Janiva Magness non è solo una bravissima cantante ma è anche una persona straordinariamente profonda. E bellissima. Dentro e fuori. Tra le più grandi interpreti del blues contemporaneo, Janiva ha ricevuto nella sua ormai lunghissima carriera più riconoscimenti di qualsiasi altra collega donna. Nel suo curriculum vanta esibizioni in tutto il mondo compresa la partecipazione nell’aprile 2008 al Bluzapalooza una serie di concerti blues “in trincea” espressamente rivolti alle truppe statunitensi di stanza in Iraq e Kuwait. Anche la vita di Janiva è stata dura e difficile come può esserla quella di un soldato che si trova a combattere una guerra non voluta. Janiva è rimasta sola a sedici anni dopo il tragico suicidio di entrambi i genitori. A diciassette è diventata ragazza madre dando quel figlio nato da una fugace avventura in adozione a qualcun altro perché se ne prendesse cura. Il blues sembrò darle conforto quando una sera in uno dei periodi più disperati della sua vita vide Otis Rush in concerto. Le sembrò sin da subito che quel musicista suonasse come se ne andasse della sua stessa vita. Quel bluesman suonava con un’intensità estrema e una rabbiosa e infinita tristezza. Janiva non capì subito di cosa si trattasse, ma sentì che dentro di sé stava accadendo qualcosa. Sentì che forse quella musica l’avrebbe salvata dal buio più profondo. Janiva è ciò che canta e canta ciò che è. E questo lo si percepisce sin dalla prima nota che arriva diretta dal suo cuore attraverso la sua splendida voce. Una voce che unita a passione, slancio emotivo e capacità comunicativa fa di lei una performer assolutamente unica e straordinaria. Janiva l’ha detto più volte, anche in questa intervista, che oggi più che mai il mondo ha bisogno di musica vera, reale, e che il blues può essere la risposta a quella richiesta di speranza che c’è dentro ad ognuno di noi. Janiva si considera fortunata. In tanti l’hanno aiutata ad arrivare dove si trova oggi, superando barriere apparentemente insormontabili. Per questo sente il bisogno, quasi fisico, di ricambiare in qualche modo ciò che le è stato offerto in dono nei suoi momenti difficili. Janiva è attiva in programmi sociali di aiuto ai minori in difficoltà e alle loro famiglie. Una persona di così grande spessore non poteva non essere protagonista di un’intervista toccante e profonda. Eccola allora. Non stupitevi se leggendola i vostri occhi diventeranno lucidi per la commozione. E’ successo anche a noi. E anche Janiva si è dovuta fermare un paio di volte perché sopraffatta dall’emozione. Persone così non si incontrano tutti i giorni ma quando accade
si può ancora credere ai miracoli.
In un’ intervista hai detto che consideri il tuo lavoro come un dono che ti permette di connetterti con gli altri affinché tutti comprendano di non essere soli. Cosa intendevi dire realmente?
Che molta della musica di oggi, quella che ascoltiamo live, alla radio, o su internet mi sembra suonata da artisti che non cercano realmente una connessione con il pubblico. Sembrano più interessati al look, ai soldi, ai soldi, e poi ancora ai soldi. Non fraintendetemi. Amo il mio lavoro ed è giusto che debba essere pagata per farlo. Però il punto non è quello. Per me tutto ciò ha un significato molto più profondo. Credo che tantissimi anni fa mi sia stato dato un dono: la passione per la musica. Ad esempio quanto ascolto B. B. King cantare e suonare la sua chitarra mi sento in qualche modo connessa con lui. E lo stesso avviene con Otis Rush, Etta James, Koko Taylor. Una connessione che rompe tutte le barriere e arriva dritta al mio cuore. Mi fa capire istantaneamente che non sono sola. E questo è molto importante per me. In verità credo che sia vero che nel mio lavoro ci sono sì divertimento, gioia di vivere e voglia di far festa, ma anche e soprattutto la voglia di restituire ciò che mi è stato dato.
Parte del fascino che il blues e il rhythm & blues hanno su di me è dovuto al fatto che queste siano musiche veramente vicine alle persone, soprattutto a quelle che hanno sofferto profondamente e che ne sono uscite proprio attraverso il blues. Perché il blues non parla solo della sofferenza ma anche del viaggio che ci porta fuori dal tunnel. Lo ha fatto per me e quindi credo che il mio lavoro sia quello di fare lo stesso per gli altri. Ci deve essere connessione e ci deve essere onestà. Perché là fuori ci sono tantissime persone che fanno musica senza quella sincerità che secondo me è necessaria. Ok se va bene a loro continuino così. Io però lavoro in modo diverso.
Parlando del tuo album “The devil is an angel too” hai detto che questo disco esplora entrambi i lati del blues e che noi tutti esseri umani abbiamo una parte buona e una cattiva. A questo punto allora sei d’accordo con chi afferma che il gospel e il blues sono due facce della stessa medaglia?
Assolutamente si! Adoro il gospel, mi è sempre piaciuto e non credo ci sia bisogno di aggiungere altro.
Sempre durante una intervista hai dichiarato: “Oggi più che mai abbiamo bisogno di musica vera, autentica; perché essa ci può dare la forza di attraversare questi tempi difficili”. Credi quindi che la musica possa davvero aiutare le persone a cambiare il mondo?
Totalmente, al cento per cento. Anche perché ha cambiato il mio mondo. Quindi a volte può essere con una persona, a volte due, a volte cinque, a volte cinquanta, a volte cinquecento in una volta sola ma io mi sento sempre connessa. E qui mi ricollego in qualche modo a quello che ho già detto prima e cioè al fatto che non siamo soli. Penso che la musica parli ad un luogo che c’è dentro di noi dove non esistono parole. C’è un posto nel profondo del mio cuore e della mia mente in cui non arrivano parole ma solo musica. Quando l’artista sta suonando nel modo giusto con sincerità la musica arriva dritta proprio lì. E tutto ciò è necessario come l’aria, l’acqua, la luce. E’ necessario agli esseri umani per continuare ad andare avanti.
Parlaci di quella notte in cui a Minneapolis ad un concerto di Otis Rush hai trovato la tua strada per la salvezza e hai capito che il blues ti stava “chiamando”?
In realtà quella sera non capii immediatamente che il blues mi stava chiamando. Avevo solo quattordici anni. Quella notte compresi di essere testimone di qualcosa di profondo che mi sarei portata appresso negli anni a venire. Non c’era finzione su quel palco ma ogni nota che Otis suonava, ogni parola che cantava, erano espressione integra e sincera di un’aggressività emotiva che non lasciava spazio a fraintendimenti. Onestà pura. Mi lasciò senza fiato. Quella cosa arrivò in quel posto che c’è dentro di me in cui non arrivano le parole. Me ne stavo lì tutta sola in mezzo a un club pieno di gente a piangere. A piangere senza sapere cosa mi stesse succedendo. Non riuscivo a capirlo. Era bellissimo e mi faceva paura allo stesso tempo. Una sola cosa sapevo quando a tarda notte lasciai il club. Quello che mi dissi quando le luci dell’alba cominciavano un nuovo giorno è che quell’esperienza l’avrei voluta provare ancora. Solo molti anni più tardi capii che quella era una chiamata. Che Dio mi stava chiamando. Lo credo fermamente. E’ stata una esperienza davvero spirituale per me. A quell’epoca non lo sapevo ma oggi che ho 54 anni so che è stato così.
Quindi sei d’accordo con chi dice che il blues è una musica che guarisce?
Assolutamente si. Certamente. Quello è il suo scopo: quello di parlare del dolore, di celebrare la gioia e di ammettere la rabbia, per guarire, lasciando tutto alle spalle. Wiston Churchill una volta ha detto: “Se passate per l’inferno continuate a camminare”. Non accampatevi, lì ma continuate nel vostro viaggio. E questo è quello che il blues ha fatto e fa per me. E’ una musica che mi permette di allontanarmi da ciò che mi affligge.
Quali sono i musicisti che ti hanno maggiormente influenzata e quali sono i cinque dischi più importanti che consiglieresti a chiunque voglia avvicinarsi al blues?
Naturalmente nel corso degli anni le mie influenze sono cambiate perché l’arte e l’ispirazione sono due cose in continuo movimento. Di solito dove si inizia non è mai dove si finisce. All’inizio sicuramente B. B. King, Etta James, Koko Taylor, e soprattutto Billie Holiday che ascoltavo in continuazione. Era sempre così sincera nel raccontare del suo cuore spezzato. Non mi importa che sia classificata come un’artista jazz. Di sé stessa lei ha sempre detto di essere una cantante di blues. E poi Memphis Minnie, Son House, Skip James, Robert Johnson, James Brown. Tutto il funky e tutto il soul che c’era in giro e che farebbe diventare questa lista infinita. Hank Williams, Patsy Cline. E’ davvero un elenco senza fine. I cinque dischi che consiglierei? Beh, “B. B. King Live at Cook County Jail”, “Rocks the house” di Etta James, qualsiasi cosa di Skip James, tutto quello che c’è di Robert Johnson, e “The Billie Holiday songbook”. Vorrei aggiungere anche Son House, Howlin’ Wolf, e poi cos’altro? “Fathers and sons” di Muddy Waters che è un disco che amo molto.
Come definiresti la tua musica?
Non saprei veramente come descrivere la mia musica. La Blues Foundation di Memphis a cui sono molto grata mi ha definito“un’artista di blues contemporaneo”. Ne sono molto felice. Mi sembra una bella cosa.
Tra i tanti premi che hai ricevuto ti è stato assegnato il “B.B. King Entertainer of the Year” che, per chi suona blues, è un po’ come ricevere un Oscar. Cosa hai provato in quel momento?
Non ne sono certa ma credo di essere stata nominata per diciassette Blues Music Awards. Tre volte come “B. B. King entertainer of the year” e una di queste volte ho avuto la “corona di gioielli”. Ho vinto. Per me un Blues Award vale molto più di un Grammy. E per una ragione molto semplice: ringraziando Dio le associazioni che propongono annualmente gli artisti che concorrono alla vincita dei Grammy Awards, e questo lo so per certo perché ne ho fatto parte per anni (votando pure), non sanno nulla di blues. Niente di niente. Gli unici nomi che conoscono sono quelli di Buddy Guy, B. B. King e Etta James che naturalmente sono straordinari ma ce ne sono tantissimi altri meno conosciuti, almeno da loro, altrettanto bravi. C’è un universo blues là fuori oltre Buddy Guy, B. B. King e Etta James. Al contrario la Blues Foundation e intendo dire tutti coloro che sono iscritti e che votano ogni anno; ebbene queste sono persone che hanno dedicato l’intera loro esistenza a preservare e a tenere in vita questa musica, questa forma d’arte. E quelle cento persone che in ogni parte del mondo ogni anno decidono quali sono gli artisti che devono essere nominati per i Blues Awards sono assolutamente esperti nella materia. Persone che come voi, hanno studiato nel profondo questa musica. E quindi credo non ci possa essere di meglio che l’essere considerati da quel gruppo di persone un artista valido. Tornando al B. B. King entertainer of the year, ovvero alla mia “corona di gioielli”: la prima volta che vidi B. B. King avevo quattordici anni, lo stesso anno che vidi Otis Rush. Era già vestito molto elegante. Portava un vestito nero, si può vedere anche dalle foto. Aveva ancora i capelli “al naturale”. Quindi potete immaginare che cosa ho provato (e qui Janiva si commuove n.d.r.) quando B. B. mi ha chiamato sul palco dei Blues Awards. E pensa che la “valletta” che portava il premio era Bonnie Raitt! E’ stato come un sogno per me. E lo è ancora. Ed essere stata la sola donna ad eccezione di Koko Taylor ad aver ricevuto quel premio è stato fantastico. C’è un’espressione che usiamo nel Sud degli States e che dice “standin’ in tall cotton” che in italiano non so come si possa tradurre (avere successo, vincere alla lotteria n.d.r.).
Ti stai impegnando molto con il “Foster Care Alumni of America” l’associazione che raccoglie e aiuta i ragazzi adottati e le loro famiglie. Parlaci di ciò che fai per loro.
Io stessa sono stata nel programma Foster Care che si occupa dei bambini in affido. Ci sono entrata e ne sono uscita. Sono stata in diversi posti, spesso per poco tempo… E’ un problema difficile difficile da risolvere. Un grosso problema, soprattutto negli States. Ma l’amore e la sua manifestazione sono molto più grandi e importanti di tutti i problemi del mondo. Il mio ruolo è quello di essere un testimone “attivo” nel supportare questa istituzione. Per me essere la loro ambasciatrice è un grande onore. E’ qualcosa che sento a livello personale, è come se restituissi qualcosa che mi è stato dato. Il mio compito è quello di incoraggiare e sostenere le persone che vogliono prendere in affido i giovani a rischio. Giovani che sono nei guai. Come lo sono stata io. Io sono stata molto fortunata. Sono stata sballottata da una famiglia all’altra per tanto tempo e poi finalmente ho trovato quella giusta. Piano piano sono rinata. E’ quindi una cosa importante per me. La tua vera famiglia non è sempre quella da cui sei nata. Sono stata aiutata a venire fuori dagli incubi che popolavano la mia adolescenza. In questo mi ha aiutato molto anche la musica. Ho fatto passare i miei incubi attraverso la musica costruendo qualcosa di positivo. Però è stata dura. E’ stato un po’ come fare a pugni con il diavolo.
Abbiamo letto parecchio a proposito della tua triste storia. Sappiamo che sei nata a Detroit e che a trasmetterti la passione per la musica furono i dischi che tuo padre spesso ascoltava. Abbiamo letto anche che eri solo una ragazzina quando la tua vita si riempì di guai. Hai perso entrambi i genitori che si sono suicidati quando avevi sedici anni, hai vissuto per strada e sei stata sballottata da una famiglia adottiva ad un’altra e da un orfanotrofio ad un altro. Abbiamo letto inoltre che sei stata una ragazza madre e che in quei giorni terribili hai dato la tua bambina in adozione. Hai mai provato a cercarla?
Come dicevo ho avuto parecchi problemi da bambina. I miei genitori erano brave persone ma molto instabili mentalmente. Mio padre tra l’altro cantava molto bene. E suonava anche l’armonica. Ma erano entrambi molto depressi e bevevano tantissimo. Vivere con loro era come prendere un fiammifero e dare fuoco alla benzina. Eravamo cinque figli. Mia madre era una cattolica molto devota, al contrario di mio padre e questo creava parecchi problemi al loro matrimonio. Ma mia madre non voleva divorziare proprio a causa del suo fervore religioso. Mia madre si uccise quando avevo tredici anni subito dopo il mio compleanno. Mio padre la seguì quando avevo sedici anni. E’ stata una tragedia. Oggi ne parlo apertamente ma per anni un po’ perché sono una persona particolarmente riservata, e un po’ perché è difficile per me parlarne, non ho mai voluto affrontare l’argomento. Poi un giorno ho trovato il coraggio di farlo. E ne parlo proprio perché mi sono accorta che raccontando la mia storia posso aiutare altre persone. Io so cosa si prova a soffrire. Anch’io ho sofferto di depressione per tutta la vita e ne soffro ancora. Avevo dentro una rabbia che mi divorava. Ecco perché riesco a vedere la tristezza nello sguardo di un bambino. Spesso la gente che incontro fatica a credere alla mia storia. Si stupisce. Spesso mi dice che guardandomi non si direbbe che io abbia passato quei momenti. Sembra che per me sia tutto a posto. Che io sia sempre felice. E lo sono. Almeno per la maggior parte dei giorni. E sovente le persone comprendono anche che se ce l’ho fatta io, possono farcela anche loro. Questo è quello che mi spinge a condividere la mia storia. Il lavoro e il fatto di cantare mi hanno aiutato molto. E poi penso sempre a quanto Dio sia stato buono con me dandomi la forza di guarire. Sono stata molto fortunata. E’ stata una cosa lenta ma continua come la goccia che scava la roccia.
Ho “ritrovato” mia figlia quando aveva sedici anni. Abbiamo ricostruito un buon rapporto, che ha alti e bassi come tutti i rapporti madre/figlia. E anche questa è stata una benedizione. Un miracolo.
Sul muro di un vecchio negozio di dischi in Mississippi c’è scritto: “Se non ti piace il blues hai un buco nell’anima”. Sei d’accordo?
Assolutamente! Un buco grandissimo.
L’autore ringrazia sentitamente Ameno Blues Festival, Roberto Neri, Slang Music, Giancarlo Trenti e Fabrizio Chiarini per il prezioso aiuto nella realizzazione di questa intervista.
Foto di Nicola Riotti e Angela Megassini
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