Intervista ai Sancto Ianne (gennaio 2008)
Dal folk d’autore verso nuovi lidi…
Con “Mo’ siente” i Sancto Ianne stanno andando lontano: hanno partecipato al prestigioso premio Città di Loano e sono entrati nella rosa dei cinque finalisti per la Targa Tenco per il disco in dialetto. Gianni Principe, voce e front-man della formazione sannita, e Ciro Maria Schettino, polistrumentista ed autore dei brani, in questa intervista riflettono a voce alta sull’evoluzione del sound del gruppo e sulle sorti della musica folk in Italia.
Sancto Ianne: dal primo CD autoprodotto nel 2000 “Tante bannere tanti padrone” a “Mo’ siente” passando per “Scapulà”. Cosa è cambiato?
Gianni Principe: Tantissime cose. Le produzioni discografiche sono un chiaro indice dei cambiamenti rispetto al cammino artistico e musicale del gruppo. Volendo tracciare un percorso di crescita si potrebbe dire che, partendo dal folk, ci indirizziamo sempre più verso la musica d’autore, raccontando le storie del territorio attraverso l’uso del dialetto come mezzo di espressione. La nostra musica è stata definita folk d’autore, ma stiamo abbandonando questa zona di confine, stiamo iniziando ad uscire fuori da un alveo ben definito per entrare in un altro ambito.
Avete in mente un cammino già delineato?
GP: Ci vorrà del tempo, ci stiamo avviando verso un percorso che, avendo fermi i rapporti con il territorio e la sua cultura, la sua storia, ci consente di allargare la visione a 360 gradi. Ciro Schettino, che scrive i testi, riesce ad esprimere in modo ottimale questa esigenza, è il passepartout verso una chiave di lettura più ampia. I percorsi chiaramente sono lunghi, ricchi di novità e anche di sorprese, non si possono definire a tavolino, bisogna seguire ciò che hai nel cuore, magari tra 5 anni ci troveremo su un terreno che non avevamo considerato…
Come è nato “Mo’ siente”, questo lavoro che vi sta portando lontano? Ha richiesto maggiore elaborazione del precedente?
Ciro Maria Schettino: In Mo’ siente c’è più lavoro, c’è anche ricerca e un po’ di sperimentazione. Abbiamo utilizzato segmenti sonori non propriamente nostri, come la voce di Faisal Taher in “Uocchie”, il coro di voci bulgare di Uno ‘nponta ‘a luna. Anche in Scapulà avevamo inserito la voce del poeta Albino Pierro: ci sembra importante dare un connotato a ciò che il territorio riesce ad esprimere. E’ un progetto sul quale abbiamo puntato molto: quando ho cominciato a suonare con i Sancto Ianne, del nucleo originario erano rimasti in tre, tra cui Gianni Principe. Avevo in mente una linea evolutiva attraverso il rispetto dei canoni fondamentali con l’uso degli strumenti tradizionali e l’aggancio con il territorio. Questa è stata la chiave di volta. Poi l’evoluzione ci ha portato fino all’uso della chitarra elettrica, anche contando sulle energie che abbiamo a disposizione, senza inventare niente di particolare. Mo’ siente è un disco impegnato e forse anche un po’ impegnativo da ascoltare, fatto per durare nel tempo, è una proposta musicale e culturale a lento rilascio, che permette riflessioni e considerazioni. Abbiamo scelto di abbracciare temi sociali forti: lavoro nero, immigrazione, viaggi della speranza, senza tuttavia appesantirci troppo ed inserendo momenti di gioco e di scherzo come Peppe ‘o mago e Juorno ‘e festa.
In cosa sta la forza di un brano dei Sancto Ianne?
GP: Nel fatto di pensare di avere qualcosa di interessante, di nuovo da dire anche nei confronti di persone che non conosci e che possono cogliere qualcosa che appartiene anche a loro: questa è la magia. Chi ha apprezzato il disco ha considerato proprio questo aspetto, ma è necessario un ascolto approfondito: non è un disco easy listening, non potrebbe mai essere trasmesso in una radio commerciale, farebbe scappare gli sponsor, la gente è abituata all’ascolto di altre cose.
CMS: Penso che se si ha la fortuna di essere ascoltati vale la pena dire qualcosa di interessante, questa è la forza.
Esaltate la specificità delle zone interne rispetto alle aree costiere. Il brano Nuie ca nun stammo vicino ‘o mare, molto toccante, canta il lirismo delle zone interne. In cosa si individua questa peculiarità?
CMS: Napoli rimane sempre e comunque la capitale, è un riferimento culturale forte. Tutto ciò che è collegato alla musica popolare campana è partito tempo fa da Napoli: mi riferisco a De Simone, alla Nuova Compagnia di Canto Popolare, ai Zezi, che hanno ripreso forme espressive presenti anche nell’entroterra. La nostra specificità riguarda sicuramente la configurazione fisica del territorio, ci riconosciamo con la montagna. Noi siamo sanniti, abitanti dell’area interna che per ragioni storiche, tra le quali soprattutto la presenza dello Stato Vaticano, è stata frammentata. Le zone interne hanno un vissuto fatto di sofferenza e di cultura. La specificità è collegata ad un elemento territoriale forte, vogliamo recuperare una nostra storia. In particolare, sono molto legato all’avvenimento raccontato in ‘A banda d’o Matese, un episodio un po’ romantico, legato ad una spinta idealistica con marcati connotati sociali e territoriali. In Campania, poi, è paradossale la distribuzione della popolazione, per l’80% sulla fascia costiera per il 20% nelle zone interne. Napoli rappresenta un fattore positivo ma anche un grosso limite, perché catalizza attenzioni e risorse, soprattutto sulla base dell’emergenza.
GP: La specificità di Sancto Ianne si concretizza attraverso le storie, che altrimenti non verrebbero raccontate, e nel modo in cui le raccontiamo: l’uomo si esprime anche in base al posto in cui vive. Non nascondiamo il nostro orgoglio di essere sanniti, si coglie nel disco e dal vivo, sappiamo di avere alle spalle una storia ricca di contenuti e di energia. Specificità non è solo uno slogan, è un sentimento, un’emozione, ed anche una scelta di vita.
Mo’ siente è stato candidato in prestigiosi concorsi: il premio Città di Loano, a cui siete andati molto vicino, e la Targa Tenco per l’album in dialetto. Raccontate!
GP: Sapevamo di avere le carte in regola per partecipare a questi due premi e siamo molto soddisfatti dei risultati ottenuti. Loano è il premio più importante per la musica tradizionale, siamo arrivati secondi dopo Lucilla Galeazzi, che l’anno prima aveva ottenuto la Targa Tenco, è una grandissima soddisfazione. A suggellare tutto ciò dopo pochi mesi eravamo tra i cinque finalisti per l’album in dialetto per la Targa Tenco insieme a nomi storici del folk ma anche della musica italiana: De Sio, Gragnaniello, Elena Ledda- Andrea Parodi, Lou Dalfin, con una storia dietro di loro che li legittima come grandi interpreti. Con la consapevolezza di essere outsider e di avere alle spalle soltanto il nostro lavoro, il giudizio positivo ci gratifica ancora di più.
Con quali modalità si accede a questi concorsi?
GP: Partecipare a questi premi non è facile, alle spalle c’è un lavoro enorme di diffusione del prodotto discografico che per i Sancto Ianne è svolto da Alfonso Coviello che cura la rappresentanza del gruppo verso l’esterno, e che ha lavorato in modo encomiabile, certosino, scientifico e unico.
Come valutate le scelte dei critici musicali dei due premi?
CMS: Noi portiamo avanti un discorso di evoluzione della musica popolare, assumendocene anche il rischio (di cadere nel banale, di proporre contaminazioni poco significative). Se abbiamo un pregio, è quello di avere un suono che tutti ormai riconoscono come Sancto Ianne, un sound che si fa carico di una linea evolutiva della musica popolare, è un compito di responsabilità. Nel premio alla Galeazzi leggo una scelta dei critici rispetto a un certo tipo di modalità espressiva: evidentemente dobbiamo ancora lavorare e avere la possibilità di farci ascoltare di più. La vittoria al Tenco di Ledda e Parodi rende merito alla qualità delle voci e di quello che hanno espresso nel disco, ed è per noi molto positiva: stare nella stessa categoria di musicisti che hanno una visibilità molto maggiore della nostra, ma che possiamo avvicinare a noi (anche il loro disco va in avanti rispetto alla tradizione), aumenta la possibilità che questo tipo di produzione possa avere un pubblico più ampio. Parodi era un artista dalla bellissima voce e dal grandissimo coraggio nell’aver abbandonato la musica leggera per dedicarsi alla musica della sua terra. Questa vincita è un elemento positivo per acquisire pubblico ad un mondo che non ha la giusta attenzione. In questo senso a Napoli mi sembra importante l’operazione di Nino D’Angelo, che ha un pubblico che segue lui e attraverso lui arriva ad una proposta diversa.
GP: Il disco di Elena Ledda e Andrea Parodi è di ottima fattura, aveva tutti i titoli per vincere. Che sia scattata la molla emotiva perché Parodi non è più con noi, è fuor di dubbio, ma ciò non toglie nulla alla bellezza del disco in cui c’è una miscela magica delle voci che rappresentano la Sardegna. Comunque, penso che tutte queste partecipazioni per i Sancto Ianne siano un punto di partenza. Siamo entrati in un mondo fatto di stanze una dentro l’altra, chiudi una porta e ne apri un’altra, non è un lungo corridoio al termine del quale sei arrivato. Ogni volta si ricomincia daccapo.
Quale attenzione ha avuto sulla stampa e sui mezzi di comunicazione in genere l’aver partecipato a questi premi?
CMS: Qui si consuma una piccola polemica con Napoli. Per presentare la finale della Targa Tenco il quotidiano Il Mattino in pagina culturale nazionale il 25 settembre titola “De Sio contro Gragnaniello. Sfida napoletana al Tenco”. Nell’articolo, non firmato, i Sancto Ianne figurano come gruppo di Ceppaloni (non so se c’era un tentativo di associazione, che non è). Ci siamo sentiti penalizzati, perché pensiamo che la nostra partecipazione alla finale del Tenco possa essere motivo di orgoglio per tutta la Campania, così come bisognerebbe mettere in risalto che, ad esempio, nel disco di Gragnaniello c’è un grosso apporto di musicisti beneventani, realtà forte che avrebbe bisogno di essere considerata di più e al di là degli schemi. La scelta del giornalista non è stata molto attenta anche considerando che poi ha vinto la Sardegna con Elena Ledda e Andrea Parodi.
GP: Il fatto grave è che Il Mattino è il quotidiano più importante del Sud Italia, che dovrebbe far parlare tutta la Campania. A meno che sia cambiato qualcosa e non ce ne siamo accorti, noi facciamo ancora parte della Campania! Voler sempre far diventare tutto una questione di bottega squalifica chi scrive certe cose. E’ poca cosa ma è emblematico dell’atteggiamento di Napoli verso l’entroterra. Tra l’altro l’articolo sarebbe risultato anche più interessante scrivendo che oltre ai musicisti napoletani c’erano i beneventani.
CMS: Comunque c’è un grosso problema di visibilità. Sono un ascoltatore di radio, anche di notte ci sono special sulla musica celtica, sulla musica brasiliana, ma non si ascolta musica di provenienza regionale italiana, c’è un ostracismo forte verso ciò che sta alle radici della musica nazional-popolare. Penso a una Gianna Nannini che si esprime secondo modalità quasi “vetero-folk” e riesce a raggiungere il gusto del pubblico. C’è tutto un panorama di artisti che non hanno proprio la possibilità di essere ascoltati. Ricordo la trasmissione L’altro suono di Anna Melato negli anni ‘80, che mi ha avvicinato alla musica popolare. Due ore alla settimana servivano per aprire gli occhi su un mondo che diversamente rimarrebbe sconosciuto e invisibile, che riesce ad esprimere proposte qualitativamente valide, e che ha il diritto di avere spazio ed appoggio da chi dovrebbe divulgare certe proposte. I passaggi radiofonici, invece, riguardano sempre lo stesso gruppo di musicisti, pilotati dalle multinazionali che plagiano i gusti delle persone, in quanto non viene data la possibilità di ascoltare cose diverse.
I vostri concerti vi hanno portato in giro, in Italia e all’estero. Avete potuto osservare come funziona un folk festival in altre realtà? Quali le difficoltà al Sud?
GP: Per organizzare un festival ci sono diversi livelli di intervento: c’è la programmazione, c’è il momento della scelta, ci sono i problemi pratici che dovrebbero essere affrontati con partner il cui intervento consenta di lavorare in sicurezza. Questo non succede, si finisce per portare a termine il progetto con amici, con gente del posto, grazie alla collaborazione di persone che volontariamente si mettono al servizio di un progetto. L’impressione è che non ci sia tanta differenza tra il sud e il nord, ma tra l’Italia e l’estero sì. In alcuni paesi le istituzioni hanno acquisito progettualità, in Francia si programmano gli eventi su due anni, sono stati messi in piedi meccanismi ben oliati che funzionano e che consentono di lavorare in tranquillità. Gli organizzatori sanno di poter contare in modo automatico sugli enti, si è creata una situazione di perfetta simbiosi che permette di lavorare insieme, nascono fondazioni che funzionano. Qui tutto questo sembra fantascienza. Al Nord Italia sembra che vada tutto bene, ma probabilmente perché lì ci sarà indifferenza ma non c’è l’ostracismo che si incontra al Sud dove i problemi sono di natura pratica e purtroppo vengono posti proprio dai sostenitori.
Vi siete passati il testimone della direzione artistica delle due edizioni del giovane festival TerreinMoto ad Apice Vecchia: Gianni Principe ha curato la prima edizione, Ciro Schettino la seconda. Quali valutazioni fate di quella esperienza?
GP: Il festival di Apice è nato con l’intenzione di creare un momento e un mondo esclusivi legati alla musica folk e di tradizione in un’area che ben si prestava ed in cui non esisteva nulla di simile. Il pubblico ha trovato location e qualità della proposta ma questo non basta. Bisogna aiutare la crescita del festival, sostenerlo per farlo diventare patrimonio comune, farlo camminare con le sue gambe. Invece ogni volta si deve ricominciare daccapo, si torna indietro e poi si riparte come il granchio, sfibrando chi deve lavorare materialmente.
CMS: Il festival è stato organizzato insieme al Centro di Cultura Popolare di Napoli di Antonio Acocella, noi abbiamo voluto dare forza ad un legame con il territorio. TerreinMoto è una grossa operazione culturale, non una sagra ma un’esperienza cui hanno partecipato i più grandi nomi della musica popolare italiana, esperienza purtroppo non accompagnata e non condivisa dall’Amministrazione comunale di Apice se non per gli aspetti organizzativi di garanzia dei servizi. Dall’interno le difficoltà sono state tantissime, non c’è stata condivisione politica del progetto, non abbiamo avuto nessun assessore comunale alla conferenza stampa di presentazione né durante il festival. Al contrario, in altre realtà come Giugliano, tanto per rimanere in Campania, il progetto delle “paranze” è diventato un progetto di recupero sociale dei minori. Assistiamo alla crisi della politica, ma io penso che i veri “antipolitici” oggi siano i politici, la società civile si muove, si organizza e prende iniziative, e non trova una controparte efficace in chi occupa certi posti. Non è questione di appartenenza politica.
Quali prospettive immaginate per TerreinMoto?
GP: Con il tempo il festival potrebbe diventare un elemento del territorio, un appuntamento fisso. La partecipazione della gente dimostra che è stata compresa l’idea alla base del progetto, di fornire un ampio spaccato della musica tradizionale italiana. Per Apice si tratta di un percorso originale.
CMS: Anche il Festival del cinema di Giffoni Valle Piana, per prendere ad esempio un riferimento culturale del Sud, ci ha messo tempo ad emergere per farsi considerare espressione del territorio, ma è anche un esempio a cui i politici potrebbero rapportarsi ed attingere per disegnare percorsi. Ad Apice i risultati ci sono stati per chi li vuol vedere, in prospettiva occorrono volontà di investire in idee e coraggio.
intervista a cura di Carla Visca
Video LA BALLATA DELL’EMERGENZA
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