In vecchie mie recensioni di dischi di Rosa Balistreri, straordinaria e rimpianta testimone dell’oralità canora siciliana, ricordo di aver citato le parole del grande poeta di questa terra, Ignazio Butitta: “un populu diventa poviru e servu quanno ci arrobbanu (rubano) a lingua adduttata (ricevuta) di patri: è persu pi sempri”. Conservare la tradizione linguistica, magari utilizzandola e adeguandola a temi espressivi nuovi e più ampi, è una dei compiti più importanti per coloro che vedono nel dialetto una grande risorsa evocativa e non, come spesso è successo nel passato, un limite comunicativo. Un compito che non spetta solo a poeti come Butitta o a scrittori come Camilleri, ma anche ai gruppi musicali che sanno arricchire la lingua, con la sua musicalità fatta di accenti e inflessioni, di accenti e ritmi musicali.
Quando poi ritmi e melodie, anche senza necessariamente utilizzare solo stilemi musicali di tradizioni passate, si sposano felicemente con la lingua, quando sanno arricchirla di nuovi echi e sanno sapientemente raccontare insieme alle parole, allora ha senso fermarsi, come ho fatto io, e voler riascoltare arrè, “ancora, di nuovo”, le tracce di un cd che gira vorticosamente e sembra non volersi fermare. E magari ha senso assegnare, come giornale, il nostro bollino di qualità, il nostro Fbis!, ad un lavoro che riteniamo importante e significativo.
I Lautari sono un gruppo di Catania nato negli anni ottanta e con all’attivo cinque dischi, i cui due ultimi (Anima Antica e Arrè) sono stati pubblicati con l’etichetta della loro compaesana Carmen Consoli. Ma non è attraverso Carmen che sono arrivato a conoscere Arrè: alla musica leggera italiana lascio un piccolissimo spazio del mio ascolto musicale. Vi sono arrivato attraverso un concerto in cui i Lautari, che si presentavano con un validissimo sestetto di strumenti acustici (mandolino, chitarra, flauti, ottoni, contrabbasso, fisarmonica,…), mostravano non solo di saper tenere il palco, cosa che spesso invidiamo ai gruppi del centro-sud Italia, ma di saper comporre e arrangiare con un intelligenza altrettanto invidiabile.
Il disco è tutto questo. Undici brani – la maggior parte composti dai componenti del gruppo – con una liricità che non è mai superficiale, ricca di echi di una tradizione di un Sud del mondo metaforico, fatto di semplici ma bellissime storie. Da quella di malavitosi sconosciuti a quella di un eroe siciliano del nostro tempo, Peppino Impastato. Dal pupo Orlando che, nella Chanson de Roland, va incontro alla morte ad un tradizionale canto di una picciuttedda che grida il suo dolore.
Il brano forse più conosciuto e più affascinante dell’intero lavoro è Malarazza, un omaggio al grande Modugno, che negli anni ‘70 musicò questo testo popolare con grande successo. Il brano, accompagnato anche dalla voce di Carmen Consoli, racconta il lamento di un servo che davanti al crocifisso piange la sua condizione di schiavo. Sarà proprio il Cristo del crocefisso a esortarlo a non lamentarsi ma a combattere per opporsi al destino prendendo lu bastoni e tirando fuori li denti.
Tiziano Menduto
Lascia un commento