La retorica della mescolanza fa ormai parte dell’armamentario lessicale di musicisti e critici. In tempi di incroci sonori non sempre indovinati ma inevitabili, perché questa è la tendenza modaiola, la musica dei Mugar è una brezza favorevole e decisa che scaccia via forzate commistioni e tocchi di esotismo sonoro studiati a tavolino, è elogio di un métissage interamente vissuto. Mugar, che significa incontro ma che è anche il luogo di riunione delle carovane nel sud algerino, quindi uno spazio di festa, mette insieme musicisti bretoni e berberi. Intorno al trio composto dai fondatori Nasredine Dalil (flauti, canto, bendir), Youenn Le Berre (flauti whistles, bombarda, cornamusa), Michel Sikiotakis (flauto irlandese, whistles, bombarda, uilleann pipes, chitarra), tutti artisti di provata esperienza, partecipi di gruppi come Fubu, Gwendal, Taxi Mauve, Orchestre National de Barbès, ruotano sette musicisti (violino, banjo, bouzouki, guimbri, t’bel, bodhran, cori). L’idea è di esplorare parallelismi e analogie sonore ma anche storiche tra la cultura berbera, segnatamente kabyle, e quelle bretone e irlandese: culture periferiche, emarginate, migranti. Questo secondo capitolo giunge ad otto anni di distanza da Kabily-Touseg (1998), fulminante album d’esordio con in copertina un menhir con croce celtica che spunta tra le sabbie del deserto. Penn ar Bled presenta undici brani cantati e strumentali, che si susseguono senza cali di tensione, in piena scioltezza acustica, mettendo in luce apprezzabili solismi e gustoso suono d’insieme. Seguite l’incalzante spinta ritmica del bendir, il pulsare sincopato e profondo del guimbri, le tessiture calde dei flauti che si fondono con violino, banjo e bouzouki, le frasi della bombarda che esaltano la pronuncia musicale bretone, l’attitudine vocale morbida. Un lavoro che si ascolta d’un fiato, ed è difficile segnalare una traccia piuttosto che sull’altra.
Ciro De Rosa
Lascia un commento