Ogni lavoro di questo straordinario musicista sardo è già una sfida per coloro che ne affrontano solamente l’ascolto, figuriamoci per quanti azzardino solo l’idea di scriverne personali impressioni (perché questa è l’unica possibilità, considerato che ad analizzare le sue architetture sonore, peraltro complesse, lasciamo l’arduo compito agli “esperti”).
Dunque, ecco dopo “Sale quanto basta” del 2013 Paolo Angeli pubblica S’Û che, nella sua edizione limitata, include un libretto che contiene un frammento autobiografico e la descrizione dei singoli brani.
Ora, bisogna porsi il problema se queste annotazioni vadano lette prima, durante o dopo l’ascolto. Si deve scegliere. Agli impavidi consiglio la lettura a posteriori: giusto per vedere se quanto comunicato dalla musica corrisponde a quanto immaginato durante l’ascolto. Perché – e questa è una delle sfide della musica – non sempre quanto si vuole comunicare corrisponde esattamente a quanto viene recepito dal fruitore, soprattutto in situazioni non schematiche ed organizzate come quelle proposte dal jazz e dalla musica improvvisata o di quella così deliziosamente sfuggente di Paolo Angeli.
Sì certo, i piedi sono ben fissi nella terra madre (“Mi e La” con testo di Anton’Istevene Demuro, uno dei protagonisti della stagione dei Cantadores dei primi decenni del Ventesimo Secolo, “Mancina” aria danzante, come forse la suonerebbe oggi Efisio Melis), ma si parla e si descrive anche altro: la disperazione dei migranti nordafricani in “Melilla” e di quelli transadriatici della nave “Vlora” (e qui Angeli si riferisce alla vicenda dell’omonima nave arrivata nel porto di Bari il 7 agosto del 1991 con ventimila albanesi alla ricerca de La Merica e poi rimpatriati dal Cossiga nostrano).
Il mare, la Sardegna, le miniere abbandonate del Sulcis, la casa a Bosa con i pescatori, Punta Palau. Si dice che la cultura sarda è millenaria, ancestrale, fissa. Eppur si muove verso il futuro grazie a musicisti come Angeli, visionari artisti che trascinano in avanti la tradizione popolare fino a diventarne parte essi stessi. Come i rami più giovani e più lontani dalle radici di un millenario ulivo.
Tradizione innovazione
Alessandro Nobis