Anche se sempre schivo e modesto, sei stato uno dei protagonisti del cosiddetto “revival” degli anni Ottanta e Novanta in Italia: la tua figura, legata all’attività di ricerca più che a quella della riproposta, è indubbiamente legata a uno strumento tradizionale che tu hai valorizzato e rifunzionalizzato: la cornamusa bergamasca, il baghèt. Ci puoi raccontare come è nata questa tua passione e come si è sviluppata nel tempo?
Si parte da lontano. Siamo alla fine degli anni settanta e a Bergamo, grazie al lavoro di ricercatori come Mimmo e Sandra Boninelli, Riccardo Schwamenthal (colui che, nel 1968, assieme a Franco Coggiola e Alberto Conti ha scoperto Ernesto Sala), Marino Anesa e tanti altri che non elenco, ma che si possono conoscere attraverso la collana de “Quaderni dell’Archivio della Cultura di Base ” della biblioteca di Bergamo, era normale parlare di ” cultura popolare” ed avere dei concerti dove trovavi Bruno Pianta, Giovanna Marini, Ernesto Sala, Melchiade Benni, i minatori di Santa Croce, le sorelle Bettinelli, i cantastorie. Si è trattato di un periodo estremamente stimolante, era materialmente impossibile rimanere a casa alla sera.
Era un periodo che tra concerti di musica popolare, jazz, musica antica, di ricerca, incontri, seminari, teatro sperimentale, c’era solo l’imbarazzo della scelta. La filosofia era semplice: si seminava la “voglia di conoscere”, almeno così era quello che si recepiva. Così quando mi è capitata l’occasione di provare a fare qualcosa con un gruppo di musica popolare, da totale dilettante e neofita, ci ho provato anche io. Si trattava del gruppo de “Il Popolario”, nato nel 1978/79. Nato con la voglia di prendere il registratore e usarlo: eravamo dei dilettanti, ma fino ad un certo punto. Nel gruppo c’erano delle persone con una preparazione da storico, che tracciavano le linee guida. Abbiamo raccolto un centinaio di ore di registrazione, oggi all’Istituto di Storia della Resistenza e dell’Età contemporanea. Il materiale riguardava unicamente le fonti orali, testimonianze di vita con i racconti della Grande Guerra e delle lotte sindacali nate nelle filande della Valle Seriana appena dopo il conflitto. Insomma, non eravamo poi proprio degli sprovveduti, anzi: nel materiale che avevamo ritrovato ci sono delle perle rare.
Ho imparato ( più o meno) cosa significa raccogliere dei dati e poi razionalizzarli. Poi, dopo qualche anno, il lavoro del gruppo è calato fisiologicamente e alla fine il Popolario si è sciolto, per un banale motivo: ci si sposa e arrivano anche i figli, il tempo manca. In un gruppo più ristretto abbiamo continuato ad usare il registratore, arrampicandoci ( letteralmente) nelle situazioni più strambe: in un annetto di ricerca, in quattro/cinque abbiamo girato un bel po’ di campanili, raccogliendo qualcosina come due/trecento musiche di “campane a festa”, cioè suonate con la tastiera. Personalmente mi si è aperto un orizzonte di conoscenza di musicisti popolari che mi è poi venuto utile quando, siamo nel 1982/83, ho deciso di continuare da solo a indagare sulle musiche e sugli strumenti popolari bergamaschi. Ho continuato a scandagliare il repertorio del suono delle campane e incontrare campanari e grazie a loro, attraverso il giro dei musicisti popolari, nel 1983 sono arrivato a trovare la mia prima cornamusa, conoscere figli e nipoti di suonatori e, sopratutto l’ultimo suonatore rimasto che, nel giro di 5/6 anni mi ha insegnato tutto quello che c’era da imparare: repertorio, diteggiatura, riti, costruzione, manutenzione, ance. Ho imparato anche a costruirle, fa parte del mio lavoro, assieme ai corsi, incontri, lezioni. A tutt’oggi le cornamuse da me ritrovate in provincia di bergamo sono sette. E si chiamano “il baghèt” (al maschile), che vuol dire piccola “baga”, cioè piccola borsa … e non c’entrano nulla con il pane francese !!! … è una battutaccia, ma qualcuno in giro che la chiama “la baghet” c’è.
La mia attenzione non era però rivolta solo alle cornamuse, anche perché la musica popolare è fatta di sovrapposizioni. Ho già accennato al repertorio delle campane suonate con la tastiera, che è un patrimonio enorme e ancora molto presente, con un sacco di ragazzi che suonano e hanno ripreso a suonare. Io ho un piccolo merito: ho messo in circolazione i primi CD con le registrazioni di campanari, che per molti allievi sono diventati una scuola. Anzi, credo di aver anche (involontariamente) insegnato un metodo: i giovani che suonano lo fanno in maniera attenta, non mischiano le musiche, ma prima si documentano.
Altro patrimonio indagato, grazie alle conoscenze di altri ricercatori locali, è quello della costruzione di flauti da parte di una famiglia della Valle Imagna: di questa realtà ho anche la videoregistrazione della lavorazione al tornio, che è probabilmente una delle uniche rimaste come testimonianza di una abilità che tranquillamente arriva alla fine del Settecento.
C’è poi il lavoro che ho dedicato agli strumenti “effimeri” cioè quelli costruiti con la corteccia degli alberi.
A fianco dell’attività di ricerca, hai svolto intensa attività didattica e di animazione musicale sul territorio bergamasco e anche altrove: fra le tante, ricordiamo la tua esperienza con la Bandalpina. Che ricordi hai di quel periodo? E che cosa è cambiato oggi rispetto ad allora?
Con la Bandalpina ci sono stato dall’inizio, dal 1989. La Bandalpina ha avuto un grande merito, quello di sdoganare e far conoscere un repertorio sconosciuto ai più, buona parte del quale viene dai miei lavori fatti in terra di Bergamo. Tutti suonano la “Lavandina” o la “Polca Salisburgo”, come se fossero sempre esistiti. In realtà partono dalle mie ricerche, che la Bandalpina ha contribuito a diffondere in maniera sistematica. Poi, dopo una ventina d’anni, si cercano altre strade e ci si separa. Cosa è cambiato in venti anni lo dico dopo, dove parlo del folk-revival.
Dopo anni di silenzio operoso, eccoti inaspettatamente ricomparire con una nuova pubblicazione, dedicata ai “Pifferi di Calvari”, esempio della ricchezza del patrimonio organologico dell’Italia settentrionale. Parlaci per ora sommariamente di questo progetto… Come nasce e perché?
Approfondiamo la tua nuova pubblicazione che esce anche a nome di Riccardo Gandolfi e di altri collaboratori (Claudio Gnoli). Metodologicamente, come avete proceduto?
Beh, se sono ricomparso è perché l’argomento “piffero, musa, piva” interessa molti. Però io, nella mia piccola Bergamo, ho continuato a lavorare e pubblicare su: flauti della valle Imagna, canto popolare a Dossena, repertorio di campane a Casnigo, spettacolo sui garibaldini (siamo la città dei Mille). Tutto un repertorio culturale che fa fatica ad uscire dai confini orobici, ma che esiste ed è incredibilmente ricco.
Torniamo però alla domanda. La risposta, accidenti, è lunga … se chi legge riesce a non addormentarsi, rispondo qui anche ad un’altra domanda, e poi parlo pure di come vedo il movimento del “Folk Revival “in Italia. Un argomento è appiccicato all’altro.
Faccio un poco di cronistoria (condita con un briciolo di polemica). Un paio di abbondanti annetti fa sono stato invitato a dare la mia opinione in un blog, sull’argomento “piva dell’Appennino o emiliana”, chiamatela come volete. Io una l’avevo già vista, più di venticinque anni fa. Poi avevo la rivista del Cantastorie dove c’era un disegno, e un paio di altre pubblicazioni, una quella del Leydi del 1979 e l’altra dell’opuscolo “La piva del Carner”. Tutto materiale già datato, visto e rivisto, ma insufficiente per trarne delle conclusioni, troppo scarso. Nel blog ho continuato a chiedere: “fornite altre informazioni, disegni, prove, diteggiatura, ecc.”, insomma, fate capire qualcosa di più, se vogliamo arrivare a delle conclusioni. Invece nulla, probabilmente il settimo mistero di Fatima è di più facile accesso. Alla fine sono arrivato ad una conclusione: “se cinque delle famose pive dell’Appennino sono al museo Fondazione Ettore Guatelli di Ozzano Taro, in provincia di Parma, allora me le vado a vedere, che almeno quelle le tocco con mano”. Ho visto che nel blog circolavano altri pazzoidi come me, uno è Riccardo Gandolfi, e ci siamo dati appuntamento a Ozzano. Il Museo Ettore Guatelli è il paradiso della creatività. Ho tristi esperienze con la burocrazia. Al Guatelli è tutto il contrario: il nostro interesse è stato subito ricambiato col permesso di esaminare gli strumenti. Per Riccardo era praticamente la seconda casa, conosceva già tutto. Le abbiamo prese, misurate, provate, controllate, disegnate e pubblicate nel mio sito alla nascente pagina http://www.baghet.it/cornamusenorditalia.html con l’idea di far circolare il materiale, non tenerlo più nel cassetto (prima piccola polemica). Poi abbiamo visto che in una stanza, dietro montagne di valigie, c’erano le bacheche dei pifferi, e poi delle muse, e poi gli utensili del costruttore Niccolò Bacigalupo detto “u Grixu”. Abbiamo fatto sempre la medesima domanda: “possiamo vederli?”. Sempre medesima risposta: “nessun problema, bisogna chiedere a Gianni ( il cugino di Ettore Guatelli) di smontare le bacheche”. Siccome è un poco incasinato e bisogna smontare mezzo museo, allora ci organizziamo per venire una seconda, e poi una terza e poi…. non ricordo più quante altre volte. Visto che al museo ci hanno dato carta bianca, e hanno fatto una fatica boia a smontare e rimontare le bacheche, abbiamo disegnato e misurato tutto il possibile: pifferi, muse, pive, utensili, ance, e reso tutto pubblico per risparmiargli la faticaccia di fare e disfare tutto una seconda volta
Cioè abbiamo preso in mano le reliquie di anni di discussioni (seconda piccola polemica) che però non erano nelle catacombe ma già a disposizione di tutti (polemichetta) perché, praticamente, un terzo di quello che si conosce su pive, pifferi e muse lo dobbiamo a Ettore Guatelli, che non ha mai tenuto nascosto nulla (polemichina), bastava solo aver la voglia di andare a vedere, misurare, provare, disegnare, divulgare: facile a dirsi, ma poi … Noi l’abbiamo fatto e, tanto per “dare i numeri”, tra quello che c’è al Guatelli, quello al Museo di Calvari e poi gli strumenti nelle case dei privati, abbiamo visto e toccato 9 pive, 16 pifferi, 9 muse, un tot di bordoni, scatole di ance, utensili. Tutto è finito nel mio sito, aperto per ogni consultazione: siamo o non siamo la patria di Galilei! Aggiungiamo che io conosco le sette cornamuse bergamasche, e ho anche misurato e disegnato il canto di piva ticinese e vedete voi: qualcosa sulle cornamuse del Nord Italia ho fatto.
Ci siamo dati un metodo: fin qui l’ho messa sul “goliardico”, in realtà Riccardo che è un biologo, si è specializzato nel ricavare la conicità e visualizzarla in grafici, poi ha l’occhio clinico sulle lavorazioni, a volte microscopiche, che raccontano un sacco di informazioni, e sui riscontri numerici delle misure. Io mi sono specializzato sulla fotogrammetria, o fotografia a bassa distorsione. Cioè l’uso della macchina fotografica e dei programmi di grafica per ottenere una immagine in grandezza naturale e non distorta da aberrazioni. Da cui poi ricavare i disegni con forma “reale” e non artificiale, tipo CAD. Sulle prove sonore abbiamo introdotto strumenti di controllo come il manometro ( stiamo parlando di strumenti musicali dove la pressione gioca un ruolo fondamentale). Abbiamo introdotto prove “alla cieca”, cioè cercando il massimo risultato sonoro senza avere nessun riferimento di partenza, che può falsare o fuorviare i risultati. Siamo gli unici in Italia che hanno adottato fino ad oggi una tale prassi metodologica. Così facendo, in pratica, dopo aver fatto il lavoraccio di rilievo, ci portavamo a casa casse e casse di informazioni. Su cui ragionare con calma.
Poi abbiamo incominciato a metter il naso fuori dal Guatelli: al Guatelli c’è la tesi che ha fatto la Cristina Ghirardini sulla catalogazione degli strumenti conservati in questo posto magico. Ma lei è andata avanti, ha catalogato altro: dei pifferi a Chiappa di Montoggio in Valle Scrivia, dei pifferi nel museo di Calvari, altro che si può trovare nel sito www.appennino4p. E qui ci siamo incrociati con Claudio Gnoli (conosciuto ad una mia lezione/concerto). Lui ci fa da apripista tra i musicisti e i parenti del mondo del “piffero”. Noi disegniamo.
Adesso iniziano le sorprese. Andiamo a vedere un piffero non del Grixu, quello di Cantalupo Ligure, assieme a Fabio Paveto (suonatore). Fabio ci fa notare che è stato segato: in cima ci sono i segni dei denti, belli belli. Poi un altro, stessa solfa, vai di Black & Decker. Poi Claudio Cacco ci fa vedere i due pifferi di Chiappa di Montoggio suonati dal Vagge, nato nel 1849. Oibò! Sono lunghi, belli lunghi. Poi guardiamo tra le carte della Ghirardini e vediamo che a Calvari c’è un “piffero antico”, lungo, ma proprio lungo. Almeno 15 centimetri di più di quelli che conosciamo. E che arriva dritto dai primi dell’Ottocento, se non prima, ed è anche diverso come foratura. E poi ce ne un altro, che sembra un brutto anatroccolo, ma è un piffero, sempre diverso.
Organizziamo un’altra spedizione a Calvari, ci aiuta sempre Fabio Paveto. Qui a Calvari ci sono i due pifferi, due muse e un bel po’ di bordoni. Il curatore del Museo, il signor Renato Lagomarsino, è un altro super-disponibile, viaggia sugli ottanta ma bagna il naso a schiere di giovincelli. Basta chiedere e ti apre ogni porta. Allora disegniamo tutto, che va sempre nel mio sito dove c’è anche la pagina dei pifferi e muse, http://www.baghet.it/musa4province.html . Già che ci siamo proviamo il “piffero lungo antico” (Fabio lo prova, è il suo mestiere ). Incredibile, suona bene, e la tonalità viaggia sul FA. Strano, molto strano !!
Poi si prova quello del Vagge: viaggia sul MI !!
Qui crolla un castello (polemica): per anni il mondo del folk-revival (ma anche della ricerca) si è accontentato di risposte immediate, schematiche e semplici, e non mi riferisco al solo caso del piffero. La realtà storica invece è molto, ma molto più ricca, complicata e ingarbugliata. Sarò drastico, ma nell’ambiente ci sono da anni e quando ho iniziato a bazzicare, attorno alla musica etnica c’era “voglia di conoscere”, e parecchia, tanta. Oggi ci si “accontenta di conoscere”. Tutto quello che è nella pubblicazione di Calvari racconta questo: i pifferi antichi erano diversi, Grixu è arrivato e ha salvato probabilmente dall’estinzione lo strumento, ma ha apportato anche vistose modifiche, probabilmente senza nemmeno saperlo. Facendo i confronti grazie alle immagini reali fornite dalla fotogrammetria, si capisce benissimo che una o più persone, prima di arrivare dal Grixu, in un periodo anche abbastanza lungo di decenni, hanno cercato di adeguare in maniera drastica gli strumenti alle nuove esigenze musicali. Dimenticando come si costruivano ma usando degli accorciamenti brutali. Invece a Calvari e a Chiappa di Montoggio sono rimaste delle reliquie sostanzialmente ancora o abbastanza integre.
Nella pubblicazione ci sono queste valutazioni, compreso le prove sugli strumenti, i disegni, i ragionamenti sulla diteggiatura. Insomma, non è proprio poco. Questo cambia tutto: intanto vuol dire che la musa suonava non con il piffero come lo conosciamo noi oggi, ma con un piffero in una tonalità più bassa, e che le sonorità erano diverse.
Giustamente oggi si suona dopo che si è realizzato un percorso di rivalutazione; vale per il piffero e per tutte le forme espressive musicali del mondo popolare. L’esistente ha avuto un suo un “viaggio”, fatto anche di compromessi, ma che “esiste” e funziona. Ma l’esistente è solo un aspetto di un patrimonio culturale, sociale, musicale. Ce ne sono e ce ne sono stati altri, tanti altri, a volte anche più ricchi di creatività. Provate a immaginare cosa possa dire ricreare un organico di piffero e musa ma in una tonalità più bassa. Probabilmente se qualcuno delle Quattro Province mi legge, mi considera un blasfemo. Però ho una mia convinzione: talvolta le discussioni partono da posizioni “di schieramento”, da “atti di fede” e non da incrocio di dati e conoscenze. Mi spiego meglio: i pifferi di Calvari sono stati documentati nel 1983, quelli del Vagge nel 2000. Sono i più arcaici e i meno modificati, perciò più “originali” di quelli del Grixu. Tutti questi strumenti sono stati visti e rivisti da un sacco di persone, anche del mestiere. Ma non c’è bisogno di essere degli esperti per vedere che sono diversi, perciò suoneranno diversamente e quindi bisogna, come minimo, porsi dei dubbi, delle domande. La mia maggior sorpresa è stata quella di vedere che nessuno ha mai parlato di questi aspetti assolutamente fondamentali. In giro non se ne sa nulla. Eppure sarebbe bello ricordarsi, ogni tanto, che siamo la patria di Galileo.
E non tocchiamo l’argomento piva, di cui Riccardo potrebbe scrivere una enciclopedia.
E qui mi/ci facciamo un poco di pubblicità. Abbiamo visto tanti di quegli strumenti, anche di suonatori storici, tra pive, muse e pifferi, che l’armadio dei dati strabocca e le sorprese sono continuate. E così il trio Gandolfi/Biella/Gnoli ha fatto l’azzardo di proporre al “Galpin Society Journal” un lavoro seminale di comparazione organologica tra pifferi e cornamuse del Nord Italia, che (grande sorpresa) è stato accettato e uscirà nel numero del 2014, siamo già alla impaginazione. Insomma, sono soddisfazioni.
Non più Bergamo ma le cosiddette Quattro Province, non più sacche bordoni e chanter ma un oboe popolare Un bel cambiamento, non c’è che dire… Cosa si nasconde dietro questa scelta di interesse?
Se siete riusciti a leggere quello che ho detto sopra, la risposta è semplice: la voglia di conoscere, senza accontentarsi mai.
A che punto è la ricerca in bergamasca?
La ricerca sul territorio oramai è finita. Il motivo è banale: non ci sono più gli informatori, a meno di miracoli. Ma non credo.
Basti dire che io e il mio amico Giampi suoniamo in pianta stabile da più di dieci anni nel Carnevale di Dossena. Qualche annetto fa è passata la Regione Lombardia a riprendere l’evento: i musicisti nel documentario siamo noi due … è triste ammetterlo, ma siamo diventati vecchi…
E la rifunzionalizzazione del baghèt può definirsi un esperimento concluso, un obiettivo raggiunto?
No, è iniziato, va avanti dritto, poi sbanda, poi torna indietro, poi ritorna ad andare avanti. A volte corre, poi zoppica, poi torna a sgambettare. Io cerco sempre di tenere la barra dritta, con al centro il lavoro di ricerca. Poi compaiono altri costruttori che leggono (non sempre) i miei libri, fanno un po’ di buchi in pezzi di legno, e si presentano come ricercatori. Sbucano da ogni parte esperti che tengono corsi (?). La mia fatica è quella di dargli la dignità di “strumento musicale”, con una sua storia, repertorio, voce, stile. Poi arriva il neo-celtico, la banda con bandiera, percussioni e divisa, i finti pastori con mantello e ciocie… insomma, si va avanti ma è una impresa.
Dopo decenni di oblìo, l’area delle Quattro Province sta conoscendo un rinnovato interesse grazie soprattutto all’attività di molti pifferai e alla vivacità di un tessuto socioculturale davvero notevole. Quali differenze fra questa situazione e quella che trovasti trent’anni fa in provincia di Bergamo?
Non ho i mezzi per fare un confronto. Conosco molto poco della realtà delle Quattro Province. So per certo, parlando della mia cornamusa, che fino a quando le autorità politiche ( comuni e provincia) e culturali ( università o conservatorio) non si faranno carico in prima persona di gestire questa ricchezza, ma si viaggerà unicamente cercando le forze nel volontariato, si farà fatica a concretizzare un qualsiasi risultato. Attorno alla cornamusa bergamasca c’è molta attenzione, anche mediatica. Ma non basta: hai voglia ad organizzare convegni, lezioni, corsi. Il primo ” zuzzurellone” che suona vestito da paggio-celtico-pastore avrà sempre una maggiore visibilità. Manca ancora una sostanziale presa di coscienza del reale valore culturale che c’è dietro alla storia di questo e di altri strumenti musicali. Nel mondo popolare si fai poi alla svelta a cascare nel solito folclore.
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