BLUES BORDERS 21
di Fabrizio Poggi
In questo numero recensioni di Li’l Ronnie And The Grand Dukes, Paul Geremia, Dick Farrelly & Mat Walklate, Liz Mandeville, The Wiyos, Big Walker, Paul Reddick, Daniele Tenca, Professor Louie & The Crowmatix, Ray Bonneville, The Blasters, Johnny Mastro & Mama’s Boys, Joe Chiariello, Bex Marshall, The Blues Broads, Marion James, Smokin’ Joe Kubek & Bnois King, Lurrie Bell, Hans Theessink & Terry Evans, Fabrizio Poggi.
LI’L RONNIE AND THE GRAND DUKES
“Gotta Strange Feelings”
Ellersoul Records, 2012
Ecco il disco di un’altra sorprendente band che sembra uscita, (anch’essa), da uno dei tanti bar dell’ “altra America”. Un disco onesto e professionale che arriva direttamente da Richmond, Virginia. “Gotta strange feelings” è il lavoro che segna il debutto della band con una nuova etichetta ed è il seguito diretto di “Do what ‘cha do” un album prodotto dal chitarrista texano Anson Funderburgh. Il gruppo è formato da Li’l Ronnie Owens voce e armonica, Ivan Applerouth chitarra, John Sheppard basso, Mark Young e Marty Gary batteria. La loro musica evitando rischiosi voli pindarici gira intorno al west coast e al Chicago blues (con spruzzate di swing) non disdegnando il rock ‘n’ roll dei T- Birds degli esordi. I brani più convincenti sono quelli strumentali dove sia Owens che Applerouth dimostrano di saperci fare con i rispettivi strumenti. Tra l’altro gran parte delle composizioni sono scritte da loro. Tra i brani altrui notiamo “C’est la vie” di Chuck Berry e “Buzz me” del grande Louis Jordan. Secondo chi scrive questa è una band da sentire soprattutto dal vivo. Tenetene conto la prossima volta che organizzate una festa!
GEREMIA, PAUL
“Love My Stuff”
Red House Records, 2011
Italo Americano di terza generazione, Paul Geremia è on the road dal lontano 1966.
Ha suonato il suo blues “delle radici”, di cui è esperto conoscitore, dappertutto: dagli angoli delle strade ai festival più rinomati al mondo, girando States, Europa e altre parti del globo. Ha conosciuto personalmente gran parte dei suoi eroi, gli architetti che hanno fatto grande il blues prebellico. Da loro ha imparato a non essere un semplice esecutore ma “a vivere” il blues in ogni sua declinazione. Di lui il grande Dave Van Ronk (uno dei precettori di Dylan) aveva gran stima. Lo chiamava “il maestro del blues e del jazz prebellico”. Un complimento mica da poco. Questa collection, rimasterizzata per l’occasione, arriva dalla monumentale raccolta di nastri che testimoniano i concerti di Paul dal 1980 a oggi; e che giacevano su qualche scaffale di casa Geremia. Molti brani vedono la luce per la prima volta proprio all’interno di questo progetto. Paul si destreggia magistralmente tra chitarre (6 e 12 corde) e armonica (appesa al collo); e canta con duttile abilità. Ci sono anche un paio di ospiti: Rich DelGrosso al mandolino e Rory McLeod al basso che impreziosiscono un paio di brani. Geremia, in completa solitudine, alterna classici più o meno noti presi dal repertorio di Blind Wilie McTell, Sleepy John Estes, Reverend Gary Davis, Leadbelly, Gus Cannon, Ramblin’ Thomas e Big Joe Williams a proprie canzoni composizioni. Da segnalare una strepitosa versione di “Doctor Jazz” classico di King Oliver del 1929 portato al successo da Jelly Roll Morton. Indispensabile per chi suona la chitarra blues in stile finger picking e per tutti coloro che suonano chitarra e armonica contemporaneamente.
FARRELLY, DICK & WALKLATE, MAT
“Keep it Clean”
Kjlate Records
I lettori più affezionati ricorderanno certamente il nome di Mat Walkate grande armonicista dalle due anime (quella “blues” e quella “irish”) come componente degli ottimi House Devils e Depot. Nel ruolo di armonicista di musica celtica Mat ha ormai raggiunto uno status che lo colloca tra gli strumentisti di prima grandezza.Qui l’artista irlandese, ma residente da anni a Manchester UK, torna al suo primo amore: il blues. Attivissimo come sempre, questa volta Walklate duetta con un altro musicista di estrazione blues e jazz proveniente anch’egli dall’isola di smeraldo. Il suo compagno di viaggio è Dick Farrelly versatile chitarrista che vanta collaborazioni con Van Morrison, Mick Taylor, Animals, Noel Redding e Sinead O’Connor. Mat e Dick si sono incontrati una sera in un bar di Amsterdam e lì hanno cominciato, quasi casualmente, a “jammare” insieme. Un blues, come si dice tira l’altro, e i due si sono trovati a suonare sino a tarda notte. L’esperienza piacque così tanto a Mat e Dick, da farli decidere di entrare in studio e provare a mettere su cd la musica che avevano suonato quella notte “olandese”. Quando sono entrati in studio non avevano provato nulla, ma la musica è uscita subito fluida e spontanea. Il risultato è questo cd frutto di 9 ore e mezzo di incisioni: 10 brani solo chitarra, armonica e voce tra brani più o meno noti, tre originali e persino “C jam blues” di Duke Ellington.
MANDEVILLE, LIZ
“Clarksdale”
Blue Kitty Music, 2012
Questo disco nasce da una grande amicizia, quella di Liz con Willie “Big Eyes” Smith, cantante e armonicista ma soprattutto batterista storico di Muddy Waters. Questa è l’ultima registrazione di Smith scomparso il 16 settembre 2011 e quindi la sua presenza in cinque brani del cd è particolarmente toccante. Difficile definire il genere suonato dalla Mendeville (voce e chitarra) che spazia dal jump blues al classico Chicago sound, per proporre poi brani a cappella per sola voce, rock ‘n’ roll da roadhouse e brani acustici che sembrano usciti dal repertorio di una delle tante dive del blues degli anni Trenta (e che, a detta del sottoscritto, sono tra le cose migliori del disco). Dopo una brutta malattia che l’ha tenuta lontano dalla musica per tutto il 2009 Liz, dopo anni passati sui palchi della Windy City nel 2010, in cerca di ispirazione, ha deciso di visitare i luoghi sacri del blues. Per questo si è recata a Clarksdale Mississippi dove ha preso una stanza al mitico Riverside Hotel. Proprio lì, “assalita” da ottime vibrazioni ha scritto gran parte dei brani contenuti nell’album. Oltre a Smith il disco si avvale di altri ospiti: Eddie Shaw (Howlin Wolf band) al sax, Donna Herula alla slide e Nick Moss (che ha cominciato a suonare il basso proprio con Liz) alla chitarra.
THE WIYOS
“Twist”
Yo, 2011
Con questo disco siamo veramente, come recita il titolo di questa rubrica, ai confini del blues. E va bene così, se nella musica cercate ancora avventura e sorprese. Qui di trovate singolari ne troverete in gran quantità. Non è stato facile recensire questo disco. Ascoltandolo, sono tantissime le parole che mi sono venute in mente: jug band, Beatles, surf music, twang guitar, Ennio Morricone, old time banjo, Beach Boys, bossa nova, Cuba, Leon Redbone, klezmer, funky,Tom Waits, Mississippi blues, vocalese, Frank Zappa, hip hop, jazz degli anni Venti, musica folk hawaiana, country, un’armonica suonata alla John Popper, rockabilly, ragtime, Penguin Cafe Orchestra, Kurt Weill… Ecco, prendete tutti questi nomi che ho elencato, metteteli in un frullatore musicale e avrete la stupefacente materia che compone questo album. La band che prende il nome da una gang irlandese che si aggirava per le strade di New York verso la fine diciannovesimo secolo si è formata a Brooklyn nove anni fa. Da allora il gruppo è sempre stato davvero on the road suonando ovunque: dagli angoli delle strade di New Orleans ai festival più prestigiosi. Bob Dylan colpito dalla loro musica, li ha persino voluti come band di apertura per una serie di concerti. Questo è il loro sesto album ed è volutamente ispirato al “Mago di Oz” di Frank Baum. Ogni brano è quasi una suite , un medley. Il tutto è suonato magistralmente e le armonie vocali sono superlative. Se amate le sfide e le contaminazioni, la follia e lo sberleffo accettate la sfida e tuffatevi nel magico mondo dei Wyos.
BIG WALKER
“Root Walking”
BWK Records, 2012
Tra tempestosi assoli di chitarra e pirotecnici voli d’armonica sembra talvolta che si stia perdendo quello che è lo spirito originale del blues. Troppo spesso ci si dimentica che le radici del blues sono inestricabilmente legate alla storia del popolo afroamericano: una storia che parla di schiavitù e di oppressione. Una storia in cui blues e spiritual aiutavano quegli uomini e quelle donne a sopportare una vita fatta di tormenti e lacrime. Derrick Big Walker classe 1952 voce, armonica e sassofono attraverso questo lavoro ci riporta indietro nel tempo. Tra originali e traditional, Big Walker mette in musica anche poesie popolari afroamericane risalenti al diciassettesimo e diciottesimo secolo. Sono brani che lo stesso Walker ha imparato dai suoi avi. Non solo neri, ma anche nativi e irlandesi. I riferimenti musicali vanno dal west coast blues al sound di Muddy, Wolf e Albert King. I brani più avvincenti sono quelli in cui il Mississippi down home blues si fonde con la matrice africana e con le sonorità di John Lee Hooker e Frank Frost. Particolarmente interessante il brano finale emblematicamente intitolato “Slave” in cui tamburi, voci lontane e nuance voodoo riportano il blues finalmente a casa.
REDDICK, PAUL
“Wishbone”
Socan/Maple Music, 2012
Paul Reddick non è solo uno dei più bravi cantanti e armonicisti canadesi ma è anche un eccellente songwriter. Per usare le sue stesse parole, questo disco vuole essere: “la colonna sonora di un sogno in cui Keith Richards e Robert Johnson giocano a dadi con Hank Williams eBob Dylan; mentre Bo Diddley, Leonard Cohen e Charley Patton stanno lì a guardare”. Questo è il suo quarto album solista dopo l’avventura con i Sideman e si mantiene sugli altissimi livelli già raggiunti dalle opere precedenti.
Prodotto da Colin Cripps dei Blue Rodeo, il cd pur mantenendosi saldamente ancorato alle radici del blues offre anche spunti diversi e per certi versi inediti.. L’atmosfera generale è infatti un tantino più rock rispetto allo standard di Reddick ma tutto ciò non guasta, anzi… I brani vanno dal Mississippi hill country blues intriso di gospel, a canzoni che rimandano ai primissimi dischi dei T-Birds e James Harman; sino ad arrivare a ballate roots che potrebbero benissimo stare in un album di Bruce Cockburn. Tra brani tirati e pezzi lenti il disco scorre fluido e piacevolissimo con nuances che richiamano Johnny Cash e Junior Kimbrough, Tom Waits e Tony Joe White, Tom Petty e J. Geils Band, John Lee Hooker, Charlie Musselwhite e Randy Newman. Consigliatissimo!
TENCA, DANIELE
“Blues for the Working Class”
Ultratempo, 2010
Cosa potrebbe succedere se lo Springsteen più impegnato incontrasse il Clapton più blues? La risposta sta forse tutta in questo gran bel disco di Daniele Tenca, ottimo sin dal titolo. Il suo “blues per la classe operaia” è un album appassionato e dolente che racconta “storie di fabbrica”, troppo spesso dimenticate. Sono le storie fatte di sangue sudore e lacrime di chi sul lavoro perde la propria vita, o deve cedere a ricatti e umiliazioni quotidiane. Quale migliore musica per dare vita ai componimenti di Tenca se non il blues, la musica che gli afroamericani hanno tirato fuori dalle zolle dei campi di cotone del Mississippi? Le parole di questo disco sono importanti per questo Daniele nel libretto ha voluto inserire la traduzione di tutti i testi. Ho scoperto questo grande cantautore prestato al blues (e al rock) apprezzando il suo lavoro intorno al lavoro più recente di Francesco Piu. Ecco perchè vi parlo solo ora di un disco uscito un po’ di tempo fa. Ma i bei dischi, come la musica che contengono non hanno scadenza, durano per sempre. Essenziali per la buona riuscita di questo progetto l’eccellente cerchia di musicisti che circonda Daniele, tra i migliori in Italia e non solo. D’obbligo citarli tutti: Pablo Leoni batteria, Luca Tonani basso, Heggy Vezzano chitarra; Alex Aliprandi banjo,Cesare Basile cigars box guitar, Sergio Cocchi piano e organo, Antonio Cooper Cupertino fonico e polistrumentista, Deborah Falanga e Melissa Ghisleni cori, Andy J. Forest armonica, Massimo Martellotta lap steel e Marino Severini dei Gang alla voce. Il disco ha anche una sua versione “live” pubblicata nel 2011 dalla Route 61 Music di Ermanno Labianca.
PROFESSOR LOUIE & THE CROWMATIX
“Wings on Fire”
Woodstock Records, 2012
Professor Louie è un buon amico e un grande musicista. Abbiamo suonato spesso insieme in compagnia di Guy Davis, ma al di là di tutto questo, Aaron Louis Hurwitz (questo il suo nome completo) è un personaggio davvero leggendario. Pianista, organista, fisarmonicista e cantante ha coprodotto, registrato e suonato negli ultimi tre album di The Band ovvero “Jericho”, “High on the Hog” e “Jubilation”. Ha partecipato attivamente a parecchi progetti di tre componenti di quella mitica formazione: Levon Helm, Rick Danko & Garth Hudson. E proprio ai primi due è dedicato questo nuovo album dei Crowmatix, il suo gruppo. Dentro al disco c’è tutta l’esperienza maturata negli anni da parte di Hurwitz, non solo con The Band ma anche al fianco di Graham Parker, Commander Cody Band, Guy Davis e Buckwheat Zydeco. Ecco che allora nel cd trovano posto blues, roots rock, country e zydeco. Il tutto rivisitato in chiave assolutamente personale, senza mancare di rendere omaggio al sound di quel gruppo reso celebre da Bob Dylan. Non a caso tra le più belle song del disco c’è quel capolavoro che risponde al nome di “Book Faded Brown” una delle più toccanti ballad mai composte. Eccellenti tutti i musicisti in formazione a partire dalla compagna di Louie, Miss Marie ottima cantante e polistrumentista. Completano la band Gary Burke alla batteria (Bob Dylan, Joe Jackson), Frank Campbell al basso (Asleep At The Wheel); e Josh Colow alla chitarra (Artie Traum, Jesse Winchester). Tra gli ospiti Mike Falzarano (Hot Tuna, Jorma Kaukonen, New Riders of the Purple Sage) e John Platania (Van Morrison, Randy Newman, Bonnie Raitt).
BONNEVILLE, RAY
“Bad Man’s Blood”
Red House Records, 2011
Cantautore folk blues canadese stabilitosi da qualche anno a Austin in Texas, Ray Bonneville giunge al traguardo del terzo lavoro inciso per la preziosa etichetta del Minnesota. Si tratta di un disco essenziale, scarno e diretto in cui ad essere in primo piano sono soprattutto la voce, la chitarra e l’armonica di Bonnevile. E’ un lavoro giocato più sui silenzi che sulle note suonate; all’insegna del sempre prezioso “less
is more”. Qualcuno parlando di questo album ha voluto evocare il suono ipnotico e dolente di John Lee Hooker. A me invece sono venuti in mente riferimenti diversi: J.J. Cale, Mark Knopfler, Dylan, Eric Andersen e Johnny Cash (che sarebbe stato fiero di avere un disco intitolato “Bad man’s blood”). Le atmosfere rarefatte e affascinanti e la sua voce, la voce di uno che conosce la vita on the road, mi ha ricordato quella di un grande “beautiful loser” troppo presto dimenticato: Calvin Russell. I suoni scuri e “paludosi” rimandano sicuramente a Tom Waits e Ry Cooder maestri incontrastati di un genere estremamente difficile da etichettare. Ad aiutare Bonneville nel compimento della sua opera tre musicisti con la emme maiuscola: Gurf Morlix session man e produttore di culto tra il cantautorato texano, qui alle chitarre, basso e banjo; Mike Meadows veramente parco nell’uso della sua “Black Swan” sorta di cokctail drum capace di sottolineare i contrappunti ritmici con molta discrezione e gusto; e Dexter Payne ottimo al sassofono alto e baritono. La produzione, davvero molto equilibrata, è affidata alle mani esperte di Justin Douglas.
THE BLASTERS
“Fun on Saturday Night”
Ripcat Records, 2012
Band di culto degli anni Ottanta, i Blasters con la chitarra del grande Dave Alvin e la voce del fratello Phil hanno fatto davvero la storia del roots-rock di quel periodo. La loro irresistibile miscela di blues, errebì New Orleans style, rock ‘n’roll alla Jerry Lewis, country, tex mex e western swing ha infuocato decine di vinili e dato vita a concerti indimenticabili. Certo oggi i fasti di un tempo sono irrimediabilmente andati, Dave Alvin ha intrapreso una fortunata carriera solista, lasciando al fratello Phil la guida del gruppo. Un gruppo ancora incredibilmente vitale e pieno d’energia. Ne è la prova questo cd che segna l’inizio di una collaborazione con la Rip Cat Records del chitarrista Scott Abeyta. La ricetta dei Blasters ovviamente non cambia e il cd propone un’interessante serie di brani che sembrano ripercorrere tutti i sentieri della musica d’oltreoceano. Si va dal rockabilly, a Johnny Cash; dal blues al doo-wop, passando per Magic Sam, Louis Jordan e T- Bone Walker. Dopo trentatré anni di onorata carriera i musicisti sono rimasti più o meno gli stessi degli inizi : Phil Alvin voce, chitarra, piano e armonica, John Bazz basso, Bill Bateman batteria e il “nuovo” Keith Wyatt alla chitarra a ricoprire il ruolo che fu di Dave Alvin. Ci sono anche alcuni ospiti di prestigio tra cui spicca un sorprendente Kid Ramos al bajo sexto.
JOHNNY MASTRO & MAMA’S BOYS
“Luke’s Dream”
Ripcat Records, 2012
Johnny Mastro nativo di New York ma residente da anni in California è una vecchia conoscenza, specialmente in Europa. Il suo è un disco che pur provenendo dalla west coast degli States, non risente per nulla delle influenze della musica di quei lidi. Il cd è infatti prepotentemente e essenzialmente virato verso il rock con quattro deliziosi intermezzi acustici. Il sound di Mastro e della band sembra ispirarsi al sound dei troppo presto dimenticati Red Devils, dai Canned Heat d’annata, e dal british blues degli anni sessanta con Clapton (periodo Cream) e Hendrix in testa. C’è persino tutta l’urgenza e la poderosa energia dei gruppi indie rock della fine degli anni settanta. Alcuni brani infatti sembrano il frutto di una jam session tra Junior Kimbrough e i Ramones. Quindi rock, anche durissimo talvolta, e delta blues a convivere in un disco controverso e intrigante. Mastro è un bravissimo armonicista e un convincente cantante, profondamente innamorato di Little Walter ma capace di costruirsi uno stile personale. Il disco alterna brani originali (la maggior parte) a canzoni altrui. Tutti eccellenti i musicisti coinvolti a partire dal chitarrista Smokehouse Brown , anche coautore di alcune composizioni. Solidissima la sezione ritmica composta da Michael Hightower al basso e da Jimmy Goodall alla batteria. Dedicato allo scomparso Robert Lucas, vera colonna del west coast blues, il lavoro si avvale anche della presenza di Scott Abeyta (Blues Express); Peter Atanasoff (Tino & Tarantula, Nora Jones, Ricky Lee Jones) Kirk Fletcher (Mannish Boys) alle chitarre; e di Max Bangwell alla batteria.
JOE CHIARIELLO
“Slidin’ Delta”
RT 2012
Qualche tempo fa recensendo il disco di un altro artista italiano scrissi di aver visto il futuro del blues italiano. Ebbene, nel giro di poche settimane io quel futuro, l’ho visto di nuovo. Si tratta di un musicista dotato di un talento straordinario e di una padronanza dello strumento, la chitarra, assolutamente stupefacente. Questo senza tralasciare la voce, potente e matura al punto da farci pensare che il bluesman di cui stiamo scrivendo sia nato in una baracca del Mississippi anziché dalle parti di Salerno. Joe Chiariello suona il Delta blues come un consumato performer che abbia sulle spalle decine e decine di concerti tenuti in prestigiosi festival ma anche in locali bui e malfamati. Il fatto è che Joe non ha alle spalle tutto questo. Non può averlo. Non può averlo semplicemente perché, anche volendo, Joe ha solo quindici anni.
Sì avete letto bene, quindici anni. Gli ultimi tre li ha passati a leggere libri sulla vita di Robert Johnson, Charlie Patton e Son House. E a suonare la loro musica imparando le loro tecniche e i loro stili con una cura che ha quasi dell’incredibile. Forse Joe non è come il suo mentore e armonicista Rosario Tedesco dice, usando un’iperbole, la reincarnazione di un vecchio bluesman del Mississippi (e se lo fosse io non ci troverei nulla di strano); ma vi assicuro che ascoltando Joe sia dal vivo sia su disco si ha davvero l’impressione di ascoltare uno dei grandi del blues prebellico senza il fastidioso ma conturbante gracchiare dei 78 giri. Chiariello non interpreta la parte del bluesman navigato, lui lo è davvero. Nonostante la sua giovane età, Joe è in grado di dare ad ogni brano che esegue un proprio stile, una propria nuance. A farla da padrone nel cd è il repertorio di Robert Johnson; ma di gran pregio sono anche le riproposte di Son House, Charlie Patton, William Harris, Tommy McClennan, Ishmon Bracey e Hambone Willie Newbern. E c’è posto persino per un antico spiritual.
Joe Chariello è un altro miracolo del blues. Ascoltare per credere.
BEX MARSHALL
“The House of Mercy”
HOM, 2012
Bex Marshall è una cantautrice britannica che si muove tra blues, soul, gospel e southern rock. Negli anni la stampa internazionale l’ha paragonata a Memphis Minnie, Joan Armatrading, JJ Cale, Derek Trucks e Bonnie Raitt a cui io aggiungerei la grande Janis Joplin che ogni tanto fa capolino nella vocalità di Bex. Il nuovo album che ha lo stesso nome del programma radio di culto trasmesso dal suo compagno Barry Marshall Everitt ci propone undici ottime canzoni scritte, suonate e cantate con convincente bravura. Si inizia con un rock soul colorato di country, subito seguito da un blue eyed soul rock che non sfigurerebbe nel repertorio della già citata Bonnie Raitt o in quello di Delbert McClinton. Il brano tre è uno swamp blues tinto di rock mentre la traccia quattro è già più in posizione southern rock. Si continua sempre sul versante soul per arrivare alla canzone numero sei (per me la migliore dell’album). Si tratta anche qui di un gustoso southern blues rock tratteggiato da un pizzico di psichedelica che conferisce al brano un certo fascino; subito seguito da un altro southern rock tinto di gospel stavolta e con il banjo in primo piano. C’è spazio anche per uno strumentale tra country e bluegrass. Conclusione ad effetto con un il sound di New Orleans speziato di gospel e soul, un’ appassionata e romantica ballad dedicata al compagno; per finire in bellezza con un funky rock in cui spicca l’armonica di Steve Lockwood.
A great, honest, passionate and sincere album!
THE BLUES BROADS
“Live” (CD + DVD)
Delta Groove, 2012
Non sempre i super gruppi funzionano. A volte l’accostamento di più grandi dà risultati eccelsi, altre volte no. Questo cd trasuda professionalità e mestiere e il pedigree dei protagonisti , o meglio, delle protagoniste, è assolutamente strepitoso. Tracy Nelson ha una carriera che va avanti dagli Anni Sessanta e vanta collaborazioni stellari; Dorothy Morrison divenne famosa con il successo planetario di “Oh Happy Day” e ha anche lei un curriculum di tutto rispetto; Angela Strehli è stata protagonista insieme a Marcia Ball e a Lou Ann Barton della scena blues di Austin degli anni Ottanta quando a dettare legge c’erano Antone e il suo mitico locale; Annie Sampson ha nel proprio background esperienze gospel, rock e teatrali. Come avrete capito dalle righe iniziali il disco non mi ha convinto appieno. Sarà forse la scelta delle canzoni in repertorio, la registrazione “live” o l’amalgama delle voci che risulta talvolta opaco. Non so. Tra i momenti più riusciti “Bring me your love” scritta e cantata da Annie Sampson, “Two bit Texas town” in cui è protagonista Angela Strehli; e una buona resa della dylaniana “It’s all over now baby blue” che inspiegabilmente compare solo nel dvd ma non nel cd. Anche la versione di “Oh happy day” risulta piacevole, ma il brano è talmente abusato da aver perso gran parte del suo fascino. Protagonista quasi involontaria del cd, Deanna Bogart, una vera e propria scoperta per me, davvero brava sia vocalmente che al piano e al sax assolutamente brillante nell’unica canzone . L’unica canzone (purtroppo) che la vede come solista, è anche il brano più scintillante dell’album.
JAMES, MARION
“Northside Soul”
Eller Soul Records, 2012
Marion James è una grande cantante. A Nashville, per molti solo la capitale del country ma con un radicato background blues e gospel, la chiamano “la regina del blues”. E non a torto. Il suo viaggio nel mondo della musica parte da lontano. Da una di quelle chiesette bianche che adornano il Sud da cui è partita per arrivare in vetta alle classifiche nella metà degli Anni Sessanta con un singolo pubblicato dalla mitica Excello Records. Inciso alla fine del 2011, quest’album è un ottimo showcase per apprezzare tutte le sfumature vocali della cantante afroamericana capace di esplorare con convinzione, feeling e talento i territori del blues, del soul, del funky e del jazz. I brani scritti dall’artista si alternano a cover di gran pregio : “I believe to my soul” di Ray Charles, “Next time you see me” di Junior Parker rivista in chiave New Orleans con tanto di clarinetto e brass band; e “I just want to make love to you”, classico di Willy Dixon. Davvero eccellente la band che l’accompagna in cui spicca l’essenziale Ivan Applerouth alla chitarra degno erede di T- Bone Walker e B.B. King. Southern soul dunque, di quello che si ascolta nei locali per soli neri giù nel Sud degli States, ma anche ballate intrise di gospel “come l’autografa “Corrupted world” che rimanda all’impegno civile di artisti come gli Staples Singers e Curtis Mayfield. Ci sono inoltre languidi slow blues tinti di jazz che non sfigurerebbero nei dischi Jimmy Whiterspoon, Johnny Adams e Lou Rawls accanto a brani più ritmati che sembrano usciti dalla tradizione orchestrale di Kansas Cityo dalla band di James Brown durante una delle loro infuocate esibizioni all’Apollo Theater di New York.
Un disco variegato e piacevole.
SMOKIN’ JOE KUBEK & BNOIS KING
“Close to the Bone”
Delta Groove, 2012
Sottotitolo: Unplugged. E anche se non è del tutto vero che il disco sia completamente acustico, devo dire che rispetto ai loro dischi “elettrici” questo ha tutto un altro sound. Sebbene preferisca i due musicisti in versione “full band” con tanto di fiati, questo nuovo lavoro ha comunque diversi motivi di interesse. Innanzitutto la perizia strumentale di entrambi i musicisti che è assolutamente impeccabile, seguita subito dopo dalla duttilità vocale di Bnois King sicuramente in possesso di una delle più sincere voci black contemporanee. Protagonista assoluto del disco il rock ‘n’soul di marca texana che ha in Delbert McClinton il suo alfiere più celebrato. Non mancano nemmeno riferimenti al cantautorato più rock che contraddistingue il Lone Star State e al classic southern rock (pensate agli Allman Brothers in chiave acustica). Il blues, quello più canonico, per intenderci, si limita a tre, quattro episodi (peraltro di gran pregio), caratteristica questa insita nell’anima eterogenea del duo che ama partire dalla musica afroamericana per esplorare anche altri territori. Come è buona abitudine di quella grande famiglia che è la Delta Groove (un bellissimo esempio di mutua collaborazione in un mondo spesso egoista e autoreferenziale) sono diversi, e tutti ottimi, gli interventi dei musicisti ospiti: Randy Chortkoff, Bob Corritore, Lynwood Slim, Big Pete, Kirk Fletcher, Shawn Pittman, Paul Size, Fred Kaplan, Willie J. Campbell, Jimi Bott, Jeff Scott Fleenor.
Curioso e intrigante.
BELL, LURRIE
“The Devil ain’t got no Music”
Aria B.G. Records, 2012
Lurrie Bell ha inciso il suo capolavoro. O almeno così la penso io. Completamente dedicato al gospel e allo spiritual il grande chitarrista di Chicago messa da parte la chitarra elettrica e abbracciata quella acustica ha dato vita ad un album sincero, commovente ed intenso. Figlio dello scomparso Carey Bell, autentico gigante dell’armonica, Lurrie in questi ultimi anni si è saputo creare un’ottima reputazione tra i musicisti di Chicago e le sue sono sempre una performance di gran pregio sia che si esibisca come solista sia che partecipi a progetti altrui. In questo disco prodotto da Matthew Skoller, Bell torna alla sua infanzia; al periodo in cui viveva tra Mississippi e Alabama con i suoi nonni materni. Lì attratto dal blues cominciò a suonare la chitarra e anche quando, com’è nella tradizione di quelle parti, fu invitato a suonare in chiesa cominciò ad eseguire gli spiritual come se fossero dei blues. E quello stile, tra blues urbano e country-blues si è conservato intatto sino ad oggi, al punto da risultare sincero, fragrante e naturale. Il lavoro di Lurrie alla chitarra è assolutamente di altissimo livello ma ciò che colpisce maggiormente è la sua duttilità vocale, piena ed emozionante al punto da toccare le corde più profonde del nostro cuore. La vita non è stata facile per Bell e pare che tutte le sue sofferenze e i percorsi tortuosi che ha dovuto affrontare siano presenti tra le pieghe di questo disco. Gli arrangiamenti sono essenziali ma sempre di grande spessore. Ad aiutarlo nell’impresa un nugolo, di musicisti, amici veri, che contribuiscono non poco alla riuscita dell’album: lo stesso Skoller all’armonica (anche autore della titletrack), Billy Branch sempre all’armonica, Joe Louis Walker alla slide, Kenny “Beedy Eyes” Smith alle percussioni, Joseph Ben Israel al contrabbasso; e Bill Sims Jr, Mike Avery, Cinthia Butts e James Teague alle voci. Consigliatissimo!
(Grazie a Giovanni Robino per la sua preziosa segnalazione)
THEESSINK, HANS & EVANS, TERRY
“Delta Time”
Blue Groove, 2012
L’ho già scritto altre volte e lo ripeto: quando un disco è bello non c’è molto da dire. Hans Theessink, austriaco di Vienna, è stato il primo artista europeo ad avere esperienze importanti negli States sia a livello discografico sia a livello di concerti. I suoi dischi, in cui spesso appaiono grandissimi ospiti, sono stati apprezzati da riviste come “Blues Revue” e “Living Blues” che li hanno accolti con parole di elogio e stima. Grande appassionato di blues delle radici e di tutta “ l’altra musica americana”, da qualche anno Theessink fa coppia fissa con Terry Evans celebre soprattutto per essere stato uno dei grandi vocalist della band di Ry Cooder. D’altronde la musica dello stesso Theessink, pur con connotati del tutto personali, ha sempre avuto influenze cooderiane e l’artista austriaco ammette nelle note allegate al cd di essere stato un grande fan di Cooder sin da quando lo ascoltò per la prima volta in una versione di Gordon Lightfoot del classico “Me and Bobby McGhee”. “Delta Time” quindi corona forse un sogno. Perché lo stesso Cooder è presente con il suo inconfondibile sound in ben tre brani del disco. Inutile dire che il suo tocco unico e originale si sente, eccome… Il disco ha arrangiamenti molto spartani che conferiscono alle voci diverse ma affascinanti di Theessink e Evans il giusto spazio per poter risaltare al meglio. La scaletta del disco è composta da canzoni dello stesso Theessink e da brani celebri arrangiati con gusto e intelligenza. Il risultato è un sound elettroacustico di grande presa, con un approccio laid back molto intrigante e una nuance gospel blues che si evidenzia nelle splendide armonie vocali dello stesso Evans con Arnold McCutter e Willie Green Jr (anch’essi collaboratori di Ry Cooder).
Caldamente consigliato.
POGGI, FABRIZIO
“Harpway 61”
The Blues Foundation, 2012
Scusate l’intrusione in questa rubrica, notoriamente autogestita da Fabrizio Poggi. Essendosi dato il caso (anche se di “caso” vero e proprio non si tratta, ovviamente) che il nostro prezioso collaboratore abbia appena pubblicato un disco che per molti versi può essere definito “fondamentale”, con la mia facoltà di direttore mi arrogo il diritto/dovere di scriverne. Un piacere e un onore che spero vorrete condividere con me, leggendo lo scritto che segue.
Fabrizio Poggi non è certo l’unico musicista italiano a suonare blues e altrettanto certamente non è l’unico a farlo suonando l’armonica a bocca, che del blues è lo strumento principe. Ma la sua unicità, fatte salve le capacità tecniche e espressive che sono indiscutibili, risiede soprattutto nell’aver fatto dell’armonica blues un progetto di vita. Considerare il valore artistico di Fabrizio senza attribuire giusto valore alla sua attività di band leader, di divulgatore, di profondo conoscitore di ogni dettaglio che riguardi lo strumento e la musica alla quale ha deciso di consacrare la propria vita sarebbe profondamente sbagliato. Da decenni ogni scelta, artistica e personale, che Fabrizio ha compiuto si inquadra in un ben preordinato schema operativo che vede l’armonica blues, o blues harp che dir si voglia, al centro non solo dei suoi interessi ma della sua stessa ragion d’esistere. Il suo stretto, strettissimo, praticamente quotidiano, rapporto con i grandi maestri del blues americano –attivi nel presente o nella memoria di quanto ci hanno lasciato in eredità- non può essere confuso con una sterile scelta di campo o, ancor peggio, nell’individuazione di un settore di mercato artistico con il quale ritagliarsi gloria effimera o altrettanto tristemente sbarcare il lunario. Fabrizio (con il supporto imprescindibile del suo “braccio armato” Angelina) ha consacrato la propria vita al blues e ne è ambasciatore al di qua e al di là dell’Oceano. In questa prospettiva va inquadrato un disco come “Harpway 61”, ideale sequel di quell’”Armonisiana” che alcuni anni fa l’armonicista italiano realizzò e distribuì come omaggio alle potenzialità tecnico-espressive del proprio strumento di elezione. In questo secondo episodio non è soltanto la blues harp a essere al centro dell’interesse, ma sono i suoi grandi maestri (da Slim Harpo a Sonny Boy Williamson II passando per Charlie Musselwhite, James Cotton e tanti altri) ai quali Fabrizio dedica un viaggio (o forse meglio sarebbe scrivere un pellegrinaggio) di quattordici tappe sonore che da Baton Rouge in Louisiana a Tutwiler in Mississippi si snoda attraverso quei luoghi che Fabrizio ha fisicamente frequentato per respirare e assimilare la medesima aria che ha fatto vibrare le ance dei suoi “eroi”. Un pugno di strumentisti tesse la tela del lavoro, ben conscio del proprio ruolo di supporto, non togliendo nulla alla centralità dell’armonica e al suo inevitabile protagonismo, anzi sottolineandone la peculiare essenza.
Ogni traccia è introdotta da poche preziose righe di testo dedicate agli armonicisti, con indicazioni sulle tonalità e le posizioni (qui è Poggi divulgatore che prende il sopravvento); la splendida copertina di Dan Dalton ci rimanda invece al blues come fenomeno estetico (qui Poggi bluesman totale spezza una lancia a favore del blues a 360°, non solo da ascoltare ma da condividere in tutti i suoi aspetti); l’aver voluto devolvere tutto il ricavato delle vendite del disco alla Blues Foundation ci introduce alla figura di un Poggi che, condividendo le sorti della più importante organizzazione mondiale di volontariato blues, si segnala come esempio da seguire per tutti i suoi “colleghi” in ogni parte del mondo. Il blues dà tanto, diamo qualcosa al blues… Non c’è ragione al mondo per la quale non dobbiate procurarvi questo disco. Parafrasando un detto caro a Fabrizio, “Chi non ama Harpway 61 ha un buco nell’anima”. E questo è tutto.
Roberto G. Sacchi
Per informazioni e acquisti: www.blues.org oppure www.chickenmambo.com
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