Lo spettacolo “Bella Ciao” – portato in scena a Spoleto nel 1964 dal lavoro di un incredibile gruppo di ricercatori e artisti – ha marcato, segnato la storia del folk revival italiano e la vita di molti di noi. Anche di coloro, come nel mio caso, che non hanno mai visto direttamente lo spettacolo ma hanno avuto tra le mani, come una sacra icona, il disco che ne raccoglieva le canzoni. Da quella “prima” di Spoleto, da quel meraviglioso ventaglio di canti di lavoro, di canti d’amore, di canti politici, di canzoni nate nelle guerre e nei carceri – con la coda di scandali, polemiche e di speranze che accompagnano ogni evento significativo – è nato un certo folk revival, una percezione nuova delle canzoni del popolo, della storia, delle tradizioni. Un folk revival che in questi cinquanta anni si è modificato più volte, ha imparato cose nuove, ha perso alcune ingenuità, è morto più volte sotto i colpi delle mode per poi rivivere nuovamente.
Premesso tutto questo, l’articolo che mi appresto a scrivere è un coacervo di emozioni che vanno in direzioni diverse, a volte contrarie, spesso commosse, in alcuni casi dubbiose.
Io c’ero quel mercoledì sera, l’11 giugno 2014 alla Camera del Lavoro di Milano, ad ascoltare la riedizione del “più importante spettacolo del folk revival italiano riallestito dopo 50 anni”. Una riedizione che, al di là della regia (Silvano Piccardi) e della direzione artistica (Franco Fabbri), ha visto innanzitutto sul palco Riccardo Tesi come musicista, direttore musicale, arrangiatore (insieme a Alessio Lega e Andrea Salvatore). Una scelta azzeccata, non solo per la storia di Tesi, strettamente legata all’evoluzione del folk revival in Italia, ma anche per la sua sensibilità musicale, in grado di trasformare una canzone senza alterarne il senso e la forza espressiva. Poi due altri musicisti – Andrea Salvatore (strumenti a corda) e Gigi Biolcati (percussioni e cori) – e oltre ad Alessio Lega (voce, chitarra), una perfetta triade di voci femminili. Tre bellissime voci che hanno ripercorso con passione il repertorio originale dello spettacolo del 1964: Ginevra Di Marco, Elena Ledda e Lucilla Galeazzi.
Una bella serata. Il piacere di ritrovare molti amici con cui si è condivisa la storia del folk. Uno scambio di saluti, le luci che si abbassano, occhi curiosi che si incrociano e che si orientano sul palco, una breve presentazione dell’evento.
Finalmente la musica, le prime note: non potevano che essere di “Bella Ciao”. E poi la bellissima versione di “Maremma amara” con la voce di Ginevra Di Marco, la canzone da risaia “Amore mio non piangere” e tante altre importanti canzoni della nostra memoria… Senza dimenticare l’intensa “Gorizia” e il racconto accorato di Lucilla Galeazzi di quanto accadde a Spoleto dopo che Michele Stranierò canto pochi ma significativi versi: “traditori signori ufficiali/ voi la guerra l’avete voluta/ scannatori di carne venduta/ questa guerra c’insegni a punir”.
Come non commuoversi con tanta memoria condivisa? Come non apprezzare i giochi timbrici, i melismi, l’intensità delle voci insieme alla forza espressiva di arrangiamenti essenziali ma efficaci?
Però il coacervo di emozioni trova anche domande a cui è più difficile dare risposta.
Che senso ha lo spettacolo “Bella Ciao” oggi?
È indubbio che il senso di oggi sia radicalmente diverso dal senso di ieri. Giovanna Daffini che cantava di mondine nel ’64, i piedi nella risaia li aveva tenuti. Chi intonava a Spoleto “Bella Ciao”, la Resistenza la aveva vissuta direttamente o indirettamente attraverso i propri genitori. Se anche già allora la tradizione in certe zone poteva essere morente – colpita dai mutamenti della modernità e dalla crudeltà delle guerre – manteneva una forza espressiva che aspettava solo di essere riscoperta. Oggi non è più così. O per lo meno non lo è più per queste canzoni che hanno segnato sì un’epoca, ma forse non più la nostra epoca.
Ci potrà essere mai un nuovo spettacolo che porti sul palco i canti degli stranieri che rischiano la vita prima di finire dentro le “gabbie” dei centri di accoglienza? O un “Sciur padrun” che racconti le tragedie del lavoro che manca o dei lavoratori che muoiono cadendo da un ponteggio senza parapetti?
E’ evidente che non si poteva chiedere questo allo spettacolo riproposto a Milano. E immagino che questo non fosse neanche nelle intenzioni di Tesi o di Fabbri.
Tuttavia un mattone è stato messo con il cemento della nostra memoria.
Riccardo Tesi, a fine spettacolo, ha sottolineato che ci sono canzoni, quelle dello spettacolo di Spoleto, che devono essere ancora cantate.
Assolutamente vero. Ci sono canzoni che non devono essere dimenticate. Canzoni che devono tuttavia essere spunto per nuove strofe. Magari per un nuovo spettacolo, per un nuovo evento significativo che rappresenti le malattie della società odierna. Partendo dalle canzoni del nostro passato è anche possibile trovare una direzione per il futuro.
Tiziano Menduto
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