“Nes Gadol Haià Sham”. “Un grande miracolo avvenne là”: sono le parole che la trottola (dreidel) usata dai bambini ebrei durante la festa di Chanukkà, fermandosi, riporta agli ingenui occhi dei suoi giovani ed entusiasti utilizzatori. E questa volta il miracolo di una delle musiche più eclettiche e malleabili, sagge e (forse per questo?) nomadi che la nostra epoca conosca si è riprodotto a Verona, dove sei musicisti coscienti e preparati hanno da qualche anno ripreso a giocare. Nell’accezione della Meshuge (“matta”) suonare musica klezmer significa proprio far girare quella trottola: sapendo che porta con sé grandi tradizione e cultura ma provando ad indovinare quando e dove andrà a fermarsi ed a lasciare il suo rassicurante messaggio.
E la metafora non fa una grinza: è difficile, anche ponendosi come semplice ascoltatore, non identificarsi con i protagonisti del gioco e provare a scovare le citazioni ed i riferimenti che vorticosamente si susseguono ad un ritmo che non ci permette di fermarci a meditare; l’ironico, il tragico, il malinconico, il serioso sono tutti stati d’animo che si fondono e sfuggono, lasciando solo il ricordo di sé a chi cerchi di identificarli.
Per riuscire in ciò occorreva certamente una preparazione musicale più che buona che i Nostri dimostrano di avere accampando tutta una serie di curricula per nulla indifferenti: la banda che il “rebbe“ Andrea Ranzato (fisarmonica) ha riunito è figlia della migliore scena giovanile jazzistica veronese, con l’eccezione della violinista che denuncia una formazione più classica. C’è, inoltre, nella storia della Meshuge Klezmer Band, una memorabile serata del 1997 al PalaVobis di Milano davanti ad 8000 persone etnicamente molto assortite in cui, in qualità di vincitore del concorso “Ma che razza di musica” organizzato da Popolare Network, il gruppo fece il suo primo meritato “bagno di folla”. Un bagno di folla da poco ripetutosi poiché nientemeno che David Krakauer li ha di recente invitati a suonare al Tonic di New York, tempio del klezmer mondiale.
C’è molto in questo disco d’esordio: ci sono l’ascolto, l’approfondimento, l’interiorizzazione delle registrazioni storiche (da Naftule Brandwein a Max Shopnick passando per Mickey Katz ed Abe Bellstein), c’è l’attenzione al presente (John Zorn), ma c’è soprattutto la volontà di rileggere, reinterpretare, ripensare e ri-suonare delle musiche che contengono nel loro codice il gene della creatività e dell’invenzione.
Sentire, per credere, il folgorante inizio dell’album, dove una Alter Bulgar diviene Alter-native attraverso il repentino ingresso dell’aggressiva chitarra elettrica di Fabio Basile, mentre quasi disperatamente il violino di Maria Vicentini ed il sax soprano di Roberto Lanciai si aggrappano alla melodia tradizionale; il tutto mentre la batteria di Zeno De’ Rossi coglie timbricamente l’ironia del contrasto. Oppure soffermatevi sui chiaroscuri di Odessa Bulgar, dove il ricordo di una città viva e colta, ultimo porto dell’Oriente e primo dell’Occidente verso l’Europa Centrale, scandito da una chitarra questa volta cristallina, quasi “tropicalista”, si scioglie nel buio presente dell’espressivo contrabbasso di Stefano Corsi, capace di ricordare nuovamente che il mare che sta di fronte è Nero. Ed il gioco delle parti si ripete così per tutto il tempo, con la compassata fisarmonica di Andrea Ranzato (autore anche delle note scritte che accompagnano il disco) che ricopre il ruolo di punto di riferimento per le continue scorrerie jazzistiche del sax e della camaleontica chitarra (capace di ricordarci, oltre agli inevitabili Frisell e Metheny, perfino la liquid guitar di Steve Hillage dei Gong), mentre la sezione ritmica si affida più alla ricerca timbrica che all’esibizione tecnica. Un discorso a parte merita lo splendido suono del violino, un po’ l’anima pulita del disco: “testimone impaziente e garante inquieto di un filo ininterrotto nel tempo”. Se una critica si può muovere ai sei klezmorim veronesi la si può riassumere in un “forse si poteva osare di più!”; viste le capacità del gruppo e visto l’ambito estremamente ampio in cui dimostra di sapersi muovere probabilmente si sarebbe potuti andare anche oltre nel cammino verso la rottura degli schemi di una musica che sembra fatta proprio per questo. Ma, non c’è dubbio, sarà per il prossimo lavoro.
Alberto Stanghellini
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