DUNYA RECORDS FY 8027 2, 2000 – BANDONEON/ITALIA
Qualche abbonato ricorderà probabilmente che tempo fa Daniele Di Bonaventura scrisse su FB un articolo-saggio sul bandoneon, strumento del quale lui pianista si era improvvisamente innamorato. Da allora la “cotta” è diventata una cosa seria e, dopo aver sostituito Dino Saluzzi nei concerti dal vivo di Enzo Favata, Daniele Di Bonaventura ha visto la sua fama di bandoneonista crescere fino al punto da essere considerato ormai il milgiore esponente italiano di quello strumento. Per i meno esperti di cose sudamericane, ricordiamo che il bandoneon è lo strumento principe della musica principe argentina, cioè il tango, ed è stato reso celebre soprattutto nella seconda metà di questo secolo dal grande Astor Piazzolla. Fine della lezioncina, e addentriamoci nell’analisi di questo disco che, come suggerisce il titolo, se si eccettua la partecipazione della cantante Catia Violoni in due brani, vede protagonista assoluto il bandoneon, affiancato soltanto in un pugno di pezzi dal pianoforte, ovviamente suonato dello stesso Di Bovaventura. Intenzione dell’artista, dichiarata nelle scarne note di copertina, quella di offrire al suo amato strumento la possibilità di uscire dal suo ruolo più conosciuto, quello di fornitore di melodie per i piedi degli scatenati “tangheros”: impresa ardua, ma legittimata dalla volontà di far capire a un pubblico ampio le potenzialità di uno strumento complesso e misconosciuto. Ascoltiamo così il bandoneon impegnarsi in un “Kyrie” composto dal musicista marchigiano (il bandoneon venne inventato dal liutaio Ban a Krefeld nel 1846 esplicitamente per i repertori liturgici), in brani popolari italiani (“Vola vola”), in svariate espressioni jazzistiche, in composizioni di vari autori (sempre compreso il poliedrico Di Bonaventura). L’ardito obiettivo è sostanzialmente raggiunto, anche se il suono stesso del bandoneon -liberato dalle atmosfere del tango- ci giunge come un’esperienza straniante, il che la dice lunga sui condizionamenti che le nostre orecchie subiscono dalle iterazioni e dai “suoni” comuni, corrispettivi dei “luoghi” comuni nell’articolare del linguaggio. Apprezzato l’impegno e il risultato, osserviamo soltanto una certa rarefazione dell’insieme, la costruzione di un’atmosfera in cui le tracce di calore sono poche e il coinvolgimento difficile. Inevitabile, forse, date le particolarissime caratteristiche del disco, comunque consigliabile a chiunque ami i suoni dei mantici e li voglia scoprire impegnati in sfide ai limiti dell’impossibile.
Roberto G. Sacchi
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