a cura di Andrea Del Favero
F. B. – Di questo tuo libro si è detto che va a colmare una lacuna. Contrariamente al mondo del rock e del jazz, nel folk non ci sono molti libri che parlino dei musicisti, della loro formazione musicale e culturale, della loro storia, delle loro esperienze. E’ corretto?
R. T. – Non ci sono nemmeno libri che raccontano il folk revival italiano dagli anni Ottanta ad oggi. Una lacuna culturale gravissima che spero venga colmata al più presto. Il folk con tutte le sue ramificazioni ha avuto un forte impatto sulla scena musicale degli ultimi anni, sia fornendo al jazz nuove fonti e modelli su cui improvvisare, sia colorando la canzone d’autore, sia creando nuove commistioni con il rock e della musica elettronica. I gruppi italiani hanno suonato e suonano alla pari degli stranieri nei festival di tutto il mondo, la produzione discografica è stata fiorente sia da un punto di vista numerico sia da quello qualitativo, i musicisti folk sono usciti dall’ambito ristretto della propria musica e sono capaci di dialogare con musicisti delle più diverse tendenze e stili. E’ il momento di far sapere che esistiamo e che siamo un movimento musicale importante.
F. B. – Un libro intero che parla di te… ti entusiasma o t’imbarazza?
R. T. – All’inizio l’idea mi imbarazzava, ora invece ne sono contento, perché Neri Pollastri ha fatto un ottimo lavoro, sia nella costruzione del libro sia nello stile di scrittura. Ha saputo raccontare con semplicità e chiarezza il mio percorso musicale, il perché delle mie scelte, le ragioni che stanno dietro ad ogni album, offrendo allo stesso tempo uno spaccato delle varie tendenze che in tutti questi anni hanno attraversato e caratterizzato il folk revival.
F. B. – Ci sono molti ragazzi giovani che ci leggono che non conoscono la temperie culturale e i personaggi che abbiamo incrociato ai nostri inizi… Hai voglia di raccontarci qualcosa di quei tuoi primi anni, di Caterina, del movimento folk dell’epoca?
R. T. – All’epoca, parlo della fine degli anni Settanta, non esisteva internet e quindi la ricerca delle informazioni era un lavoro da certosini, in compenso c’era una grande passione, un’attenzione per la musica di qualità che adesso si è certamente persa in favore di una massificazione che appiattisce tutto e ammazza ogni voglia di sapere. L’arrivo della televisione commerciale e lo strapotere dell’auditel hanno fatto tabula rasa dell’intelligenza dell’ascoltatore. Paradossalmente, a una maggiore reperibilità delle informazioni corrisponde un impoverimento della curiosità.
Ho iniziato a suonare musica popolare con Caterina Bueno: all’epoca era come iniziare a suonare rock con Sting. Mi ricordo soprattutto l’entusiasmo, la voglia incontenibile di scoprire i segreti di questo strumento sconosciuto: l’organetto diatonico. I primi festival internazionali dove incontravo i miei eroi musicali e mi trovavo in mezzo a loro dopo averli ascoltati a lungo sui dischi, le feste popolari dove mi trovavo insieme con tanti giovani uniti dagli stessi interessi e dalle stesse passioni, mi sentivo nel paese delle meraviglie. Il movimento folk stava iniziando una nuova stagione, quella segnata dalla centralità del bal folk, per cui tutti giù a ricercare come si suonavano e si ballavano le danze tradizionali. Assieme alla ricerca sul ballo si riscoprivano gli strumenti principali della tradizione come l’organetto per l’appunto, ma anche zampogna, ghironda, tambuello, piffero e altri.
Il tutto accompagnato da un atteggiamento rigoroso, ma meno ideologico di quello precedente. E’ stato un fiorire di gruppi, dischi, case discografiche, associazioni culturali, festival, rassegne .
La scena era molto vitale e diversi gruppi hanno iniziato ad attraversare i confini e suonare nei grossi festival all’estero. In quel periodo andavano per la maggiore gruppi come La Ciapa Rusa, che ha creato un piemonte sound che ha fatto scuola a lungo, poi Ritmia, che invece apriva la strada della musica originale e della commistione con il jazz. A sud i calabresi Re Niliu, grazie alle loro importanti ricerche su campo, inventavano un sound finalmente alternativo al modello Musicanova/Nuova Compagnia di Canto Popolare. Ma i gruppi erano un infinità e, grazie all’inizio di una fiorente attività didattica strutturata in workshop e scuole di musica popolare, i suonatori si moltiplicavano e si innalzava velocemente il livello tecnico.
F. B. – Nel libro tuo e di Neri Pollastri sono ben descritte tutte le varie fasi e le diverse tappe della tua carriera musicale; di tutte le formazioni e avventure sonore, quale secondo te ti ha fatto crescere di più e perché?
R. T. – E’ difficile scegliere fra così tante. La prima di tutte è per forza Caterina Bueno, grazie alla quale sono diventato musicista: mi ha insegnato l’amore per la tradizione, ma anche il coraggio di tradirla per andare oltre. Patrick Vaillant ha cambiato il mio approccio allo strumento ed insieme abbiamo sviluppato un pensiero musicale che ancora oggi influenza i miei lavori. Banditaliana invece rappresenta per me il coraggio di credere nelle mie idee ed una scommessa vinta. Per la prima volta mi sono preso la responsabilità del ruolo di leader e di tutte le scelte artistiche. Sono stato fortunato a trovare splendidi compagni di viaggio come Claudio Carboni, Maurizio Geri, Ettore Bonafè e Gigi Biolcati, ottimi musicisti che hanno sostenuto le mie idee e sopportato le mie ansie, ma dopo venticinque anni siamo qui a pensare al nuovo album. Accanto ai dischi dedicati alla mia musica ho spesso realizzato, su commissione, progetti in cui il compito consisteva nel rileggere in maniera libera un particolare stile e repertorio musicale. Tra queste produzioni originali, Un ballo liscio e Acqua Foco e Vento sono, a mio avviso, due degli esempi più riusciti.
Sicuramente le collaborazioni con Ivano Fossati e Fabrizio De André sono state fondamentali, perché mi hanno avvicinato alla forma canzone e mi hanno fatto conoscere da vicino la filosofia produttiva del pop, da cui devo dire di aver imparato molto. Però ogni musicista che ho incrociato mi ha insegnato qualche cosa, il mio è stato un apprendimento step by step.
F. B. – Ai tuoi inizi in Italia l’organetto era uno strumento molto legato a precisi ambiti tradizionali. Nel corso degli anni, grazie a te e a qualche altro, tutto ciò è cambiato: come?
R. T. – E’ stato un processo lungo e non pianificato. Il folk revival si è evoluto, ha rotto con il tempo gli stretti confini della tradizione, per dialogare con le musiche di oggi, e questo ha trasformato il repertorio, il vocabolario, la funzione, la tipologia dei suonatori e anche l’organologia di questo strumento meraviglioso che da strumento popolare è diventato uno strumento tout court! Chiaramente, nel mio caso la curiosità musicale ha accelerato una tendenza che era di tutto il movimento. Oggi troviamo l’organetto nei contesti musicali più disparati e questo era veramente impensabile agli inizi del mio percorso, per questo penso che tutti noi abbiamo fatto un buon lavoro di divulgazione, sviluppando una pedagogia adeguata a uno strumento così particolare ed allargandone il vocabolario. Le nuove generazioni sono in possesso di ottima tecnica e preparazione musicale per suonare alla pari di tutti! Ne sono felice.
F. B. – A questo punto, consentimi una domanda scontata: dicci quale esperienza non ha raggiunto quanto ti aspettavi.
R. T. – Crinali, Sopra i tetti di Firenze e Cameristico per diverse ragioni non hanno avuto il successo che avrebbero meritato d io invece artisticamente ne vado fiero. Delle volte la fortuna di un progetto musicale è dovuta a strane congiunzioni astrali che vanno al di là della sua qualità. Anche Un Ballo Liscio, nonostante il grande successo di critica, non è stato supportato adeguatamente dalla casa discografica, che all’epoca dell’uscita si trovava in seria difficoltà economica.
F. B. – A parte i Jethro Tull, quali sono stati i tuoi riferimenti musicali?
R. T. – Difficili elencarli tutti, sono sempre stato e sono un grande ascoltatore, a 360 gradi, nel mio iPod trovi davvero di tutto. In ordine sparso, posso nominarti gli artisti che ascolto spesso: Chico Cesar, Reanaud Garcia Fons, Darius Milhaud, Taksim Trio, Joe Zawinul, Armenian Navy Band, Dino Saluzzi, Salif Keità, Sting, Youssour Dour, Paul Simon, Johnny Cash, Daniele Sepe, Eric Satie, Miles Davis, Ivano Fossati… Questi sono i primi che mi vengono in mente, ma la lista è infinita e non ho nominato fisarmonicisti e organettisti… Sto riascoltando anche classici come King Crimson, Traffic, Crosby Still Nash & Young e mi rendo conto di quanto fosse alto il livello tecnico negli anni Settanta, ma soprattutto di quanto il pubblico fosse curioso e pronto ad ascoltare linguaggi musicali elaborati, lontani anni luce dalle banalità odierne.
F. B. – Hai visto e ascoltato sicuramente molti artisti e gruppi interessanti nelle tue frequentazioni dei festival europei ed extra-europei: dicci qualche nome del passato e del presente che ti hanno colpito.
R. T. – La Boutine Souriante, Armenian Navy Band, l’arpista colombiano Castaneda, Martin O’ Connor Trio, il suonatore di launeddas Luigi Lai, A Filetta, Renaud Garcia Fons, Canzoniere Grecanico salentino, Redi Hasa & Maria Mazzotta, Justin Vali, Antonio Forcione e ancora tantissimi…
F. B. – C’è stata anche un’evoluzione tecnica nella costruzione degli strumenti?
R. T. – Certamente! L’evoluzione del folk revival ha portato ad un’evoluzione degli strumenti che hanno dovuto far fronte ad un repertorio sempre più complicato dal punto di vista armonico/melodico, per cui si è cominciato ad aggiungere due tasti supplementari all’organetto per avere più possibilità melodiche. Piano piano, siamo arrivati al tre file /18 bassi e non sembra finita qui.
F. B. – Questa è una domanda che mi hanno posto alcune volte: Riccardo Tesi è più un amabile musicista di gruppo o un leader che mette in riga i suoi colleghi?
R. T. – Non sta a me dirlo, dovresti chiederlo ai miei collaboratori!!! Essere leader di un progetto è una cosa assai complicata da un punto di vista psicologico. Serve sicuramente autorevolezza e carisma, ma qualche volta si deve pure alzare la voce, stando attenti a non rovinare comunque la serenità del gruppo. Ho cercato di imparare strada facendo e ho attraversato momenti molto difficili in cui ho dovuto lavorare molto su me stesso. Visto e considerato considerato che le mie collaborazioni normalmente durano molto nel tempo e che Banditaliana festeggia addirittura i suoi 25 anni, sono tentato di pensare di esserci riuscito. Ho avuto anche la fortuna di lavorare con persone serie, affidabili ed intelligenti e quindi è merito un po’ di tutti.
F. B. – Com’è il Riccardo Tesi privato?
R. T. – Sono e amo essere una persona normalissima che va a fare la spesa, paga le bollette, cresce una figlia e ne approfitta per crescere pure lui. Tendenzialmente sono sereno e di buon umore, ma anche capace di momenti di grande fragilità. Vivo circondato da buoni amici, alcuni addirittura compagni di liceo, perché le relazioni umane mi hanno sempre interessato, non a caso ho fatto studi di psicologia. I miei genitori erano di origine contadina, per cui credo di aver ereditato uno spirito di comunità e condivisione che mi porta a stare con piacere tra la gente e a preferire il lavoro in team.
F. B. – Noi facciamo parte di una generazione che è partita con il folk revival, ha attraversato gli anni Ottanta, Novanta, la nascita del termine world music (che per me continua ad essere ancora una nebulosa…): cosa ti aspetti dal futuro?
R. T. – Mi aspetto che questa nuova generazione di giovani musicisti folk che hanno ereditato la nostra passione per la tradizione ma che rispetto a noi sono già in possesso di qualità tecniche incredibili inventino nuove strade e nuove forme musicali. Sono molto ottimista, perché il livello è davvero alto.
F. B. – Cosa pensi debba aspettarsi un giovane musicista che muova oggi i primi passi nel folk, nella world music o comunque vogliamo chiamare questo mondo?
R. T. – Quando ho iniziato la mia attività professionale il folk era in caduta libera, perché l’ondata politica che aveva sostenuto questa musica fino a quel momento si stava esaurendo, i festival dell’Unità, che avevano costituito un forte bacino d’utenza, iniziavano a programmare altro.
Tutto lasciava presupporre che la nostra musica non avesse un futuro e le prospettive sembravano tutt’altro che rosee. E invece nuovi appassionati, nuove generazioni di musicisti alle quali sento di appartenere hanno dato vita ad una nuova stagione, diversa dalla precedente come contenuti ma non come entusiasmo. Ci siamo via via inventati un nuovo folk, nuove forme di sopravvivenza, nuovi mercati, nuovi modi di produrre e distribuire, festival, riviste, case discografiche, autoproduzioni. E’ quello che dovranno fare le nuove leve, che dalla loro parte hanno l’età, l’energia e l’utopia. I tempi stanno cambiando, ci sono scenari nuovi e tecnologie che rivoluzionano i sistemi di comunicare ad una velocità impressionante. Sarà necessario aggiornarsi continuamente e inventare percorsi inediti ma sarà sicuramente possibile farlo.
Se c’è un consiglio che posso dare ai giovani di oggi è di crederci fino in fondo e di seguire la passione, in questo modo non si ha mai la sensazione di lavorare ed è fantastico!
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