Fortunatamente, di tanto in tanto, spunta nella moltitudine spesso insignificante dei prodotti della discografia italiana, un progetto vero, la costruzione di qualcosa che si sentiva come necessaria.
Sto parlando di Bellandare, l’album di Aida Satta Flores assai ben prodotto da Leonardo Bruno e appena pubblicato da Riserva Sonora e distribuito da Self.
Conosco e seguo Aida dall’inizio degli anni ’80, quando, artista ancora acerba ma già originale e capace di sorprese, quali la meravigliosa Alkayd, canzone indimenticabile. Aida nasce e si muove a Palermo, città ricca e nutriente di fermenti musicali. E’ mia personale opinione che se non avesse spesso sprecato tempo nel seguire (inseguire…) sirene sanremesi, o di facili successi, e si fosse dedicata alla coltivazione dei fiori della sua ispirazione e della sua intelligente sicilianità, questo album bellissimo sarebbe arrivato molto prima. Ma forse ogni cosa ha necessità del suo tempo, e poi questo lavoro gode della produzione artistica di Leonardo Bruno (eccellente!) e della partecipazione di grandi protagonisti, tra i quali voglio ricordare Leo Gullotta, Mimmo Locasciulli, Vincenzo Mancuso, Giovanni Sollima, oltre a eccellenti e partecipi musicisti, quali Giancarlo Parisi, Giuseppe Milici… ma vi consiglio di acquistare l’album, così potrete leggere tutti i nomi degli artefici di questa piccola opera d’arte nella grafica, curatissima, impreziosita dal ritratto di Aida offerto da Sergio Staino.
Mia cara Aida, finalmente hai deciso di non disperdere le tue belle canzoni in lavori troppo frettolosi, o legati a particolari urgenze, ma di lavorare a fondo su una ottima raccolta di esse, per cucinarle a fuoco lento, sulle alture delle Madonie, nella magica sala del tuo produttore Leonardo Bruno. Quanto è stata determinante la sua produzione?
Leonardo ed io ci conosciamo da tempo: mi ha seguita in concerto, come esperto fonico, per più di dieci anni. Il mio amico esperto-fonico “conosce a memoria” la mia timbrica vocale, avendomi sentita circondata dalla formazioni musicali più varie, da strumenti elettrici, da quelli più propriamente popolari, come le fisarmoniche; immersa e ironicamente “grave” nelle atmosfere “simil-jazz”, immersa e ironicamente festosa tra i fiati delle bande di paese (i concerti, poi divenuti un cd-live, dell’”Aida Banda Flores”, registrati live proprio da lui, in tutte le tappe di quell’incredibile tour, durato anni, in cui sposavo le sonorità bandistiche). Un giorno di qualche anno fa mi propose di fare un disco insieme, nel suo magnifico studio, ad Alta Quota (di nome e di fatto, sulle alture delle Madonie): sarebbe stato quel che è stato, in un prezioso e raro “stato di grazia”, ascoltare le mie “canzoni col culo grosso” (come chiamo le oltre duecento mie canzoni mai pubblicate, sbadiglianti da anni nei cassetti) e star loro dentro, attorno, o, come diceva lui, togliendo il velo e trattandole come statue cui togliere la polvere per lasciarle brillare nella loro nudità e interezza. La sua produzione è stata più che determinante. E’ stata quella molla interiore che mi ha fatto riappacificare col mio concetto eternamente strano e discontinuo del Tempo! Sì, il Tempo. Quello che non basta mai quando fai cose che ami. Quello che pesa quando fai cose che non ami. Il Tempo, da sempre un filo conduttore presente in molte mie canzoni (“e mi frastorna quel tic-tac” in “Certe musiche sol la la la” – album “Voglio portarti musica” 2002). Senza guardare l’orologio. Questo è stato il mio lavoro con Leo. E se non guardi l’orologio, può capitare di fumare una sigaretta davanti alle sconfinate vallate davanti a te, mettendo un piede in una cacca di mucca, mentre stai col naso in su a meravigliarti d’un volo ordinato di fenicotteri rosa. E di rientrare in studio “innamorata” di quanto stai facendo. Leonardo, involontariamente, mi ha fatto innamorare delle canzoni che scrivo.
Nella scelta dei brani, trovo una straordinaria omogeneità, come se l’album fosse avvolto, come in un mantello, da un pensiero comune, da una forte necessità artistica, da una profonda maturità. Vuoi spiegare ai lettori di Folk Bulletin da dove arrivi e dove vuoi arrivare con il passaggio importante di questo Bellandare?
“Passaggio importante” mi piace molto e accarezza, solleticandola, quella parte di me, l’artista, che è stata troppo tempo in un silenzio-ufficiale discografico, pur non avendo mai smesso i live. Dove voglio arrivare non so, anche perché è mia convinzione immutabile che “tendere” sia più importante di “arrivare”… e in questa tensione verso l’estro artistico mi perdo, probabilmente, molti “passaggi” necessari alla finalizzazione di una “carriera”…. ma guadagno la Vita vissuta, che per me è cosa più importante, e non perdo il mio “tempo d’artista”, che è senza tempo per sua stessa natura! Forse dovrei iniziare a seguire gli involontari “consigli” che scrivo nelle canzoni, come quel “devi equilibrare il piede per partire insieme a me” (in “Tacco e stacco”, il primo singolo, una canzone d’amore, del nuovo album). Da dove arrivo è tutto quel che sono oggi, nel bene e nel male. Oggi, purtroppo, è cambiato l’ascolto. I dischi si scaricano gratis dalla rete. O, bene che vada, si scaricano in digitale e si ascoltano, isolati nelle proprie cuffiette, sui tapis roulant nelle palestre, o in auto, in mezzo al traffico… figli, tutti, d’una Tv e Radio omologanti che indirizzano le papille gustative dell’orecchio, del cuore e, purtroppo, anche della mente. Che poveri tempi! L’uomo sta uccidendo l’Uomo. L’umanità sta perdendo l’alfabeto affettivo dell’Umanità. Ecco, allora, so dove voglio andare: non voglio perdermi, e non voglio disperdere la Bellezza e l’attitudine alla Poesia che le mie stesse canzoni mi indicano. Mi fa piacere tu trovi una certa omogeneità nell’album. E’, infatti, per me, un concept-album, di quelli che non si sentono più molto in giro. La maturità? Grazie! Per me è solo un disco nato da un’incredibile necessità umana che, grazie alla collaborazione di tutti coloro che ho voluto e che han partecipato con passione e cura e rispetto della canzone, di ogni singola canzone, si è vestita di “necessità artistica”. Un’urgenza sottolineata dalla calma e dal sudore, senza guardare l’orologio, dal Silenzio delle montagne siciliane, dilatando il tempo e fermando, in qualche angolo del cuore, quel cristallo, quel diamante, quell’emozione … affinché potesse continuare a brillare, oltre il fotogramma di una registrazione.
In definitiva, posso risponderti che una canzone, così come nel più tradizionale dei canti popolari, non è, non dev’essere, di chi la scrive, ma di chi la fa sua. E sono letteralmente innamorata del mio fedelissimo pubblico im-mediato, non mediato, libero di scegliere, scovandomi e condividendomi. Questo è il vero successo per un artista.
La canzone iniziale, A cuore nudo, è una sorta di codice, di tavola, stavo per dire di “testamento spirituale” dell’Artista, ma tu sei ancora la ragazzina dell’ 81, e di Alkaid… Oggi scrivi “un artista a cuore nudo/è l’Eterno in un minuto” Una notevole sintesi. Cosa è cambiato da allora?
Ho preso coscienza di quanto sia difficile stare al mondo con le proprie identità immacolate. Nessuno è immacolato. Fanigliulo, nel 1979, scrisse e cantò in “A me mi piace vivere alla grande” (una delle 2 cover presenti in “Bellandare”, oltre a “Tutto bene” di M. Locasciulli/Greg Cohen) “voglio sentirmi uguale, uguale a un gatto rosa per essere sporcato e raccontare a tutti che sono immacolato”. E’ cambiato il mondo, non solo musicale. Ma è rimasta intatta e immacolata la mia bella energia, che spunta all’improvviso quando mi sento libera e a mio agio, come in studio di registrazione, o a un mio concerto. Una magnifica bella energia che auguro a tutti, iniziando dai miei figli. “Bellandare” è un auspicio… in altre parole potrei augurare al mondo di smetterla di stare a guardare dallo spioncino (l’occhio de “Il grande fratello” docet, impoverendoci), di spegnere molte televisioni, e di iniziare a fare un “viaggio all’incontrario”… come ho cercato di fare io, in questo nuovo album, ricco di antiche canzoni fuori dal tempo, mai pubblicate finora, di belle energie sempre rinnovabili, come sono le peculiarità identitarie di ogni artista, e di tensioni verso il nuovo e quel che sarà… Dai miei timidi esordi, con la vittoria a Castrocaro ’85, sono cambiati i mezzi e i modus operandi di coloro che fanno girare la musica intorno a noi… Io sono la stessa ragazzina del 1981, con due marce in più; una umana, perché aver raggiunto una certa serenità negli affetti di famiglia (mi sono sposata dopo 23 anni di convivenza) spero possa permettermi di dare voce a tutte le canzoni che mi frullano dentro, impazienti di andare tra la gente; l’altra più strettamente artistica, perché a quell’epoca ero chitarra-dipendente, mentre oggi godo dei frutti inevitabilmente lasciatimi, come patrimonio personale, da tutti i musicisti e gli artisti incontrati sinora. Proprio nel testo di “A cuore nudo”, che giustamente tu indichi come una sorta di “testamento spirituale”, è contenuta una frase che avrei voluto usare come titolo dell’intero album, un titolo lunghissimo, Werthmulleriano “C’è un’assenza in giro di Bellezza, qui ci vuole un viaggio all’incontrario” . E c’è anche un ricordo-saluto a Mimì “c’è Mimì che brucia la coscienza degli idioti dietro ai burattini”, augurando a tutti gli artisti veri di procedere su percorsi e strade piene di sole e di opportunità di speranze di sopravvivenza, in questo mondo globalizzato che tutto rischia di appiattire… senza necessariamente sentirsi una minoranza “debole”. Le differenze sono una ricchezza dell’umanità, non solo in musica e nell’arte. E le identità vanno salvaguardate.
Nei brani dell’album sono citati madre e figli. L’esperienza di essere figlia, e poi madre, come e quanto fanno parte del mondo delle tue canzoni?
Qui ci vorrebbe uno psicologo! E’ inevitabile che il vissuto entri e faccia capolino nell’atto della creazione. Ci sono canzoni che ho scritto in tre minuti, tipo intuizione ed espressione insieme, come diceva Cicerone; altre, come “Tacco e stacco” (il primo singolo, che ha anticipato l’album, pubblicato insieme al videoclip ideato e girato da Joshua Wahlen e Alessandro Seidita) che ho completato in giorni, mesi, anni… Canzoni che, forse per qualche riferimento al vissuto, ti fanno disperare, e le lasci per un po’, per riprenderle in un altro momento, in un’altra stagione… E anche qui torniamo all’allegoria di madri e figli. Scrivendo “con quel vento di scirocco tra le gambe”, in “A cuore nudo”, è già insito tutto il travaglio del partorire una canzone definitiva. Le canzoni che scriviamo sono figlie nostre, e anche nei rapporti umani, tra madri e figlie, ma più in generale tra genitori e figli, ogni tanto è bene allontanarsi… per poi ritrovarsi meglio di prima! Col tempo che s’insinua tra persone, cose e fatti… le cose buone tornano sempre a galla, più solide di prima, ne sono certa! Nell’album ci sono, specificatamente, due canzoni madre-figlio/a. La prima è una lettera a mio figlio, “La solitudine magnifica” che avevo scritto quando andò via da casa, ventenne. Me ne accorgo, ad esempio, riascoltandomi: cito un suo solo tatuaggio ad un polso, perché ne aveva fatto solo uno. Oggi ne ha due, anche sull’altro polso ;-). La seconda s’intitola “Oh ma’” (è il secondo singolo pubblicato da Riserva Sonora, in contemporanea con tutto l’album, col videoclip ideato e girato dal giovane regista Claudio Colomba, che collaborò per anni con Oliviero Toscani). L’avevo scritta trent’anni fa, mai pubblicata. A quei tempi avevo scritto che il mio cuore non era schiavo delle “scuderie” (esistevano le scuderie discografiche, come le attuali major): oggi ho cambiato quella frase, alla luce della musica che passa dalle televisioni, in “non frequenta Mara & Maria”, aggiungendo tutta la parte finale in cui sostengo che “l’arte della musica non è telegenica, prima della metrica vai dove sei tu”…godendo della magistrale interpretazione al violoncello di Giovanni Sollima che sottolinea quel “mi bastava anche un Bontempi e mi sentivo Bach”.
Insisto sull’argomento, perché so quanto sia difficile tradurre i propri sentimenti familiari, i propri affetti, nel grande sentimento “popolare” della gente che ci ascolta. Per questo una delle canzoni dell’album che prediligo è La solitudine magnifica, resa ancor più universale dalle partecipazioni straordinarie, di nome e di fatto, di Mimmo Locasciulli e di Giovanni Sollima. Quanto è stato importante il contributo degli ospiti all’atmosfera di questo brano, e in generale dell’album?
Il contributo di tutti coloro che han partecipato all’album è stato assolutamente quel “quid” che rende questo disco, per me, prezioso, senza tempo, bellissimo! Il disco che volevo da tempo. Che dirti, ad esempio, di Giovanni Sollima? Incredibile l’umiltà dei grandi! Ha suonato tutti i celli pensati da Leonardo Bruno e Alessandro Valenza, e ha proposto due assoli finali, in “Oh mà” e in “Baci e spine”: in quest’ultima volevo un mitra contro le cose brutte del mondo, e lui l’ha realizzato alla perfezione, usando un distorsore da chitarra elettrica punk sul suo violoncello del ‘600! Vincenzo Mancuso ha interpretato alla perfezione una delle mie due principali facce, quella da cantautrice degli esordi che tu ricordi, che guardava all’America di Dylan, di Joan Baez… Nell’incipit de “Il ballo della vita” volevo sentire volare le mosche su carcasse di cavalli morti nel deserto dell’umanità… bisogna ascoltare quel che ha realizzato, per capire quanto è stato magico e meraviglioso Vincenzo! Mimmo Locasciulli non si è risparmiato, penso proprio si sia anche divertito, in certe canzoni. Ne “Il mare è sempre più nero” ha fatto la voce del mare arrabbiato, con un gorgheggio… oltre a suonare l’esatto pianoforte che serviva all’atmosfera della canzone, che difficilmente avrebbe potuto realizzare un pianista classico. Ha cambiato due parole nella strofa de “Il ballo della vita” (che ha voluto cantare lui perché, secondo me, gli piaceva molto) preferendo dire “basterebbe soltanto un po’ di vino ed un tango insieme a me”, invece di “basterebbe una doccia e un po’ di vino e un tango insieme a me”…. E che dire di tutti gli altri? Ogni passaggio in studio, non solo musicale, è stato un “passaggio d’amore”, come la voce per caso di Maurizio Lanzalaco in “Perereca da vovò”, come tutta quella marea di strumentini etnici e zampogne e altre diavolerie popolari utilizzati da Giancarlo Parisi, come il dono dell’abbanniata in dialetto siciliano di Leo Gullotta in “A cuore nudo” , come l’armonica a bocca e in punta di piedi di Giuseppe Milici in “A me mi piace vivere alla grande”, come… bè, qui forse travalico i confini di un’intervista, straripando in un improvviso “passaggio d’amore” d’un amico che dovresti conoscere: Edoardo De Angelis. Il suo “mantello d’autore” ha avvolto molte registrazioni, quando passò a salutarci in studio… La sua sola presenza, a me cara, da quel 1981, mi ha incitata al “meglio di me”… nel centellinare la scrittura, nel rigore per ogni singola parola scritta magari di getto, ma poi pesata e ripensata e reinventata… è accaduto, ad esempio, nella canzone finale che chiude l’album prima di una ghost-track in cui elenco tutto ciò che non sopporto. Ne “Il tempo di cantare” ci stanno due presenze di Edoardo, una poco presente, volutamente (quando la voce della coscienza parla, parla piano, parla poco, parla in silenzio), l’altra, ma lui non lo sa, enorme, massiccia, rigorosa, un tuono nel silenzio! Edoardo fu il mio primo vero produttore, oltre trent’anni fa.
Il primo marzo 2013, mentre stavo in studio, mia madre mi disse, al telefono, che era morto Lucio Dalla. Inevitabile inserire un suo amarcord nel finale (il refrain musicale de “Le rondini” affidato al bansuri di Giancarlo Parisi su un tappeto di cicale registrate davvero tra i monti di annunciata primavera) e pensare e ripensare a quante strade diverse avrei potuto indicare alle mie canzoni se solo, nel 1981, avessi seguito le indicazioni di Edoardo… Pur se “Il tempo di cantare” nacque moltissimi anni fa, aggiunsi una frase, quell’1 marzo 2013, “e tralasciando tradimenti d’aquilone senza filo, sei l’aviatore innamorato del tuo sogno ancora in giro” e telefonai immediatamente a Edoardo, un attimo prima di registrarla, felice e immacolata come quando ero la ragazzina del 1981. Questa è l’importanza insostituibile di tutta la Bellezza che hanno portato, in musica e silenzio, con affetto e partecipazione, con l’attitudine rara dell’ascolto e la passione profonda per l’estro artistico libero, tutti coloro che hanno lasciato una traccia del loro passaggio nei miei giorni in studio di registrazione, trascinati in un vero “stato di grazia” interiore, che spero diventi “dono”, esteriorizzato, per chi ci ascolterà.
Trovo molto azzeccata, e riuscita, la riproposta della storica canzone di Fanigliulo A me mi piace vivere alla grande. E’ così anche per te ? O qual è il motivo di questa scelta?
Anche io amo, ed auspico, che ci lascino, almeno, “girare tra le favole in mutande”! Un artista annusa sempre i tempi che verranno. Fanigliulo, come Rino Gaetano, seppe annusare e prevedere i tristi tempi che sarebbero arrivati: una società che incita e crea bisogni di cui l’uomo non ha bisogno. Zeffirelli, all’epoca, firmò la pubblicità dei jeans Jesus! Che naso fine, che olfatto che hanno gli artisti! E poi, per me, era importante ricantare e pubblicare quella canzone, che all’epoca fu censurata dalla RAI, nella sua versione originale, integrale, per rispetto dell’artista. La censura del 1979 cambiò la frase di Fanigliulo “foglie di cocaina” in “bagni di candeggina”. Con questa cover, nel mio piccolo, ho reso omaggio alla libertà dell’artista in generale.
Sarebbe stata una scelta sbagliata lasciare fuori dall’album il bel suono della cadenza siciliana. Io credo che la tua Terra, e la musica popolare, ricchissima, che ne proviene siano fondamentali per la tua personalità artistica, e per il tuo “suono”. Sei d’accordo? Hai mai pensato a un album solo in dialetto?
Ho scritto qualche canzone in dialetto, ma ho lasciato perdere perché non amo le finzioni, e parlo purtroppo male la mia lingua Siciliana. Siamo anche quello che siamo stati, e sin da piccola, per abitudini familiari, ho parlato in Italiano, ho fatto studi classici, stavo anche per laurearmi in Lettere e Filosofia (mannaggia! Mi mancavano quattro esami, di cui tre materie complementari. Ma torniamo ai “tradimenti d’aquilone senza filo”… avevo vinto Castrocaro, avevo un bimbo da sfamare, e non mi laureai). La cadenza siciliana è in me, nei miei passi, in certe melodie, e adesso, con questo nuovo album, nei suoni utilizzati da esperti suonatori di pazzeschi strumenti della tradizione popolare sposati agli strumenti del “pop” … anche se qui bisognerebbe aprire una parentesi infinita…perché odio il pop, comunemente inteso (preferisco il contrabbasso al basso elettrico)… ma il Pop, come lo intendo io, non è quello che circola oggi. Il Pop deriva dal Popolare, dal Popolo, quindi dovrebbe essere identitario. Anche l’Italia, nel bene e nel male, aveva la sua identità, fatta prevalentemente dalle romanze di fine ‘800, dai cantori Napoletani meravigliosi, dal “bel canto” e da tutti i movimenti dei nostri Sud: la pizzica, la taranta, la tarantella, da “Vitti ‘na crozza” fino a “Volare”.
Ci sono artisti della musica popolare di Sicilia ai quali ti senti particolarmente vicina, o ai quali in qualche modo fai riferimento?
Per mie personali lacune di conoscenza non faccio riferimento ad alcun artista della musica popolare siciliana, anche se devo dirti che, col senno del poi, ascoltare certe “battaglie” poetiche di Rosa Balistreri mi fa un effetto speciale. E’ vero: l’artista annusa sempre i tempi che verranno. Negli ultimi tempi mi son emozionata ad ascoltare alcune composizioni di Francesco Giunta, che comunque preferisco più crudo, a nudo, come dev’essere un Pensatore dialettale sopraffino come lui. Senza grandi orchestrazioni intorno.
Se poi mi concentro, per rispondere alla tua domanda, mi viene in mente nonna Concetta, la madre di mia madre, che parlava prevalentemente in Siciliano. Sapessi che ninna nanne mi cantava! Una di quelle, a fasi alterne, torna nelle mie canzoni, o nei concerti, come prologo o come virgola e a capo: “Oh ninni oh, cugghiuneddu da nonna so, cugghiuneddu non voli durmiri coppa ‘nto culu quantu n’ aviri. N’aviri quattrucento, figghiu d’oru, figghiu d’argentu”.
In “Bellandare” ho usato la lingua Siciliana in due momenti, che poi sarebbero tre. Ho usato il Siciliano per fare urlare a Leo Gullotta, come un antico banditore nelle piazze, il pericolo della morte della Poesia, sul finale di “A cuore nudo”.
L’ho usato, scritto oggi, nel prologo di “Oh mà”, in quel “Quannu crisciu” che ripete, ossessivamente, sempre la stessa strofa, sottolineata dal violoncello di Sollima e dalle atmosfere siciliane di zampogne e marranzani, che tradotta dice “Quando cresco se avrò successo sarò felice, madre mia. Quando cresco se non avrò successo me ne fregherò, come te!” Perché è chiaro che bisogna mettere a fuoco, ognuno con le proprie lenti, cosa sia il successo.
Un terzo momento, linguisticamente parlando, è in “Perereca da vovò”: in brasiliano significa “la ficuzza della nonna”, un po’ come quel “cugghiuneddu da nonna so” che mi cantava mia nonna Concetta. E ho immaginato la miseria la povertà, lo squallore di certe situazioni aberranti in molti Sud del mondo, nello specifico in Brasile, ove una nonna fa la ninna nanna all’unica nipotina non smerciata, non venduta, non stuprata…per poi diventare una marcia di donne contro gli orrori di questi tempi.
Non so parlare e scrivere, come vorrei, in dialetto. Ma si vive si suona e si pensa nella propria lingua.
Ed io vivo, suono e penso in dialetto. Sono finalmente abbarbicata e fiera, come dovrebbe essere ognuno, alla mia spesso trascurata identità. Mai trascurata nei live. Trascurata, forse, in molti dischi finora realizzati. Ma sempre viva presente e pulsante. Soprattutto ora, in questo disco, che è esattamente quello che volevo, da tempo. A ben pensarci, comunque, ha fatto sempre un po’ capolino, anche nel 1992, nell’album “Il profumo dei limoni”, prodotto e arrangiato dai Nomadi di Augusto Daolio, in “Pizzich’e ‘vvasa”, in “Qui la mafia non c’è” e nella stessa “Il profumo dei limoni”. Ogni dialetto non è solo linguaggio: è un modo di vedere e di pensare le cose del mondo. E’ una grammatica oltre le Nazioni, da custodire e tramandare.
Il suono, le scelte timbriche, la leggerezza dei missaggi, l’aria buona che si respira tra note e parole, è una medaglia che dobbiamo mettere sul petto di Leonardo Bruno, musicista e produttore montanaro di grande ispirazione. Un grande, come si dice oggi… Quanta pazienza ha dovuto esercitare per gestire uno spirito effervescente come il tuo? Ti rendi conto che anche grazie a lui hai realizzato finalmente un album da tenere sul palmo della mano con pochi altri di produzione italiana?
Leonardo. Il talento della “lentezza”. Il dono raro dell’amicizia e di fare le cose per il solo gusto di farle.
Il godere dei quadri che vengono fuori. Leonardo. Quanta pazienza, lui con me, io con lui! E’ meraviglioso quel che dici: un album da tenere sul palmo della mano con pochi altri di produzione Italiana. Ho la capacità, ultimamente, di abbracciare e farmi abbracciare da persone speciali, particolari, libere, profonde, serie, dedicati all’arte come pochi, al gusto dell’arte. Ho realizzato questo gioiello con Leonardo, in quasi due anni in studio di registrazione. L’ha pubblicato Riserva Sonora, una piccola etichetta indipendente, gestita da Marco Mori. Leonardo Bruno. Marco Mori. Due individui così lontani, anche geograficamente, ma così vicini. Spero che nasca un ponte, non sullo Stretto, ma un ponte efficiente, in grado di traghettare queste canzoni e le altre che verranno. Leonardo, all’inizio, quando si cercava tra le mie tante canzoni, è stato un “condottiero di luce”: pensa che ascoltava canzoni mie registrate anche su musicassetta, e già intuiva quel che sarebbero diventate.
L’enorme contributo di Leonardo è tutto nella scelta del suono: ore e ore accanto al batterista, alla fisarmonica, al banjo, anche al violoncello di Sollima, per ottenere esattamente la ruvidità, la crudezza o la morbidezza che voleva. Solo quando andavo io al microfono, per la voce, quasi sempre “buona la prima”! Perché lui stava lavorando per me, finalmente per me, per quello che sono, che ha conosciuto in oltre dieci anni di concerti, e che quasi mai ero stata su disco! Leonardo è l’attimo fuggente. Devi trovarlo in “sì”. E io ho avuto l’onore, la fortuna e la gioia di trovare un suo “sì” lungo quasi due anni, immerso nelle mie canzoni. Questo è un dono di Dio! O forse di tutti quei pensatori che, essendo pensatori, si trovano comunque facilitati nel magnifico silenzio delle montagne, lontani dai rumori delle metropoli.
A questo punto, sei diventata grande, e hai una grande responsabilità: quella di un grande album alle spalle. Te ne rendi conto? Come pensi di procedere?
Bella domanda. Chiedi a Marco Mori! Il mio lavoro l’ho fatto: è qui, è compiuto. Sono felicemente soddisfatta e già vorrei registrare un nuovo album. Più che essere diventata grande, penso di essermi riappropriata del “me” immacolato, quindi sono diventata e ritornata “piccola”. Mi sento come quella ragazzina del 1981 che conoscesti, con qualche peso in più, ma anche con qualche “leggerezza” conquistata. Si fa fatica, oggi, in Italia, a fare emergere il proprio lavoro artistico, se non sei omologato, se “non hai l’età”! L’album, su etichetta Riserva Sonora, è distribuito Self e Made en Italy su tutte le piattaforme digitali, nei punti laFeltrinelli, nei Mediastore, nei negozi che R-Esistono (https://www.facebook.com/groups/resistono/). La cosa sulla quale vorrei concentrami sono i live: ho una band straordinaria, che a seconda dei luoghi e delle disponibilità, si muove con me dal trio fino al settetto. Voglio portare la mia musica alla gente. Mi rendo conto che i tempi sono difficili per tutti.
Pietro dice
Cerchiamo di capire che la musica non è quella che ci propinano i media, spesso imposta… per questo penso e credo che abbiamo bisogno di più artisti come Aida, senza gabbie, libere di esprimersi musicalmente e sempre con ottimi risultati. L’intervista sottolinea, oltre ad una valida artista, anche una donna istintiva, impulsiva, intelligente e a volte sopra le righe, ironica ed autoironica, sinonimo di intelligenza, dicono! W Aida, W tutti quegli artisti che non si fanno ingabbiare e che lottano sempre per far giungere la loro musica, la VERA bella musica. Bisognerebbe far capire che quello che in massima trasmettono le radio non rispecchiano sempre i gusti degli italiani, che dovrebbero ribellarsi e spulciare nell’underground, tra tutti quegli artisti che magari hanno ingiustamente minore visibilità, ma il cui spessore musicale è decisamente molto alto!
Pietro Penza