoratrice e della gente comune piuttosto che quella della civiltà contadina come per noi.
Dal successo stellare di Springsteen con le “Seeger Sessions”, ma forse ancor di più nel rifarsi a Guthrie e Dylan con “The ghost of Tom Joad”. Ma anche Ry Cooder, che su quella materia arcaica e a noi lontana solo in apparenza studia, suda e si applica dai tempi dei suoi primi dischi negli anni Settanta, come “Into the purple valley”, ma ancor di più il già citato “Boomer’s story”. Con i suoi ultimi due progetti artistici, questo e il precedente “Chávez Ravine”, l’artista californiano ha smesso di viaggiare in giro per il mondo per tornare a casae scoprirsi una voglia nuova di far politica e finalmente di prender ancora posizione, pur con pacato distacco, senza strilli, cortei, proclami, com’è nel suo stile.
Ry Cooder si affida ai grandi compagni d’avventura di sempre: Jim Keltner che s’alterna alla batteria con l’allievo Joachim Cooder, il mago dell’organetto norteño Flaco Jimenez, e ne trova di nuovi, anche se sanno d’antico. Ed ecco apparire al piano Van Dyke Parks, la tromba di Jon Hassel colorire ill talkin’ jazz One Cat, One Vote, One Beer, il tin whistle di Paddy Moloney a impreziosire di trifoglio d’Irlanda Suitcase In My Hand, il banjo di Pete Seeger a ricordare che, se Springsteen ha fatto un disco su Seeger, Cooder ha fatto un disco CON Seeger, anzi, i Seeger, vista la contemporanea presenza di Mike. Il chitarrista Cooder resta per lo più in disparte, orchestrando, tessendo soffuse trame sonore, ma mettendosi alla fine in piena luce con le conclusive “Farm Girl” e “There’s A Bright Side Somewhere”. Citando il R’n’B in Sundown Town e il country acustico con Hank Williams. E ancora Bobby King che già con lui aveva cantato la disperazione dei clandestini messicani nella colonna sonora di “The Border”, un film ingiustamente non troppo considerato nonostante la presenza di Jack Nicholson.
My name is Buddy è il viaggio di questo gatto attraverso l’America e i sogni degli americani, un grande cartone animato dove i buoni e cattivi hanno le sembianze di animali e il famigerato Edgar Hoover è un bel maialino…
Non c’è una scaletta precisa in questo disco, tutto è basato sulle suggestioni, sulle affinità, sull’umore delle lotte per la vita e per la libertà, sulla presa di distanza da certo bigottismo americano, sulle risibili elezioni presidenziali che stanno iniziando.
Solo una persona con grande visione grande sentimenti sarebbe potuto riuscire in questa difficile impresa: solo Ry Cooder.
Alessandro Martinez
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