HEAVEN AND HEART, 2008 – FOLK CONTEMPORANEO/MONGOLIA
Gereg, la lamina d’argento, sorta di “carta d’identità” ai tempi di Gengis Khan, dà il titolo al disco dei mongoli Egschiglen. Se questo oggetto era il passaporto dei nomadi, per il sestetto mongolo il disco vuole essere una poetica identificazione del loro Paese. Siamo infatti di fronte a un viaggio in quelle terre lontane, con gli ampi spazi evocati dal tipico canto khoomii, inconfondibile per la sua doppia emissione di gola e di sicuro fascino per chi credeva fosse appannaggio di una certa avanguardia (Stratos, per esempio). Indispensabile baedeker il libretto, che ci accompagna con ampie spiegazioni (in inglese, tedesco e francese) relative alle tappe toccate dalla scaletta, dall’iniziale omaggio agli Unni (intitolato appunto Hunnu), alle preghiere dei Lama (Goviin Magtaal), dal leggendario lottatore Duuren Zann all’antica, e malinconica, aria delle genti Tuva (Jaran zagaan aduu), ai cieli senza fine e agli sciamani (Meeneg), al rituale canto d’addio ai genitori della sposa nella tradizione mongola (Huurhun Haliun). Ma ci sono tracce più vicine a noi, come la ripresa dell’Adagio dal balletto Huran Has di Jamyangin Chuluun (1924-92), composto nel 1973, quando la Mongolia era ancora una delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, o le improvvisazioni su una canzone popolare intrisa di umorismo (Byan hishig daa lam). Non poteva mancare un brano dedicato al cavallo, per secoli unico mezzo di locomozione veloce nelle steppe asiatiche. E, siccome i nostri passano buona parte dell’anno in Germania, non dimenticano un omaggio alla terra d’adozione, con la bonus track Blau’rin, traditional bavarese raccolto nell’area di Rhotenbach, dove gli Egschiglen hanno piazzato la loro yurta per qualche tempo. La band è attiva dal 1991 e, con molti concerti e dischi (questo è il quinto) ha saputo risvegliare in occidente un certo interesse verso le sonorità mongole, rappresentate con attenzione alle fonti ma sempre rapportate al nostro tempo grazie alla finezza degli arrangiamenti e all’apertura mentale dei musicisti che si sono succeduti nella line-up. Interessante in questo senso l’opinione di Steward Turner, della BBC, che si è spinto ad affermare – non senza ragioni – come i paesaggi dolcemente dissonanti disegnati dal suono pesante delle viole fanno pensare al primo album dei Velvet Underground.
Gereg è stato selezionato dalla rivista Songlines tra i Top of the world nel numero di aprile/maggio 2008.
Gigi Marinoni
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