Il Pìvari Trio pubblica finalmente il suo terzo album, dopo quello d’esordio (Passa ripassa, 2003) e l’ottimo La terra che mi porta (2005), a cui sicuramente questo lavoro si riallaccia per almeno due motivi: innanzitutto la titolarità condivisa con le splendide voci della Compagnia del Maggio di Frassinoro, in secondo luogo perché anche questa volta Fabio Bonvicini, Mario Nobile e Renzo Ruggiero ci propongono un album tematico. Nel caso della Terra che mi porta si trattava di un viaggio nel mondo della religiosità popolare dell’Emilia, in particolare del Frignano, nell’Appennino modenese, mentre per E ghè pü temp che vitta l’invito è a ripercorrere le modalità con cui il canto popolare emiliano ha affrontato il tema del “ciclo della vita”.
Si parte naturalmente, dopo l’introduttiva “Marcia”, tratta dal repertorio delle orchestrine da ballo degli anni ’50 (ma risalente ad almeno venti anni prima), con l’infanzia e con una bellissima ninna nanna raccolta a Frassinoro, cui segue, sempre dalla stessa località, quello che sicuramente è il brano più curioso e più interessante dal punto di vista della ricerca etnomusicale, “Chiüchiürümèlla”, la versione, quasi letterale nel testo e vicinissima nell’andamento musicale, di un classico della tradizione napoletana, ovvero la stranota “Cicerenella”, di cui il brano conserva tutta la fresca “napolitanità”; chiude il trittico dell’infanzia la simpatica “Ti ct’atacc i tacc” composta da Marco Piacentini, il “tastierista” della Compagnia, una presenza discreta, ma fondamentale nelle sonorità dell’album. Seguono poi le sezioni dedicate alla giovinezza, al rapporto fra uomini e donne e, infine, alla vecchiaia, in un percorso musicale di grande livello, sia per la forza dei brani, tradizionali o di composizione, sia per la maturità esecutiva di tutto l’ensemble: difficile quindi citarne alcuni, ma per una menzione d’onore si segnalano certamente “Iolanda”, un elegante valzer della prima metà del ‘900, la divertente “Su e giù per la Perdera”, classica storia iterativa dell’incontro tra un frate e una bella fanciulla, a cui assiste una madre altrettanto smaliziata, lo struggente canto di “Il disertore”, che ci ricorda quanto l’introduzione della coscrizione obbligatoria dopo l’unificazione della penisola fosse stata gravosa per i contadini delle campagne italiane, la brillante “A sun sta”, classica “malmaritata” in versione maschile, la malinconica “Maremma Maremma”.
Un particolare curioso è che, nonostante accurate ricerche, non è stato possibile trovare nessun pezzo tradizionale sul tema della vecchiaia, cosa alquanto strana e inaspettata se pensiamo al ruolo centrale dell’anziano nelle società rurali, nelle quali non era in atto quel processo di marginalizzazione che ha poi caratterizzato le società industriali e postindustriali, per cui l’anziano, data la sua improduttività e il suo costo sociale, è diventato sempre di più un peso. Il Trio ha comunque risolto brillantemente la difficoltà con una proposta oltremodo intelligente: un arrangiamento drammatico della più famosa “Ninna nanna” della tradizione italiana, che s’immagina cantata dai nonni al nipotino prima di consegnarlo all’abbraccio tranquillizzante della mamma, un evocativo strumentale dal titolo “Nostalgia”, probabilmente il sentimento che più caratterizza la parte finale della vita umana, e un barabano, ossia il “ballo del morto” (!) diffuso nella tradizione popolare già dal tardo ‘500 e raccolto da Placida Staro in quel di Monghidoro.
Con questo lavoro il Pìvari Trio fa ancora una volta centro, segnalandosi come uno dei gruppi più rigorosi e originali del panorama italiano: certo non si tratta di un album facilissimo (piacerà poco a quella parte del mondo folk che privilegia balli e danze), è musica prevalentemente d’ascolto, senza cedimenti a contaminazioni modaiole, ma di grande interesse e suggestione per gli ascoltatori più attenti e appassionati alla riscoperta di un mondo quasi scomparso, o relegato in zone marginali, ma che conserva intatto il sapore autentico delle buone cose di una volta.
Paolo Zara
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