Forse non molti ricorderanno oggi un bel gruppo americano del anni Ottnta come i Long Ryders, una ventata di freschezza che ritornava alle origini del byrds-sound e offriva nuovi spunti a una stanca scena di Los Angeles di quegli anni. A metà anni Novanta il loro fondatore, Sid Griffin, si trasferì a Londra dopo aver lasciato il Kentucky, per seguire una carriera di saggista e passare a diffondere il credo della roots music americana nella Vecchia Europa con i Coal Porters. Tra rock, country e soul, spesso con risultati non all’altezza delle aspettativa, i nostri hanno alla fine trovato un porto sicuro nella produzione di John Wood (che ricordiamo già con John Martyn, Nick Drake e molti altri), stabilizzando la linea musicale del gruppo su un country con molte influenze bluegrass. Questo nuovo album viene chiamato No. 6, forse proprio per sottolineare a dispetto dall’essere in realtà l’ottavo lavoro della band, la distinzione nata nella loro produzione a partire dal terzo album grazie proprio all’apporto di Wood. Un grande omaggio alle radici, che rischia di restare un po’ un’operazione di stile, rinunciando spesso a un più approfondito lavoro di rielaborazione riappropriazione stilistica e artistica del materiale.
Intendiamoci, Griffin è un gran performer, da solo, con i Long Ryders riformati e con questi Cole Porters che in terra d’Albione vantano un certo seguito. No. 6 è un disco divertente in episodi come Unhappy Anywhere oppure The Day The Last Ramone Died o ancora l’impegnata The Old Style Prison Break, ma manca il guizzo, la genialità, l’assolo che aspira all’immortalità. Splendidamente suonato e prodotto in maniera superba, questo disco non riesce a superare le secche di un virtuosismo troppo spesso fine a se stesso: chitarra, banjo, mandolino, contrabbasso e violino si rincorrono in maniera impeccabile, i cori sono assolutamente perfetti… che dire… i Kentucky Colonels di Clarence White sono davvero un’altra cosa!!
Giulio Giussetti
Lascia un commento