FRATELLI CHAMPION: ASSOCIAZIONISMO E INSEGNAMENTO (maggio 2008)
Torniamo a parlare dell’Auvergne, ma non di bourrèe o di cabrette ma per proseguire un interessante discorso intavolato dieci anni fa…
Intervista a cura di Tiziano Menduto
Traduzione di Anna De Biasio
Torniamo a parlare dell’Alvernia, fastidioso nome italiano dell’affascinante regione francese dell’Auvergne. Una regione che oggi, grazie ai fratelli Champion e agli allievi italiani e francesi che ne hanno diffuso il verbo e ai musicisti che lo musicano, non evoca più vulcani o campagne povere ma danze e musiche d’inesauribile bellezza.
Fatta questa premessa necessaria, mi spiace, ma non è di bourrée o di cabrette che parleremo.
Ci interessa capire il percorso dell’associazione “Les Brayauds” – nata attorno alle figure di due musicisti ed insegnanti di danza, i fratelli Didier e Eric Champion – che in questi anni non solo ha promosso la conoscenza delle radici musicali e coreutiche della Basse-Auvergne, ma ha saputo radicarsi ottimamente sul territorio diventando un punto di riferimento per danzatori e musicisti.
Dieci anni fa la prima intervista che raccontava dell’acquisto negli anni ‘80 delle case rurali di “Le Gamounet” e della formazione di un gruppo di giovani collaboratori che si dedicavano allo studio, al collectage, alla ricerca presso gli anziani.
Da dieci anni a questa parte, dopo l’intervista per FB, cosa è cambiato nell’associazione “Les Brayauds”?
È difficile rispondere perché le cose accadono lentamente.
Uno dei cambiamenti è che l’associazione è diventata dipartimentale; ha continuato a svilupparsi, si è strutturata meglio.
Accogliamo altre associazioni, per esempio un’associazione dedicata alla canzone francese che è vicino a noi sul piano “filosofico”. Li ospitiamo una volta al mese anche per dei concerti, per serate, festival,…
L’associazione Les Brayauds in sé ha portato avanti progetti strutturati a livello di equipe professionali e ha acquistato un posto rilevante in ambito regionale.
Ormai siamo riconosciuti per la danza a livello regionale e nazionale.
Ma i nostri interessi vanno anche alla formazione e al coinvolgimento di un pubblico giovane.
Soprattutto in questo momento ci stiamo occupando dei bambini con un progetto che si chiama TRADAMUSE e che coinvolge le scuole, o delle reti di scuole, nelle persone dei professori, insegnanti, dei musicisti e dei bambini. E’ un progetto che portiamo avanti nelle scuole elementari: noi proponiamo dei corsi sulla canzone, sulla danza, sulla scrittura di canzoni; ci sono poi dei periodi di apprendimento per gli istitutori ed essi vanno nelle scuole ad applicare quanto appreso. Attualmente ci sono dei momenti di ballo per i bambini dove i bambini stessi mostrano ai genitori il lavoro svolto e cercano di coinvolgerli. Per noi è un modo di riportare nella scuola il canto e la musica tradizionale.
Questi progetti moltiplicano le persone coinvolte.
Noi formiamo delle persone che a loro volta ne coinvolgono altre e in questo modo si riescono ad avvicinare al mondo della musica tradizionale molte persone. Attualmente sono impegnate 150 classi.
In questa rete di contatti e collaborazioni quali sono i collegamenti tra la FAMDT (Fédération des associations de musiques et danses traditionnelles) e l’AMTA (Agence des Musiques Traditionnelles en Auvergne) ?
La FAMDT è a livello dipartimentale. Ci sono quattro dipartimenti in questa zona: Allier, Puy-de-Dôme, Cantal e Haute Loire. Questi dipartimenti fanno riferimento ad un ente regionale, l’AMTA. Anche noi facciamo parte di questa rete regionale, una rete che funziona come un grosso contenitore a cui fanno capo differenti attività artistiche e culturali.
In Italia le associazioni fanno fatica a radicarsi sul territorio. Spesso le persone che arrivano per un corso o uno stage arrivano da luoghi distanti dal territorio in cui opera l’associazione. Lavorare con la scuola è un buon modo di creare collegamenti con il territorio…
Oggi molte persone vengono da noi.
Per esempio molti giovani arrivano da Clermont-Ferrand che è una città piena di studenti. Arrivano qui perché c’è della buona musica, sono molto esigenti in questo. E noi stessi valutiamo attentamente chi chiamare per suonare in questi contesti, siamo esigenti sui repertori e sui contenuti.
All’inizio questi ragazzi arrivano e ballano come vogliono: noi non interveniamo più di tanto. Inizialmente danzano le bourrée saltando ad ogni passo, poi dopo ci guardano e sono loro che poco alla volta si avvicinano e chiedono di essere aiutati. Attraverso tutte queste iniziative stiamo coinvolgendo veramente molte persone e questo cambia il modo di guardare alle nostre tradizioni. La danza, il canto, la musica fungono un po’ come un punto d’incontro simbolico tra diverse generazioni. Le Gamounet è diventato un posto fortemente identificato.
La nostra collaborazione con associazioni di canto o di Tango non ci preoccupa. Noi siamo sufficientemente forti per accogliere gli altri e far incrociare diversi pubblici. Il pubblico della canzone è un pubblico non giovane, il pubblico del tango è una via di mezzo tra questo e quello più giovane. Per radicarci ancor più sul territorio abbiamo fatto anche alcune esperienze esterne interessanti, come il Bal de la Comedie.
In Francia ci sono delle strutture chiamate Comedie, delle strutture professionali dello spettacolo che hanno molto denaro a disposizione dallo Stato. Queste strutture svolgono ogni anno un tema, tempo fa, per esempio, si sono occupate di tango e nel 2006 si sono occupate di bourrée e noi abbiamo scelto i musicisti.
È stato un buon successo. Questo ci ha permesso un contatto con un pubblico che normalmente non viene da noi. Un pubblico che normalmente ascolta e danza altre cose.
In questi dieci anni è cambiato l’interesse del territorio relativamente alle proprie tradizioni popolari?
In alcuni ambiti l’interesse si è acuito, in altri no. Per esempio riguardo alla canzone popolare c’è un’associazione che sta raccogliendo la memoria vocale orale di questa zona.
C’è anche un architetto che sta occupandosi della memoria architettonica.
A noi piacerebbe, ma è un po’ un’utopia, creare una federazione della memoria, la memoria delle cose immateriali. Conservare un piccolo patrimonio, un patrimonio che è poi quello del popolo. Quasi sicuramente questa è un’utopia: probabilmente la gente non è ancora pronta a questo.
Le Gaumonet è un luogo esemplare. Quello che noi vorremmo conservare va al di là dai singoli ambiti, noi ci proponiamo di conservare cose per poi farle conoscere.
La danza, ad esempio, è stata da noi ricercata sul campo, è stata conservata. Potevamo nutrirci ancora di più di ricerca ma siamo riusciti ad avere l’idea di quello che era una bourrée.
A noi interessava vedere sì come poteva essere questa danza, ma anche come si poteva evolvere nel futuro. Non bisogna accontentarsi della memoria.
Bisogna capire come una tradizione, che non è più nell’ambito di una società tradizionale che l’ha espressa, possa evolversi. E si può farlo senza fare “folklore” e sclerotizzare qualcosa che è già terminato.
Bisogna che queste cose vivano, ma vivano senza tradire lo spirito originale, la memoria.
Il problema di Gennetines, a nostro avviso, è che la maniera di far vivere la danza non è solo questa.
Non basta dire di “far rivivere la danza” per farla rivivere veramente. Non è solo questione di danza, ma di una globalità di aspetti legati alla danza e alla tradizione che l’ha tramandata.
Il giornale si è occupato spesso di “didattica della danza” e so che voi riflettete molto, anche durante gli stage, di come insegnare… Perché è così importante per voi trovare la modalità corretta per trasmettere le vostre conoscenze?
Noi sulla pedagogia della danza abbiamo riflettuto molto.
Per un po’ abbiamo trasmesso contenuti, coreografie, tecniche e percorsi: c’è la bourrée dell’Artense, la bourrée di qui, la bourrée di là…
Abbiamo trasmesso cose che hanno permesso alla gente di cavarsela, di acquisire qualche strumento.
Ciò che ci interessa oggi è, invece, il processo che permette di fabbricare la danza.
Cosa succede nell’atto del danzare? Che cosa si utilizza della nostra testa, della nostra cultura, per produrre dei gesti in relazione alla musica e al partner con cui balliamo? Quello che cerchiamo di far emergere è la possibilità di avere strumenti per creare una sintassi capace di riprodurre la dinamica della danza.
Bisogna possedere questa sintassi che ha le sue regole e che ci permette di dire qualcosa con la danza.
Nella danza si può anche avere un vocabolario enorme ma niente da dire. A noi interessa capire cosa accade nella relazione tra danzatori. Per avere piacere nella danza, bisogna avere qualcosa da dire.
Come fate a lavorare sulla sintassi della danza?
Da una parte c’è un lavoro sull’imitazione. Noi balliamo per dare un’idea alle persone di quello che esteticamente è valido.
Noi non vogliamo essere clonati, le persone prenderanno da noi quello che più si adegua a loro, alla loro personalità.
Dall’altra parte c’è un percorso di esplorazione personale perché appunto trovino loro delle soluzioni rispetto ai modelli che vedono.
Le persone devono potersi chiedere: “che cosa posso dire io con la danza oggi?” o “che cosa faccio io con il mio partner?”.
È quasi una scelta politica.
È giusto imporre la danza e volere che l’altro faccia quello che faccio io?
O è meglio permettere all’altro di esprimersi?
Il nostro modo di lavorare vuole aprire delle porte e permettere all’altro di esistere nella danza.
Ma è possibile imitare oggi? Non si è persa la memoria che permetteva ieri a chi vedeva un danzatore nella tradizione di apprendere dall’imitazione?
Noi non ci fermiamo all’imitazione di un solo gesto, noi mostriamo una serie di gesti.
Per esempio noi lavoriamo sul passo base perché è necessario per fare qualunque altra cosa.
Quello che facciamo oggi nei nostri stage è mettere le persone nelle condizioni di ballare con la musica, permettiamo a loro di esplorare delle possibilità. Noi non diamo soluzioni, soluzioni non ne esistono, ma caso mai si costruiscono di volta in volta. E’ un processo di esplorazione e di creazione.
L’imitazione è solo un passaggio, ma fermarsi a questo non serve. L’imitazione permette di costruire una serie di gesti, di passi che poi è necessario declinare. A noi interessa dare agli allievi una serie di colori che possano utilizzare.
L’imitazione è una fase normale nel ballo, ma quando tu hai in mano una tavolozza di colori puoi riflettere su tutti i cromatismi che puoi mettere nella danza.
Se poi ci metti anche la tua identità, stai reinventando la danza.
Forse questa è ancora una fase prematura, la gente è generalmente ancora oggi in una fase di nutrimento.
Noi abbiamo molto lavorato, ma abbiamo anche molto guardato, analizzato, riflettuto e discusso. Abbiamo elaborato uno stile nostro. Ed è quello che noi proponiamo ai nostri allievi per far vedere alla gente, ad esempio, come mettere le braccia nella danza.
E’ importante che la gente si senta bene ballando una bourrée, è importante stare bene con il proprio corpo, stare bene con l’altro. Nella danza ci sei tutto tu con l’altro.
Non c’è un modello supremo come nella danza classica.
Tuttavia, come si diceva prima, è necessario un referente. Ma se lo scopo è diventare come noi, ci si sta sbagliando.
È una domanda che vi ho già fatto in passato. Ci ritorno perché su questo aspetto in Italia ci sono ancora troppe orecchie che non vogliono sentire: quanto è importante per voi avere la musica dal vivo durante corsi e stage?
Se noi vogliamo dare alle persone tutta questa sintassi di gesti dobbiamo farlo nel modo naturale, cioè quello che prevede la presenza della musica dal vivo.
Se è presente un musicista è possibile scegliere, di volta in volta, quale è il tipo di bourrée che si vuole proporre. Con un musicista si abitua l’allievo ad ascoltare. Ad ascoltare sia le caratteristiche della danza che dello strumento che le esegue. Una bourrée non è la stessa se suonata da strumenti diversi. È anche importante mostrare agli allievi che la musica è al servizio della danza e non viceversa.
Video: toujours tnt au brayauds!
Video les nuits basaltiques!
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