Amicizia e amore e rispetto per la natura: questi i due capisaldi su cui ha poggiato artisticamente ed emotivamente l’eccellente concerto di Lyle Lovett alla tredicesima edizione del Festival di Villa Arconati, ottima manifestazione promossa da una serie di comuni dell’hinterland milanese con il sostegno della Provincia di Milano e il contributo di importanti Enti e partner privati.
Lyle Lovett, classe 1957, superbo cantante ed eccellente songwriter fa parte di quei grandi performer d’oltreoceano che hanno saputo ampliare la definizione di “musica americana”. Lovett lo ha fatto attraverso una fortunata carriera iniziata quasi per caso nel 1980. Un percorso umano ed artistico che attraversa 14 album, più di 4 milioni di dischi venduti e 4 Grammy Awards. Consumato cantastorie, Lyle Lovett ha l’innata abilità di toccare le corde più segrete del cuore di chi lo ascolta fondendo con sapiente maestria country, jazz, folk, gospel, blues e western swing, evitando luoghi comuni ed eliminando quasi magicamente le barriere tra i generi. I suoi inizi sono stati del tutto fortuiti. Forse per questo Lovett è rimasto il ragazzo semplice dei suoi esordi. Studiava giornalismo all’Università del Texas e un giorno intervistò per il giornale della scuola Nanci Griffith già allora stella della canzone d’autore d’oltreoceano. Alla fine dell’intervista il timido Lyle gli diede una cassetta con qualche canzone da lui composta. Non passò molto tempo da quell’episodio che la stessa Griffith incise una sua canzone e lo chiamò per cantare in un suo disco. Mentre era in studio un produttore lo notò e quasi magicamente gli si aprirono le porte di una carriera assolutamente unica nel suo genere.
Il concerto complice il magico e affascinate scenario di Villa Arconati si apre con un trascinante western swing che mette subito in risalto la bravura di Lovett della sua elegantissima band composta da Luke Bulla al violino, Pete Sewell alla chitarra e al mandolino (entrambi giovanissimi e ottimi cantanti), il leggendario Russ Kunkel alla batteria, Victor Krauss al contrabbasso e il fedelissimo James Gilmer alle percussioni. Lovett non ci mette molto a connettersi con il suo pubblico sfoggiando straordinarie capacità di comunicazione e intrattenimento. E’ l’ ironia a farsi spazio nello swing quasi recitato di “Here I Am” mentre “Private Conversation” una delle più belle canzoni da “Road To Ensenada” accarezza la nostra parte più emotiva mentre ci racconta di un addio e di un dolore che forse solo con la musica si possono guarire. E quale musica ha proprietà taumaturgiche se non il gospel? Anche Lyle sembra essere d’accordo e a quel punto della scaletta inserisce “I Will Rise Up” uno spiritual potente, evocativo e pieno di speranza che ha davvero l’efficacia di un balsamo per l’anima. La canzone numero cinque era contenuta nel suo primo album. “Cowboy Man” è un brano dolcissimo in cui una moderna Cenerentola sogna di un cowboy che la porti via, lontano, a cavalcare nelle immense praterie del Texas. Introducendo la canzone e scherzando Lyle dice che i migliori cowboy che ha conosciuto a Houston Texas, dove è nato, venivano dall’Italia. “Natural Forces” dal suo album più recente celebra la loro vita randagia. Una vita sempre in sella, con la pioggia e con il sole. Molto poetica la parte in cui Lovett canta: “ A volte di notte mi sembra si sentire la voce della natura, e allora comprendo che la mia casa è dovunque si trovi il mio cavallo”. Lyle ha grande rispetto e amore per la natura e ci confessa di essersi emozionato nel viaggio in auto che lo ha portato al concerto. Un viaggio in cui ha attraversato enormi campi di mais. Poi riferendosi alla splendida location che lo ospita aggiunge: “Non credo ci possa essere al mondo un posto più bello di questo per suonare dal vivo”. E’ molto gentile e simpatico Lyle: scherza e sta al gioco quando gli arrivano le richieste per le canzoni – dice ridendo: “Abbiate pazienza ci stiamo lavorando”, poi fa un cenno alla band e pare con la trascinante “My Baby Don’t Tolerate”. E’ blues puro quello che Lovett e la sua incredibile band stanno suonando e il pubblico sembra gradire, e non poco, visto i fragorosi e prolungati applausi che accompagnano la fine della canzone. Tutti sembrano ormai conquistati da questo signore dalla voce raffinata e dalla sua musica musica elegante e sobria; ma soprattutto vera, sincera. Una musica che comunica esperienze di vita e in cui si sente un gusto per la vita stessa. In questo sta la forza del songwriting texano di cui Lovett è esponente di primo piano. E quasi a ribadirlo arriva “Give Back My Heart” piccola perla country tratta da “Pontiac”. Per presentarla Lyle chiede ancora una volta aiuto alla sua sottile e pungente ironia: “Se pensate che le canzoni country possano rendervi tristi, beh sappiate che quelle bluegrass possono addirittura uccidervi!”.
Siamo ormai ben oltre la metà del concerto quando arriva un piccolo capolavoro di saggezza poetica. Si tratta di “If I Were The Man You Wanted” anch’esso tratto dal primo album che porta semplicemente il suo nome. La seguente “L.A. County” sempre dallo splendido “Pontiac” è una murder ballad in cui i protagonisti sono due sposi che sull’altare dei loro sogni vengono freddati da un pazzo con la pistola; mentre il brano numero undici finisce per diventare qualcosa di straordinario in un concerto in cui i batticuori sono più di uno. Come ho scritto poc’anzi, Lovett e compagni, non disdegnano affatto le proposte del pubblico. Lyle dietro richiesta di uno spettatore “particolarmente convincente” esegue prontamente “Friend Of The Devil” dei Grateful Dead ringraziando per l’invito e aggiungendo: “It is very kind of you to ask songs…”. La canzone è accolta con estremo entusiasmo. Qui Lyle nell’introdurla ribadisce il suo amore per la natura incontaminata. Dice di aver partecipato con gioia a “Deadicated: A Tribute To The Grateful Dead” l’album del 1991 a cui hanno partecipato parecchi artisti e i cui proventi sono andati all’associazione internazionale che si occupa della salvaguardia delle foreste pluviali. La versione di Lovett è a dir poco strepitosa. Difficile quindi andare avanti. Lyle lo fa servendosi ancora una volta dell’ironia e introducendo la scherzosa “Keep It In Your Pantry” in cui affetti e buona tavola vanno di pari passo. E il parallelo gastronomico non stona affatto con un musicista che ha espresso suo grande amore per la cucina italiana cosi: “Abbiamo mangiato così bene in questi giorni in Italia che non ho chiamato casa per dirlo a mia moglie”, dice Lyle sorridendo. E poi aggiunge “Il segreto per una lunga e piacevole relazione, infatti, è non divertirsi mai più della propria moglie; e così ieri sera, dopo una cena fantastica non ho avuto il coraggio di chiamarla”. A seguire arriva bella più che mai “I’ll Come Knockin’“da “Step Inside This House”. E’un brano scritto da Walter Hyatt e a lui dedicato. Lovett e Hyatt (grande cantautore scomparso nel 1996 in un incidente aereo) erano molto legati , e l’amicizia e’ un sentimento che conta molto per Lyle. Il concerto cresce d’intensità con “Up In Indiana”, trascinante storia colma nostalgia per una ragazza chiamata Rose; e poi subito la band mira dritto al cuore con “North Dakota” introdotta da un toccante intro di chitarra. E’ poi la volta di “If I Had A Boat” il suo brano più celebre. Lyle presentandola dice che questa è una canzone scritta dal punto di vista di un bambino. E poi aggiunge: “E’ la storia di un bambino che voleva diventare un cowboy ed essere contemporaneamente il capitano di una nave. Quel bambino ero io anche se adesso sono un po’ cresciuto”.
Il diciassette per una volta non porta sfortuna perché contrassegna la suadente ironia jazz di “She’s No Lady” gemma proveniente anch’essa dal bellissimo “Pontiac”. E’ poi la volta di “Fiona” toccante storia ambientata in un luogo sperduto tra i bayou della Louisiana. L’ultima canzone è “White Freightliner” dell’indimenticabile Townes Van Zandt, suo grande amico al quale la dedica quasi commuovendosi.
E c’è anche a sorpresa (ma non per chi scrive), ovvero una dedica speciale a due amici italiani: Andrea Parodi sensibile e apprezzato cantautore e Marco Python Fecchio definito dallo stesso Lovett (e a ragione) come “a great incredible guitar player”, un elogio che non ha bisogno di alcuna traduzione.
Il brano e’ trascinante, tutto pubblico in piedi e Lovett conclude così il suo magnifico concerto. Il pubblico però non ci sta e lo richiama a gran voce.Lui non si fa pregare e ritorna subito per un bis regalandoci una superba visione del traditional “Ain’t No More Cane On The Brazos” racconto amaro dei tempi della schiavitù. Diciannove canzoni in tutto e non ho ancora capito perchè avviandomi verso casa mi sia venuto in mente il titolo di un vecchio film di De Sica, un film che si chiamava “Miracolo a Milano”. Chissà…Fabrizio Poggi
L’autore ringrazia sentitamente l’Ufficio Stampa del festival e in particolare Dario Zigiotto e Monica Passoni per la loro gentilezza e la loro disponibilità.
Marco Python Fecchio dice
Un vero gentleman. (mpf)
Colegio de Abogados dice
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