INCONTRO CON DOMENICO TORTA (giugno 2008)
Un museo, un gruppo, un disco… nel Paesaggio Sonoro
di Roberto G. Sacchi
L’organettista piemontese, che con i Musicanti di Riva presso Chieri ha da poco realizzato il primo Cd, ci racconta del Museo del Paesaggio Sonoro e di tante altre cose…
La persona che non ti aspetti. Il cappello di feltro verde a tesa media perennemente calzato, barba un po’ incolta, una mitragliata continua di parole parte in italiano, parte in piemontese. Cordiale e trascinante, è Domenico Torta. Un personaggio tra il pittoresco, il nostalgico e il bucolico, come solo nelle nostre cittadine di storia agricola si possono ancora trovare? No, nient’affatto. Piuttosto un insegnante, un diploma di conservatorio in contrabbasso e un altro in composizione, abile suonatore di organetto e fisarmonica, una passione smisurata per la cultura popolare del suo paese e in particolare per gli oggetti ideati e costruiti dalla gente destinati a produrre suono: fischietti e rastrelli, richiami e crepitacoli, sedie e bidoni e il magico torototela, un po’ berimbao, un po’ antenato del violoncello. Ci accoglie nel Museo del Paesaggio Sonoro di Riva presso Chieri (Torino), di cui è animatore instancabile: fino a pochi anni fa, quasi tutto il materiale esposto era ospitato a casa sua. L’organologo e docente universitario Febo Guizzi, con l’aiuto di alcuni borsisti del Dams di Torino (fra di loro, ed è una piacevole sorpresa, il dottor Dino Tron, colonna dei Lou Dalfin, che sta svolgendo qui il suo dottorato di ricerca post-laurea) che collaborano al progetto, ha sposato la causa di questo Museo già visitabile ma in attesa di alcuni indispensabili restauri che migliorino e amplino la sede. Mentre la visita al Museo procede, Domenico Torta risponde con contagioso entusiasmo alle nostre domande curiose.
“Il Museo del Paesaggio Sonoro mi piace pensarlo ancora come un progetto, qualcosa in divenire, nel rispetto di come è nato e di come è andato formandosi: con la passione mia e della gente di Riva presso Chieri e con la supervisione di uno studioso come Febo Guizzi, che però qui dentro ha lavorato soprattutto come uno di noi, un appassionato che ha messo al servizio della causa comune tutta la sua scienza. Dal giugno 2005 il Museo è visitabile nella sua sede di Palazzo Grosso, dove è ospitato anche il Municipio, e mi piace questa centralità perché è importante che il Museo abbia una sede autorevole ma nello stesso tempo sia riconosciuto dalla gente come una casa di tutti che vive grazie a loro. Solo così, anche se non sono più i tempi della trasmissione orale e del tramandare di generazione in generazione, è possibile che i ragazzi che vengono qui dentro si portino via un pezzo di memoria sulla quale costruire, poi, un legame personale con le tradizioni della loro gente”.
Qual è l’importanza dell’oggetto sonoro rispetto allo strumento musicale codificato e organologicamente corretto?
“Direi che è fondamentale capire che questi attrezzi del mondo contadino, e parlo di bottiglie, rastrelli, setacci, cucchiai, falci, cinture, vanghe, zappe, campane, richiami ornitologici, possano in un attimo diventare ottimi surrogati degli strumenti musicali autentici, che sono abbastanza lontani dal quotidiano della cultura contadina, mentre il contrario non è possibile. Vedi questo bastone ruvido che faccio sfregare su questa scatola di legno? Se chiudi gli occhi, senti un basso tuba leggermente stonato, ma perfettamente in grado di far muovere le gambe dei ballerini”. E il torototela? “Una vescica di maiale a fare da cassa di risonanza, con una corda tesa di budello montate su un’anima in legno. Si suona con l’archetto o con le dita, e ha un’impronta cameristica. Ma tutti questi strumenti impropri creano sonorità particolari, autentici paesaggi sonori che contribuiscono, con la loro poesia, a evocare luoghi e atmosfere in un modo che lo strumento musicale classico non può certo fare”.
Eppure tu sei un musicista colto, diplomato al Conservatorio, una formazione culturale che generalmente distrae da tutto quello che non è ordinato, preciso, consolidato… “La preparazione classica non è indispensabile ma utile per capire meglio, per avere una visione complessiva della materia. Diciamo che ti dà dei riferimenti oggettivi, dei punti fermi dai quali partire e arrivare. Poi la capacità di comprensione che deriva essenzialmente dalla passione che hai dentro, dal legame con quel pezzo di storia mai raccontata che c’è dietro questi oggetti sonori e soprattutto dietro quelli che li hanno costruiti e utilizzati aiuta a chiudere il cerchio. Sapere che è praticamente impossibile trascrivere su un pentagramma i suoni di questi strumenti e non perdere tempo a farlo è una presa di coscienza che dà valore all’oggetto del tuo studio. Non è limitante, è la ricerca di un diverso modo di intendere la musica, alternativo e non sostitutivo. Il suonatore popolare fa quello che può, quello che è funzionale al suo dovere e piacere: ma i suoi riferimenti, le sue tensioni sono verso la Musica, quella con la M maiuscola, per intenderci. Che poi non riesca a riprodurla così come vorrebbe, per limiti tecnici suoi o dello strumento, questo è un altro discorso. Non si deve replicare acriticamente quello che riesce a fare, ma capire lo spirito con cui lo fa”.
Parliamo del disco che hai appena realizzato con i Musicanti di Riva presso Chieri, “Saré l’uss e buté fora ‘l gat!”, fortemente voluto dall’etichetta FolkClub-Ethnosuoni che te l’ha prodotto. “Inizialmente, non lo volevo fare. Io non credevo fosse particolarmente significativo incidere un disco e farlo circuitare nell’ambiente del folk revival. I Musicanti, pur essendo secondo me bravissimi musicisti, non c’entrano molto con quel mondo sempre più fatto di palchi e spettacoli, festival e rassegne, cose che non hanno un grande senso se rapportate al significato vero che ha la musica popolare, di tradizione, che è fortemente legata a essere espressione di una comunità di persone, di sentimenti di appartenenza. Poi mi sono lasciato convincere, anche perché ho chiesto e ottenuto carta bianca nella sua realizzazione, e ringrazio FolkClub-Ethnosuoni per avermela concessa”.
Descrivici il disco… “Beh, dati i limiti temporali imposti dal supporto digitale, abbiamo dovuto operare una grande sintesi del nostro repertorio, mettendo insieme le quatriglie del ballo a corda (valzer, polka, mazurca e di recente one step, ma prima c’era la monferrina), canti della tradizione presi anche dal repertorio di mia mamma, Giuseppina Tamagnone (che nel disco canta anche un brano), filastrocche, ninne-nanne… il tutto tenuto insieme dal canovaccio del nostro ultimo spettacolo teatrale, “Se ij bogianen a bogio… pòrca miseria!” che stiamo portando in giro da un po’ di tempo con un certo successo. È un disco che si presta a essere apprezzato da un pubblico trasversale, composto tanto da appassionati di musica popolare rigorosi quanto da quelli che amano le contaminazioni dei generi, perché abbiamo inserito qua e là il jazz del nostro amico e grande sassofonista Claudio Chiara e abbiamo anche scherzato facendo finta di essere in Irlanda… Ma non si può descrivere un disco soltanto a parole: bisogna ascoltarlo!”
Scrive Febo Guizzi nella presentazione del disco pubblicata all’interno del libretto: “Pazienza e ironia, due modelli di cultura e di comportamento, … fusi insieme da una terza matrice di cultura, l’operosità, che è ben rappresentata dal Museo del Paesaggio Sonoro al quale Domenico mi ha consentito di aderire, e che sono riproposti in modo struggente e pacato, irresistibilmente pacato, in questo lavoro. Concept album, diario e poema sinfonico nello stesso tempo, che su una traccia appena sufficiente a dar conto di sé stessa, per la sua discrezione, dipana una massa impressionante di esperienze, di conoscenze, di messaggi, di linguaggi, di situazioni, di pulsioni che solo il lavoro artistico sa produrre: si gioca con il virtuosismo e con i suoni primari, si scherza sull’Irlanda sognata e allusa, per riproporla meglio e in modo più genuino di tanta “Mickey Mouse Music”, come definiva l’Irish Folk sbracato e parossistico di oggi uno che se ne intendeva (Ewan McCall), si rivisita la commozione di Sinigaglia di fronte ai tesori popolari mescolandola con la sapiente sfrondatura dello stereotipo liederistico, si traccia un quadro storico del cambiamento giocando con la nostalgia ma mostrando di sapere dire di più sull’emigrazione, la solitudine e la fatica e la rabbia di vivere di quanto si sforzino di fare tanti saggi concettosi”. Cosa ne pensi? “Febo è soprattutto un amico, e come tale conduce il suo lavoro nel Museo insieme con il Dams di Torino. Ha capito tutto quello che c’era da capire dei paesaggi sonori e dei Musicanti, di Domenico Torta e di tutto quello che gira intorno: la sua vicinanza ci inorgoglisce ed è una guida preziosa”.
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