In questa puntata recensioni dei dischi di Guy Davis, Nathan James & The Rhythm Scratchers, Francesco Piu, Ernest Lane, Malted Milk, Heritage Blues Orchestra, Luca Giordano e del libro “Blues –Una breve introduzione” di Elijah Wald
THE ADVENTURES OF FISHY WATERS:
IN BED WITH THE BLUES
SMOKEYDOKE , 2012
Il mio amico fraterno Guy Davis non è solo un grande chitarrista, banjoista, armonicista e cantante ma anche un attore di talento. Un talento nato in ambito familiare visto che Guy è il figlio di Ruby Dee e Ossie Davis, celebri attori, registi e attivisti per i diritti civili degli afroamericani. Da loro ha ereditato la passione per il teatro e questo nuovo lavoro, per certi versi sorprendente, ne è la conseguenza diretta. Una direzione diversa ma sempre nel solco della tradizione. D’altronde Guy è davvero il link più diretto a personaggi come Robert Johnson, Charlie Patton e Blind Lemon Jefferson.“The Adventures of Fishy Waters: In Bed with the Blues”, (Le avventure di Acque Pescose: a letto con il blues) è una vera e propria commedia con canzoni in formato audio. Si tratta di un doppio CD con brani musicali e storie (bellissime e affascinanti) che raccontano le avventure di un bluesman di fantasia, di un hobo, un musicista itinerante, Fishy Waters appunto, e dei suoi viaggi attraverso il sud degli States saltando da un treno merci all’altro per andare a suonare la propria musica ovunque.”Una buona storia – scrive Davis – può portarti dove non sei mai stato, farti incontrare persone che non conosci; farti andare lontano”. Oltre a brani originali scritti da Guy stesso, il lavoro comprende anche composizioni di nomi leggendari quali Robert Johnson, Reverend Gary Davis, Blind Willie McTell e Big Bill Broonzy. Davis mette in scena storie e canzoni vestendo i panni di Fishy Waters, che viaggiando sulle strade blu, le strade secondarie dell’America minore, incontra personaggi di ogni sorta in un vortice narrativo giocoso e ironico ma anche denso di mistero e di dramma. Sono storie che parlano di canzoni attorno al fuoco, di “beautiful losers”, di schiavi che scappano con cani feroci alle calcagna e vagabondi che rubano uova nei pollai per riuscire a mettere in bocca qualcosa. Storie che parlano di vecchiette che sanno cucinare un prelibatissimo pesce gatto stufato, di contrabbandieri di whisky dal cuore tenero, e di bachi da seta talmente ubriachi da riuscire a confezionare un paio di pantaloni in una sola notte. Racconti che si snodano tra le paludi infestate da insetti giganti tra Mississippi e Louisiana e storie di contadini che suonando l’armonica come il mitico Sonny Terry si fanno capire dai propri maiali. Storie di gente di campagna che lavora sodo per mantenere famiglie numerosissime e in cui l’unico sollievo è blues suonato da un vecchio zio. Storie a volte durissime che parlano di ragazzi impiccati, di Ku Klux Klan e di gente che deve ballare per salvarsi la vita al crocicchio, al cross road. Storie in cui peccato e redenzione camminano insieme. La bravura di Guy sta tutta nel riuscire a divertire e a commuovere anche l’ascoltatore che ha meno confidenza con la lingua inglese. Il suo modo di raccontare è affabile e diretto e per questo comprensibile anche a un pubblico non anglofono. Davvero le storie che Guy racconta sono come le favole che si raccontano ai bambini prima di addormentarsi, semplici ma piene di significato. Favole a volte tristi a volte divertenti ma sempre affascinanti. E allora lasciatevi tentare da un vero maestro del blues. Silenzio! Si alzi il sipario: va in scena il blues.
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Potete leggere una mia intervista a Guy Davis semplicemente cliccando qui:
http://www.chickenmambo.com/italiano/pagina_singola.php?id=25
NATHAN JAMES & THE RHYTHM SCRATCHERS
WHAT YOU MAKE OF IT
DELTA GROOVE MUSIC, 2012
Nathan James è un eclettico “one man band”. In compagnia della sua washboard guitar da lui stesso costruita (è quella in copertina), il suo piccolo set di percussioni, il suo kazoo e la sua armonica gira da quindici anni per il mondo, Europa compresa per trasmettere tutto il suo amore per la musica roots americana e il blues in particolare. Originario di San Diego California James a soli 19 anni entra a far parte della band di James Harman celebre cantante e armonicista. Oggi lo stesso Harman (ospite in una traccia del disco) dice di lui: “Dei sessantacinque e più chitarristi, tutti grandi, che ho avuto nella mia band dagli anni Sessanta ad oggi Nathan James è sicuramente il numero uno!”. Di lui hanno grande stima anche Kim Wilson e un collega bravissimo che risponde al nome di Rick Holmstrom (William Clarke, Rod Piazza, Mavis Staples). Nel 2007 in coppia con l’armonicista e cantante Ben Hernandez ha vinto l’International Blues Challenge la celebre competizione internazionale che si tiene annualmente a Memphis. Nel frattempo Nathan ha anche suonato con i già citati Wilson e Holmstrom ma anche con Pinetop Perkins, Billy Boy Arnold, Lazy Lester, Janiva Magness, Mark Hummel e Gary Primich.
In questo suo debutto per la Delta Groove, James mette insieme tutte le sue influenze musicali dimostrandosi efficace in ogni stile affrontato: si va dal Mississippi hill country blues ai suoni paludosi della Louisiana, dal sound delle jug bands dell’inizio del secolo scorso alle ballate tra pop ed errebì in perfetto stile New Orleans; e dallo swamp blues di Slim Harpo e Lazy Lester al southern soul striato di blues che si suona nei locali di Memphis e dintorni. Nel cd, come avrete capito estremamente variegato, trovano spazio persino un inaspettato valzerino country e un second line impregnato degli umori della Crescent City che si tramuta poi in un west coast shuffle tirato ed essenziale. Quasi tutti i quattordici brani sono suoi se si eccettuano una composizione di Harman, un brano di Blind Boy Fuller e un’altro di Jimmy McCracklin. Nathan James canta, suona la sua “Homemade Washtar Gitboard” (così la chiama lui e io mi adeguo) che usa sia come chitarra che come washboard e un altro strumento a tre corde chiamato “Tri-tar” nonché una chitarra baritono. Tutti bravi i musicisti che lo accompagnano: Troy Sandow basso, contrabbasso, armonica e cori; Marty Dodson batteria percussioni e cori; e Jonny Viau e Archie Thompson ai sassofoni. Sicuramente interessante.
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MA – MOO TONES
GROOVE COMPANY/VENUS, 2012
Con l’aiuto e i preziosi consigli del comune amico Eric Bibb, gigante del blues contemporaneo, Francesco Piu dà alla luce un ottimo disco in cui tutti i suoi numerosi talenti vengono espressi al meglio. Francesco suona ogni tipo di chitarra, dall’elettrica all’acustica passando per dobro, banjo, weissenborn e lap steel.
Soffia proficuamente dentro all’armonica e soprattutto canta in maniera straordinariamente convincente. Non so a quale cross road sia stato, né tantomeno se come Robert Johnson Francesco abbia venduto l’anima al diavolo, fatto sta che la sua voce è cresciuta tantissimo sino ad arrivare a vette emotive che spesso solo gli artisti afroamericani riescono a raggiungere. Insomma, in questo suo nuovo lavoro Piu canta come un nero e questo, comunque la pensiate, è un gran bel complimento! Ad affiancarlo in questo suo terzo disco due eccellenti musicisti da alcuni anni con lui: Davide Speranza assolutamente strepitoso all’armonica e Pablo Leoni solido, fantasioso e capace dietro ai tamburi. Lo stesso Bibb ha suonato la sua chitarra baritono in un brano aggiungendo un tocco di classe a un disco davvero impeccabile. Alla stesura dei testi, sempre profondi e pieni di significato, ha collaborato il cantautore milanese Daniele Tenca molto bravo nel sintetizzare in versi l’universo musicale del bluesman sardo. Le undici tracce dell’album contengono come sempre tutte le anime di Più. Il lavoro si apre con il rock duro e arrabbiato (anche nel testo) di “The end of your spell” dove a rompere l’incantesimo ci sono batteria, chitarra slide e un’armonica che richiama gli incredibili voli pindarici di Sugar Blue e John Popper. Dentro a questo brano ci sono tante sonorità miscelate sapientemente da Più la cui voce viaggia sulle strade lastricate di blues, soul e gospel percorse da Ben Harper e Keb’ Mo’. Se Francesco fosse americano questo brano e questo disco sarebbero sicuramente in vetta alle classifiche della musica nera d’oltreoceano. Il secondo brano “Over you” è un funky targato Mississippi con armonica e dobro in bell’ evidenza; mentre la seguente “Trouble so hard” è un vecchio gospel pieno di pathos che viaggia tra psichedelia e spiritualità. Il brano numero quattro è un bel reggae blues alla Taj Mahal ; mentre la successiva “Blind track” è una ballata roots con la stupefacente armonica di Speranza in primo piano a suonare una cascata di note che toglie il fiato. Con la traccia sei siamo dalle parti del country con un tiratissimo assolo di Francesco in perfetto stile bluegrass; un brano che introduce “Stand-by button” un deciso rock blues con il banjo a incrociare armonica e percussioni. Il disco si avvia alla conclusione con quattro brani davvero superbi: “Overdose of sorrow” pezzo d’atmosfera con l’importante contributo di Bibb e un bel lavoro di percussioni da parte di Leoni assoluto protagonista anche nella successiva “Down on my knees” ballata tra southern rock, gospel e New Orleans sound con un contagiosissimo tempo alla Bo Diddley; “The soul of a man” di Blind Willie Johnson in versione hendrixiana e deltaica (prezioso il lavoro del washboard) e, sempre parlando di Hendrix, (che Francesco adora), in chiusura una toccante versione in solitaria di “Third stone from the sun” a concludere un album che si vorrebbe non finisse mai. Il disco è stato sapientemente registrato da Dario Ravelli e altrettanto sapientemente mixato da Federico Bianchi, due ingegneri del suono esperti, competenti e con un grande cuore. Bella anche la copertina curata dal geniale Antonello Sedda che coglie perfettamente lo stile semplice e disarmante di un artista per il quale, penso si sia capito, nutro da molti anni una profonda e sincera ammirazione. Vorrei chiudere la recensione con una frase famosa nel mondo del rock, una frase che secondo me ben si adatta alla situazione: ho visto il futuro del blues e il suo nome è Francesco Piu. Così sia.
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72 MILES FROM MEMPHIS
ACOUSTIC MUSIC RECORDS, 2012
Magari non è famosissimo eppure Ernest Lane pianista e cantante, classe 1931, da Clarksdale Mississippi (a 72 miglia da Memphis) è in giro da tanto tempo. Suo padre John suonava anche lui il piano ed era grande amico del leggendario Pinetop Perkins. Pinetop era spesso a casa dei Lane e talvolta insegnava i primi rudimenti del piano blues al piccolo Ernest che, ben presto, divenne anche lui un brillante pianista. Ernest a sua volta, con estrema generosità, mostrava i trucchi che Pinetop gli aveva insegnato a un suo compagno di giochi, un certo Ike Turner; uno che quando molti anni dopo metterà su una band con la moglie Tina chiamerà proprio l’amico Ernest a sedere dietro al pianoforte. Ernest prima di entrare nella band di Ike e Tina si era fatto le ossa suonando con il mitico Robert Nighthawk. Con lui incise anche diverse tracce per la Chess di Chicago. Nella Windy City Lane suonò spesso con Earl Hooker e con il batterista Kansas City Red, prima di intraprendere una carriera solista che lo portò ad esibirsi in tutti i juke joint del Sud. Per un breve periodo diventò anche ospite fisso del celebre programma radiofonico “King Biscuit Time”. A inizio anni Sessanta Lane decide di trasferirsi in California dove incontra di nuovo il suo amico Ike che lo invita ad unirsi alla sua formazione. Il resto è storia. Dopo alcuni anni on the road con la band di Ike e Tina, Lane decide di averne abbastanza di quella vita da vagabondo sempre in viaggio da una città all’altra e intraprende nuovamente la carriera solista fondando i Goodtimers un gruppo di bravi musicisti che per un po’ di tempo diventeranno persino la back band dei Monkees. Nello stesso periodo incide e suona dal vivo con i Canned
Heat . Lane lascia l’attività musicale a metà degli anni Settanta quando decide di mettere su famiglia e di trovarsi un lavoro “regolare” a Santa Monica. Il pianista che è dentro di lui resiste quindici anni lontano dalla musica ma agli inizi degli anni Novanta il richiamo della musica è troppo forte e quando il suo vecchio amico Ike lo richiama nella propria band i Kings of Rhythm Lane non si lascia scappare l’occasione di tornare alla sua vecchia passione: suonare il blues.
Quando nel 2007 Ike scompare, Lane decide di mettersi alla testa del suo gruppo rimasto senza leader. E proprio con loro nel 2008 a Los Angeles incide questo disco in cui l’esperienza di una vita viene fuori prepotentemente. Down home, Chicago, e New Orleans blues, Boogie Woogie, Soul, R&B e Funky sono gli ingredienti della sua ricetta sonora, Nonostante l’età avanzata Lane suona e canta con la freschezza di un ragazzino ben coadiuvato da una band compatta in cui spicca la formidabile tromba (per anni al fianco di James Brown) di Mack Johnson.
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GET SOME
DIXIEFROG, 2012
Se avete letto il mio “Angeli perduti del Mississippi” saprete certamente che “Malted milk” era il titolo di una celebre canzone di Robert Johnson e che quest’espressione nel linguaggio cifrato dei bluesmen era sinonimo una bevanda composta da latte abbondantemente corretto con whisky. Da adesso in poi, saprete che Malted Milk è anche il nome di uno strepitoso gruppo francese dedito al soul e all’errebì. Di solito scrivo che noi italiani a suonare la musica nera non siamo affatto male. Anzi in qualche caso siamo proprio bravi. Ebbene la stessa cosa vale per i nostri cugini d’oltralpe e se non mi credete andate a cercarvi questo disco, mettetelo sul lettore e fatevi graffiare l’anima da uno dei più autentici suoni Stax e Motown che mi sia capitato di ascoltare da qualche anno a questa parte. Dimenticatevi che sono francesi perché davvero quando sentirete le loro canzoni stenterete a credere alle vostre orecchie: il loro sound è maturo e intrigante e forse è solo per un terribile sbaglio che questi bravissimi musicisti siano nati nei dintorni della Tour Eiffel e non come sarebbe stato più giusto a Memphis o a Detroit. I dieci brani di questo album sono tutti originali e ben costruiti e la perizia strumentale della band è fuori discussione. I Malted Milk hanno imparato molto bene la lezione impartita loro da grandi come Otis Redding, Wilson Pickett, Solomon Burke, Howard Tate, Marvin Gaye, Curtis Mayfield, James Brown, Al Green, Bobby Bland e Little Milton: l’hanno imparata così bene da riuscire a tirare fuori un sound che omaggia sì i loro leggendari eroi, ma lo fa con grande gusto, eleganza, passione e originalità. Obbligatorio citare tutti gli straordinari componenti della band a partire da Arnaud Fradin eccellente cantante dotato di una vocalità assolutamente nera e ottimo chitarrista (alla Steve Cropper naturalmente); per continuare con Igor Pichon al basso e cori, Yann Cuyeu alla chitarra, Gilles Delagrange alla batteria, Nicolas Mary alle tastiere e ai cori, Silvayn “Sly” Fetis al sax e al flauto, Franck Bougier alla tromba e alle percussioni, Vincent Aubert al trombone. Ciliegina sulla torta, le belle voci di Julie Dumoulin e Laurence Le Baccon anche protagonista di un duetto nell’ultimo brano dell’album. Che dire di più? Vive la France!
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BLUES –UNA BREVE INTRODUZIONE
EDT, 2012
A volte ci sono persone che nulla o poco sanno di blues, che mi chiedono di consigliargli un buon libro sull’argomento. Un libro semplice, diretto e scorrevole che ne racconti in maniera non accademica storia, protagonisti e sviluppi. Non potendo, per ovvie ragioni etiche, suggerire cose da ma scritte, ho spesso difficoltà a suggerire volumi che accompagnino il neofita sulle strade del blues. Non che manchino eccellenti libri in Italia sull’argomento, ma la maggior parte di essi sembrano rivolti principalmente ad un pubblico che già conosce piuttosto bene l’argomento. “Blues –una breve introduzione” di Elijah Wald sembra colmare al meglio questa lacuna fornendo informazioni e indicazioni a tutti coloro che vogliono avvicinarsi a questo straordinario genere musicale complice anche l’ottima traduzione dall’inglese di Marcello Piras. Conoscevo già Elijah Wald, musicista e insegnante di Storia del Blues all’Università della California di Los Angeles, per il suo prezioso “Escaping The Delta” e so quanta passione e accuratezza ci sia dietro ai suoi lavori, e questo suo nuovo libro ne è un’ ulteriore riconferma. L’autore prende per mano il lettore e lo porta sulle strade del blues diventando una bussola preziosa per non perdersi nelle strade della storia di quello che ormai è diventato un linguaggio internazionale. Il libro ci aiuta a far luce su come il blues si sia evoluto attraverso gli anni offrendo diverse interpretazioni a coloro che l’hanno studiato, amato, ascoltato, suonato. Wald ci descrive influenze e contaminazioni attraverso la storia di un genere che più di ogni altro ha avuto un’ascendente formidabile sulla musica di tutto il Novecento. Lo fa partendo dalle sue radici in Mississippi raccontando di come dai canti di lavori e dagli spirituals sia nata una musica capace di guarire tutte le tristezze. Ne segue poi sviluppi e evoluzioni addentrandosi persino nel ruolo del blues nel country e nel jazz. Il libro è quindi di sicuro interesse non solo per i nuovi seguaci (come il titolo potrebbe magari suggerire) ma è un utilissimo compendio anche per gli studiosi più navigati.
Wald infatti svela e spiega teorie e scoperte per certi versi inedite e sorprendenti e soprattutto fa piazza pulita di stereotipi, luoghi comuni e teorie ormai vecchie, consunte e prive di fondamento. Ecco perché questo libro non deve mancare nella biblioteca di ogni appassionato di blues che si ritenga tale. Caldamente consigliato!
AND STILL I RISE
RAISIN’ MUSIC, 2012
Il blues non morirà mai perché cambia in continuazione restando sempre uguale a se stesso. In questo disco c’è davvero tutto il blues che è stato suonato negli ultimi cent’anni nei crossroads di tutto il mondo. Di questa band Taj Mahal ha detto: “La Heritage Blues Orchestra è la nuova ed eccitante faccia del blues! Elegante,
favolosa e rigenerante”. Taj Mahal ha visto giusto: il nuovo cross road parte da qui.
La differenza in questa band che fa base tra New York e la Francia la fanno un batterista che sta definendo la batteria blues del nuovo millennio, una sezione fiati da paura che ha lavorato con Wynton Marsalis e Bruce Springsteen; e tre musicisti afroamericani che cantano e suonano il blues come non si sentiva da anni. Ma conosciamoli più da vicino: Bill Sims Jr. chitarra elettrica e acustica viene dalla Giorgia ed è da tantissimi anni sulla strada del blues. Ha lavorato molto per il cinema (American Gangster e Cadillac Records ad esempio) e per la televisione pubblica americana; sua figlia Chaney, giovane cantante che si è fatta le ossa nei migliori locali jazz e blues della Grande Mela collaborando con artisti del calibro di Odetta, Bernard “Pretty” Purdie e Guy Davis;Junior Mack alla chitarra e al dobro che ha imparato a suonare sui dischi degli Staple Singers, Lightnin’ Hopkins e B.B. King e che ha diviso il palcoscenico e lo studio con Allman Brothers Band, Derek Trucks, Robert Randolph, Dickey Betts, Chaka Khan, Magic Slim, Joe Louis Walker, Honeyboy Edwards, Phillip Walker, Lucky Peterson, Eddie Kirkland, Jeff Healy e tanti altri. Dietro ai tamburi c’è Kenny “Beedy Eyes” Smith, figlio dello scomparso Willie “Big Eyes” storico batterista di Muddy Waters, insomma una garanzia di drumming solido ed energetico. Completano la formazione Vincent Bucher strepitoso armonicista d’oltralpe e una sezione fiati da favola composta da Bruno Wilhelm (anche lui francese) al sax, Kenny Rampton e Steve Wiseman alle trombe, e Clark Gayton trombone, bombardino e basso tuba. Lo stesso Wilhelm ha arrangiato la sezione con gusto e inventiva assolutamente straordinari. Il disco inizia con una strepitosa “Clarksdale moan” di Son House e già chitarre e voci ci portano direttamente in Mississippi, in un luogo indefinito tra Delta e Hill Country mentre i fantasmi di John Lee Hooker e Robert Johnson aleggiano nell’aria, e una brass band fuggita da New Orleans detta legge su un ritmo di batteria semplice e sconvolgente allo stesso tempo. Tradizione e tempi moderni. Il tutto nello stesso brano. Anche Corey Harris nel suo bel primo disco aveva tentato di coniugare il Delta blues con i fiati e le marching band di New Orleans, e in parte c’era riuscito anche molto bene; qui però siamo a un livello molto, molto più alto. La traccia due “C-Line woman” ci riporta indietro di trecento anni e forse addirittura su una nave negriera che trasportava gli schiavi in America. I tamburi di Smith e la voce della Sims sono da brivido. Le radici del blues sono qui. Questo traditional era già stato eseguito tra gli altri e in maniera più che egregia da Nina Simone e dagli Ollabelle, ma qui il brano raggiunge un climax emotivo davvero coinvolgente. Si prosegue con “Big Legged Woman” un country blues made in Mississippi con i fiati e l’armonica ospite di Matthew Skoller a farla da padrone. Ascoltandolo ho pensato:”Ecco cosa sarebbe successo se Muddy Waters a Chicago avesse inserito nel suo blues campagnolo una sezione fiati anziché una chitarra elettrica e un’armonica distorta!”. E a proposito di Muddy Waters è proprio a lui che appartiene la seguente “Catfish blues”. Qui a dominare c’è l’armonica distorta alla Little Walter di Bucher, gli ottoni in gran spolvero (mi sono venuti in mente alla riunfusa i Tower of Power, Miles Davis , Charles Mingus, Count Basie e i Roomful of Blues); e una voce che verso la fine ulula come Howlin Wolf. Il brano cinque è uno di quelli che mettono i brividi. Si tratta di “Go down Hanna” portata alla luce da Leadbelly e qui interpretata così come deve essere nata. Dopo un intro dei fiati davvero evocativo parte un canto disperato tra spiritual e work song mentre le grida ritmiche e corali di una chain gang squarciano l’aria. Le radici del blues sono anche qui. Potrei continuare a descrivere minuziosamente ogni brano ma non voglio togliervi la sorpresa e forse ho già scritto anche troppo. Di gran pregio, comunque, anche gli altri brani del disco e in particolare “Get right Church” sorretto da una bella slide, voci sublimi e un ritmo inarrestabile; “Don’t ever let nobody drag your spirit down “, grande pezzo di Eric Bibb qui reso in maniera formidabile; “Going Uptown” ciondolante come la testa di un mulo in un pomeriggio assolato in Mississippi” e lo spiritual “Chilly Jordan” splendido spiritual tra Staples Singers e Mississippi John Hurt. Chiude il tutto un brano magnifico di quasi otto minuti. Si tratta di una piccola suite: la prima parte è composta da un pezzo per sola chitarra e voci, una canzone che parlando di tempi difficili tocca e commuove (e qui si sente la lezione degli Staples Singers).La seconda parte è un interludio che sembra uscito dalle strade del quartiere francese di New Orleans dove una tipica marching brass band di ritorno da un funerale suona un lamento jazz tra Miles Davis e John Coltrane. La terza parte è un indiavolato hill country blues che la sezione fiati porta verso un funky alla James Brown potente e convincente. La storia del blues che c’è stata e la storia del blues che verrà, tutta in solo disco. Conviene!
Per saperne di più:
www.heritagebluesorchestra.com
MY KIND OF BLUES
AUDACIA, 2011
Luca Giordano è un chitarrista coi fiocchi e ha un curriculum da paura. Musicista maturo, completo e di livello internazionale, l’eccellente strumentista abruzzese, classe 1980, ha suonato nei migliori festival italiani e internazionali al fianco di grandi artisti blues. Nel 2005 si è trasferito Chicago per studiare con Chris Cain e suonare in alcuni dei più famosi locali Blues della Windy City come il Buddy Guy’s Legends, il Rosa’s, l’House of Blues e il Kingston Mines. L’anno seguente, il 2006, sempre a Chicago, Luca collabora con Sharon Lewis e James Wheeler arrivando ad esibirsi persino al prestigioso Chicago Blues Festival insieme alla leggendaria band di Muddy Waters composta da Willy “Big eyes” Smith alla batteria, Calvin “Fuzz” Jones al basso e Bobby Dixon (figlio di Willie Dixon) al piano. Giordano è stato in tour con Shirley King, Nelle Tiger Travis, Chris Cain (suo grande idolo e maestro) e con il grande Sax Gordon Beadle. Sempre in viaggio tra gli States, l’Europa e l’Italia, il chitarrista teramano ha anche condiviso il palco con Eric Guitar Taylor, Jimmy Burns, Big Jack Johnson, Billy Branch, Bob Stroger e Carlos Johnson. “My Kind of Blues” frutto delle esperienze maturate su entrambe le sponde dell’Oceano Atlantico è un gran bel disco. Egregiamente prodotto dallo stesso Giordano l’album registrato tra Italia e USA, offre 14 brani, uno più bello dell’altro, per settantasei minuti di grande musica. Tutti di grande caratura i musicisti che affiancano Giordano: Fabio Colella alla batteria e Walter Cesarani al basso (sicuramente una delle migliori sezioni ritmiche italiane che mi sia capitato di ascoltare ultimamente); Fabio Angelozzi all’ Hammond, Fabrizio Mandolini al sax e Alessandro di Bonaventura alla tromba. Tanti e di estrema levatura gli ospiti, a partire dal formidabile Pippo Guarnera al piano e all’organo vero coprotagonista dell’opera insieme all’esaltante sax di Gordon Beadle. A loro si affianca Bob Stroger vera e propria leggenda dell’ “old school Chicago sound”. Stroger è uno che ha fatto la storia del blues e qui si esprime non solo al basso ma anche alla voce con una performance davvero convincente. Altri ospiti di vaglia comprendono Chris Cain sempre grandissimo alla chitarra e alla voce, la bella vocalità nera di Linda, Quique Gomez all’armonica, Martin Binder (ex batterista di Albert Collins) e Harlan Terson bassista di Otis Rush. Il disco mette in luce tutti i talenti di Giordano che si dimostra un chitarrista davvero sopraffino in grado di “parlare” tutti i linguaggi del blues. L’album si apre con “Extra Jimmies” omaggio al “less is more style” di Jimmie Vaughan con la sezione fiati in evidenza e un assolo da paura di Sax Gordon in perfetto stile honkers; per proseguire con uno shuffle di Jimmy Rushing in cui Luca si dimostra anche efficace cantante mentre duetta amabilmente con la chitarra di Chris Cain e l’ottimo piano di Guarnera. “Going to Chicago” vero hit dell’orchestra di Count Basie vede Bob Stroger al basso e alla voce e lo stesso Luca a sciorinare un bell’assolo in cui l’esperienza maturata a Chicago si fa sentire prepotentemente. Il brano numero quattro è tra i più affascinanti dell’album. Si tratta di una soul ballad strumentale tra blues e jazz in cui spicca il preziosissimo lavoro di Guarnera. Un gioiellino languido e notturno suonato da Giordano in punta di dita. La traccia cinque a firma Bob Stroger vede lo stesso protagonista al basso e al canto. Si tratta di uno shuffle tinto di jazz con l’organo di Franco Angelozzi sugli scudi. “Right Place, Wrong time” è uno slow blues ben sottolineato dalla sezioni fiati in cui la scuola cara a Otis Rush, Buddy Guy e Jimmy Rogers si fonde perfettamente con lo stile personale di Luca, uno stile scintillante che illumina anche la successiva “Tippin at Taylor’s” con un assolo da applauso di Sax Gordon. Giordano si dimostra anche un validissimo compositore (e sono sicuro che nel futuro ce lo dimostrerà ancora di più) con il brano che dà il titolo all’album, bella ballad blues con accenti jazz, suadente e crepuscolare, con un efficace crescendo sul finale. Il cd prosegue con un pezzo lento scritto da Chris Cain che qui si propone in veste di consumato crooner con una bella voce alla Big Joe Turner. Da sottolineare il lavoro di Guarnera, vero protagonista anche del brano seguente, uno strumentale dove l’anima funky jazz di Giordano esce fuori prepotentemente e dove George Benson, B.B. King e Robben Ford si stemperano nel sound fluido e versatile di Luca. Chiude l’album (o almeno la parte “ufficiale”) una rumba, ancora tra blues e jazz, elegante e raffinata con un assolo di piano da manuale. Ma il disco non finisce qui perchè Giordano ci regala ben tre bonus tracks: un bel brano di Tommy McClennan cantato da lui e guarnito da una bell’armonica alla Little Walter, “King of the jungle” del mai troppo osannato Eddie C. Campbell e “Oh Pretty woman” con due ospiti davvero eccezionali: la cantante Linda e il mitico Vince Vallicelli alla batteria.
Bella la veste grafica ideata da Marco Di Gennaro e ottima la resa sonora curata da Giuseppe Stornelli e Fabio Colella. Fate vostro questo disco e non ve ne pentirete!
Per saperne di più e acquistare il disco:
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