di Tito Saffioti
Antropologo, ricercatore e musicista, l’autore di questo libro è certamente noto ai nostri lettori più attenti, ma altrettanto certamente non è conosciuto nelle vesti indossate per portare a termine quest’ultima fatica: quelle di narratore. Attenzione però, perché, certo, lui si è inventata una storia, l’ha storicamente collocata nel tardo XVII secolo e l’ha definita romanzo storico, ma quanta della sua attività precedente è stata riversata in questo libro è perfino difficile dirlo. È pur vero che ogni opera narrativa è inevitabilmente intrisa di elementi autobiografici e tutto ciò che costituisce il bagaglio culturale di chi scrive è imprescindibile, qualsiasi cosa si faccia.
Iniziamo a prendere in considerazione la lingua e il lessico che egli usa: l’impasto tra lingua italiana e dialetto greco-calabrese è magistralmente elaborato e ne fa un linguaggio del tutto nuovo, assolutamente originale. Ettore mette in bocca ai suoi personaggi le parole che inevitabilmente dovevano usare i pastori in quei secoli lontani. Vi sono continui riferimenti alla cultura folklorica, l’argomentazione è composta di antichi proverbi, filastrocche, canti, termini dialettali anche desueti, ma perfettamente inseriti nel contesto in modo da renderli sufficientemente comprensibili anche a chi non è nato in quei luoghi né, tantomeno, in quel tempo.
Se me lo consentite, vorrei fare un paio di confronti, forse inevitabili, con due scrittori che hanno usato con abilità un impasto lingua-dialetto nelle loro opere, cioè Andrea Camilleri (con il siciliano) e Michela Murgia con il sardo. Il primo, forse vittima dell’eccessiva produzione, (in parte affidata a qualche oscuro redattore?) ha finito con l’eccedere in questo giochino talvolta cadendo nel birignao. La seconda ha dato prova di maneggiare perfettamente tale impasto linguistico ma, quando ha cambiato registro (penso alle pagine ambientate a Torino nel suo, peraltro pregevolissimo, romanzo Accabadora) usando la lingua italiana, è divenuta prevedibile, quasi banale.
Vi lascio il piacere di scoprire da soli la trama del romanzo, molto coinvolgente, in cui, come recita il titolo, hanno largo spazio sia il sangue, sia il vino. Forse più il primo che il secondo ma, insomma, quelli erano i tempi e quelli erano i costumi. Consentitemi infine di dirvi che avrei tanto voluto assaggiare il dolcissimo vino che calava a fontana da… una tomba.
Ettore Castagna, Del sangue e del vino, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2016, pp. 218, br., € 14. www.rubbettino.it
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