di Nicola Cossar
Intrics, in lingua friulana, è un sostantivo dalle molteplici sfaccettature: significa intrighi, intrecci, garbugli, ma anche ostacoli, difficoltà, fastidi. La vita, insomma, declinata in tutti i suoi colori, in tutti i suoi suoni. Mille idee, mille storie ed emozioni da raccontare e mettere su disco. In oltre trent’anni di musica, di dischi i Carantan (campo base creativo Ragogna, in provincia di Udine) ne hanno pubblicati pochi, ma lo hanno fatto sempre quando ritenevano di aver qualcosa da condividere. Tanto per dirla alla maniera di Leonard Cohen.
Glauco Toniutti (voce, violino, cornamusa, mandolino e cucchiai), storica colonna del gruppo assieme a Stefano Durat (armoniche diatoniche), è molto soddisfatto di questo Intrics, che mette insieme brani nuovi e pezzi collaudati in centinaia di concerti in giro per il Friuli e l’Italia: Questo lavoro – precisa – rappresenta una singolare antologia, un intreccio, appunto, dei percorsi seguiti dai Carantan negli ultimi dieci anni e nell’alternarsi di tanti amici nella formazione, che oggi, oltre a me e a Stefano, comprende Andrea Barachino (chitarre ed eccellente autore) e Carolina Zanello (violoncello). Così, in questo disco abbiamo voluto anche Martina Bertoni (violoncello), Nicoletta Sedran (voce), amiche di sempre, e Claudio Luci (percussioni), cui si aggiunge il prezioso contributo poetico finale di Paolo Venti.
Dieci brani, cinque tradizionali e cinque di Andrea (che ne firma uno, Lubenice, insieme con Glauco).
Vediamo i pezzi di matrice popolare, naturalmente rielaborati. L’ottocentesco E l’istât a jé passade proviene dall‘Incarojo, la valle carnica di Paularo, mentre La bella giardiniera, storia di amori, tradimenti e vendette dalla infinite varianti, qui è proposta nella versione che ne diedero due leggendari suonatori di Ragogna come Gjovanin Ghitare e Aldo di Stibel. Per chi ama il ballo c’è Pàiris suite, doppio brano che ai colori di una scottish veneta accoppia con ottimi risultati una versione friulana e istriana dei Siet pas. Ritroviamo l’Istria più tradizionale – e due pezzi in uno – anche nella strumentale Saltins. Molto attento alle varianti popolari, il gruppo friulano ci regala una bella rilettura di America America, che dobbiamo a Valerio Monticolo di Ragogna, intitolata Crajova: in essa si racconta la piccola epopea della migrazione friulana in Romania nella seconda metà dell’Ottocento.
Poi ci sono i brani d’autore. La citata Lubenice fa riemergere dal mare del tempo ricordi chersini degli anni Novanta. Volte che tiere è un serenata d’amore, nello stile dell’invito, che mescola con eleganza e brio romanticismo e gentile passionalità. Ha tante radici popolari anche La ballata dell’impiccato, storia di una donna che per liberare il marito si concede – inutilmente – al tiranno (ricordate il giudice di Seven curses maledetto da Bob Dylan?). Quanto mai attuale, visti gli scenari delle migrazioni epocali che stiamo vivendo, è sicuramente Cuart di lune, dove un lui e una lei cercano scampo – e futuro – dalle incursioni turche che nel 1500 insanguinarono il Friuli (le cantò anche il giovane Pasolini nei suoi Turcs tal Friûl). Il congedo è affidato ai colori bretoni di Fieste di gnot: lontane eppur vicine radici di danza si mescolano con la voce poetica di Paolo Venti, per farci ballare ancora…
Con Glauco abbiamo ragionato e discusso a lungo del rapporto dei Carantan con la tradizione e della capacità di innovarla fedelmente con riletture ma anche con brani orignali. Credo che sia un passaggio obbligato – spiega il polistrumentista di Ragogna caput mundi -: dalle radici al nuovo. Soltanto così la nostra musica ha un senso. E, mi spiace dirlo, qui in Friuli siamo fermi. Tantissima gente riproduce brani popolari, ma quanto ci mette di suo? Quanto rischia? Perché non si ascoltano e non si seguono di più i gruppi stranieri nella loro vitale rigenerazione delle radici? Pensiamo ai britannici, ai bretoni, agli spagnoli e ai balcanici. Sanno restituire freschezza a cose che altrimenti sarebbero soltanto begli oggetti da mettere in bacheche buie, e polverose e… inutili. Pensa che, per provocare, avevamo anche un progetto di spettacolo intitolato La crosere dal nuje, che significa L’incrocio del niente! Poi ci siamo detti: meglio di no, porterebbe sfortuna, a tutti! Ma, ribadisco, qui un rapporto fecondo con la tadizione è fermo, si continua a procedere per stereotipi, per fotocopie sonore. Pochi hanno il coraggio di reinventarla e l’accesso alle fonti (vedi biblioteche) non è mai dei più agevoli. Non è una critica sterile, la mia, quanto, piuttosto, una dichiarazione d’amore per le radici, nonché un appello a tutti coloro che fanno musica popolare: cominciamo ad approfondirla e a vestirla del nostro sentire. Abbiamo tutti preso la sbronza celtica, inutile nasconderlo, però è passata e ora siamo chiamati a scrivere testi nuovi, a portare nel futuro una musica che amiamo e di cui andiamo orgogliosi.
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