Intervista ai Fratelli Mancuso (gennaio 2006)
di Marco G. La Viola
A giugno, in occasione della loro partecipazione al Mantova Music Festival, abbiamo avuto il piacere di incontrare e di trascorrere un pomeriggio insieme ai due musicisti e autori siciliani. Ne è scaturita un’interessante conversazione/intervista, da cui si ricava un loro ritratto di grande spessore, umano oltre che artistico.
Iniziamo parlando di “Trazzeri”, il vostro ultimo disco, prodotto in Spagna insieme a Jaoquin Diaz e Luis Delgado. Come siete arrivati a produrre in Spagna?
I nostri rapporti con la Spagna durano ormai da molti anni. Nel 1985, si teneva in Castiglia, a Soria, un convegno di etnologia e folklore. Gli organizzatori ci proposero di andare in Spagna a cantare. Noi eravamo all’inizio della nostra carriera e accettammo, anche se per raggiungere Soria facemmo un viaggio di un giorno e mezzo di autobus da Firenze. Al nostro concerto assistette Joaquin Diaz, a cui le nostre canzoni piacquero moltissimo. Diaz ci chiese se avevamo mai fatto un disco e ci propose di produrre quello che è stato il nostro primo album: “Nesci Maria”, pubblicato nel 1986. Anche il successivo “Romances de alla y aca”, uscito nel 1990 è stato fatto con Diaz, con cui i rapporti sono ottimi e costanti. Tre anni fa, poco dopo la pubblicazione di “Cantu”, eravamo in Spagna a tenere alcuni dei concerti che Diaz organizza periodicamente per noi. Ci propose di pubblicare un altro disco in Spagna, registrandolo nel centro etnografico di cui egli è fondatore. Così abbiamo registrato “Trazzeri”, per la cui distribuzione Diaz ha costituito un’etichetta ad hoc insieme alla regione di Castilla y Leon. Joaquin Diaz è una persona che potremmo definire “nobile” nell’animo. Per noi ha fatto moltissimo senza mai chiedere niente. Basta pensare che dopo la pubblicazione ci ha restituito il master di “Trazzeri”, così che se volessimo pubblicare il disco in Italia non avremmo problemi.
E pensate di farlo?
Bisognerebbe trovare un distributore.
Per quanto riguarda invece “Nesci Maria” non è più reperibile, vero?.
È ormai introvabile. È uscito solo su vinile, e per ripubblicarlo dovremmo riacquistare il master.
Quindi “Bella Maria” e “Cantu” sono le prime vostre cose pubblicate in Italia?
In realtà c’è “Sutera, la tradizione musicale di un paese”, pubblicato dalla Sud-Nord, ora Finisterre. Nel 1993, quando vincemmo il Premio Recanati con “Lu munnu bellu” , l’amministrazione comunale di Sutera, il nostro paese, ci propose di produrre un nuovo disco. A noi sembrava eccessivo che il Comune investisse tutti i soldi necessari ala produzione di un disco per noi, e così proponemmo di fare un disco che non contenesse solo pezzi nostri, ma anche quello che è il patrimonio musicale di Sutera: i canti che si eseguono nelle chiese, nelle strade….. Ne è derivato un disco dedicato al nostro paese, in cui compaiono cinque brani nostri. Poi abbiamo fatto per l’appunto “Bella Maria” e “Cantu” con l’Amiata Records. Il primo è quello che ha avuto maggiore successo, grazie al fatto che è stato utilizzato da Anthony Minghella nella colonna sonora de “Il talento di mr. Ripley”.
Tornando a “Trazzeri” il secondo brano è in due lingue, il siciliano e lo spagnolo
È la prima volta che scriviamo in due lingue. “Ti nni vai poesia” è in due lingue a testimonianza del grande amore che nutriamo per la Spagna. Un omaggio quindi, ma anche un incontro ideale tra Spagna e Sicilia su un terreno comune, che è quello della memoria di un passato condiviso. Ecco anche perché vi sono citati alcuni paesi della provincia di Caltanissetta il cui nome porta in sé un etimo spagnolo: Villaermosa, Villalba, Bronte. E ad ogni paese è abbinato un frutto della sua terra. E ci piaceva che la parte in spagnolo fosse cantata da uno spagnolo, per suggellare in qualche modo la fraternità e l’amicizia che c’è fra di noi. Così si spiega la presenza di Anansio Prado, grande cantante, famosissimo in Spagna.
Nei vostri dischi si ritrova una capacità particolare di creare o evocare atmosfere musicali e non musicali (la Sicilia araba, la musica spagnola). Ma non ci sono mai facili ammiccamenti a generi e stili particolari.
Non ci piace mai fare il verso a dei generi musicali.
Come vi sentite collocati nell’ambito della musica legata alla tradizione?
Per essere sinceri non ci sentiamo “collocati” per un semplice motivo: perché è talmente curioso, diverso e particolare il nostro percorso musicale, così come l’inizio della nostra storia artistica, che di fatto sentiamo di appartenere più a noi stessi che a un ambiente. Il momento cruciale del folk degli anni ’80 noi non l’abbiamo vissuto insieme ad altri perché eravamo fisicamente fuori del paese. È sulla base del ricordo e delle nostre capacità e possibilità espressive che abbiamo creato questo strumento di comunicazione delle emozioni che è la nostra musica.
Come è iniziato tutto?
Noi apparteniamo a una famiglia in cui, per tradizione i figli maschi, arrivati a diciotto anni dovevano partire e emigrare. A metà degli anni ’70 eravamo quindi a Londra. Vivevamo in una triste periferia e lì abbiamo subito lo shock di doversi adattare a una realtà totalmente diversa da quella di un piccolo paese al centro della Sicilia. Proiettarsi in una grande metropoli naturalmente ci è costato in termini culturali, psicologici e emotivi. Al ritorno dalla fabbrica, nel chiuso della nostra stanza, cercavamo quindi di ricostruire e rimettere insieme i cocci della nostra vita frantumata da emigrati. Avevamo dentro di noi il ricordo, l’eco del mondo sonoro dal quale eravamo stati in qualche modo strappati. Curiosamente, quando vivevamo in Sicilia, a questo mondo sonoro non avevamo dato alcun peso, alcuna importanza, ma in quegli anni di grande solitudine riaffiorò prepotentemente, con forza. E cominciammo a scrivere canzoni con testi che riflettevano la condizione in cui si svolgeva la nostra vita in quegli anni. A Londra abbiamo fatto sette anni di emigrazione. Nell’ultimo anno andò al governo Margaret Thatcher e fu immediatamente tangibile che la situazione sarebbe per noi peggiorata. Quindi decidemmo di fare il viaggio di ritorno. Approdammo a Città della Pieve, dove un amico ci aveva trovato una casa e una soluzione temporanea, pensando di riprendere poi il cammino. E invece, a poco a poco, ci siamo stabiliti lì, e abbiamo cominciato a fare concerti in Italia e all’estero. Ma senza mai un progetto o l’idea di arrivare a questo risultato, di approdare a queste sponde.
Quindi alla base di tutto c’è stata un’esigenza personale?
Sì. Ecco perché, tornando alla tua domanda sul come ci sentiamo collocati, ti rispondiamo che non ci sentiamo collocati. Veniamo da una storia troppo intrecciata a vicende personali, che a loro volta sono state influenzate da problemi storici e sociali quali quelli legati alla migrazione che ha vissuto tutto il sud Italia, La musica è stata una traccia, un percorso che abbiamo scavato nella pietra della nostra condizione. Se non avessimo fatto quella scelta a quest’ora saremmo ancora dentro una fabbrica, abbrutiti e scollegati totalmente dalla nostra cultura.
Mi viene di domandarvi se all’inizio c’era più una ricerca di suoni o più di un linguaggio e di parole, vista anche l’importanza che hanno i testi nelle vostre composizioni.
Noi diciamo sempre che il suono è già di per sé significato (è questa una “scoperta” per la quale ci riteniamo fortunati) e quindi la voce in sé è significato. E questa constatazione ci ha permesso di usare e orientare la voce in un certo modo. Contemporaneamente abbiamo sempre provato grande amore, attenzione e rispetto per la poesia. Quindi abbiamo cercato sempre di scrivere cose che avessero il “respiro lungo”, non usando espressioni banali di cui un giorno poterci vergognare. Ciò per rispetto di noi stessi e di chi ci ascolta. Nel nostro caso la parola ha valore anche senza la musica. E ci fa molto piacere che nel recensire i nostri dischi, FB abbia evidenziato la componente testuale. Perché molto spesso, anzi quasi sempre (e lo diciamo con rammarico), non ci si preoccupa di sapere cosa sta “dicendo” una canzone. Ciò è peraltro indice di un modo di vivere e ascoltare molto superficiale, senza preoccuparsi di sapere se le parole hanno un senso oppure no, se sono dettate dalla grazia oppure dalla bruttezza.
Appuntando l’attenzione al panorama musicale siciliano, questo appare molto interessante, ma nello stesso tempo con problemi di visibilità e quasi isolato. Forse per voi essere fuori dalla Sicilia è un aiuto.
Sicuramente ci è d’aiuto. Per quanto riguarda la situazione della musica in Sicilia, questa è deprimente, ma non dal punto di vista della qualità (che è ottima) quanto della gestione. Mancano gli aiuti e non ci sono occasioni. Noi da qualche anno a questa parte abbiamo cercato di invertire la tendenza di molti artisti siciliani a “lasciarsi andare” a unicamente lamentarsi. E quindi abbiamo deciso di scendere periodicamente in Sicilia, per creare eventi e manifestazioni in cui accogliere le persone che amano la musica. Operiamo soprattutto a Ragusa e Caltanissetta, mentre a Messina terremo delle lezioni sul canto nell’ambito del corso di Filosofia del Linguaggio. Organizziamo poi due laboratori all’anno sulla voce, a cui invitiamo gli appartenenti a “confraternite” che ancora praticano una tradizione di polivocalità, con repertori abbastanza integri. Cerchiamo di avviare la conoscenza del nostro patrimonio, che ha spesso un valore inestimabile, ma è poco noto, anche se “vive” accanto a noi. Ad esempio, a pochi chilometri da Sutera c’è Mussomeli. Qui è presente una tradizione di canti legati alla tradizione del Venerdì Santo e della Passione. Si tratta di canti straordinari, di una bellezza commovente. Eppure molti non li conoscono. Anche solo a 30 chilometri da lì sono ignoti. Operare in questo senso, creando delle occasioni per ascoltare questi repertori e studiarli, far partecipare la gente: questo è molto bello, e anche necessario e giusto. E lo facciamo volentieri.
Ma avvertite nei partecipanti solo il gusto della riscoperta o c’è anche un’affermazione di identità?
Possono intervenire elementi diversi, che combinati insieme fanno sì che la gente si decida a uscire e confrontarsi. Quello che pensiamo sia importante è il mettere le persone di fronte a una realtà spogliata da qualsiasi retorica folcloristica, vittimistica o religiosa, così da confrontarsi con un patrimonio che ci possa ancora oggi rappresentare culturalmente. Certo c’è anche la riscoperta di una dignità culturale. Per esempio a Caltanissetta, dove da quattro anni curiamo una rassegna e teniamo dei laboratori sulla voce e sulla composizione, esiste una bellissima tradizione di “lamentatori”, che il Giovedì e il Venerdì Santo cantano scalzi il Cristo Morto. Si tratta della confraternita dei Fogliamari, costituita da persone che provengono da quella che è la parte più povera della città. Il loro nome deriva dal fatto che andavano nelle campagne a raccogliere le verdure selvatiche, per poi rivenderle al mercato. Noi li abbiamo valorizzati, producendogli un disco e portandoli a esibirsi nel teatro cittadino (molti di loro era la prima volta che vi entravano), dandogli consapevolezza del proprio valore. Mentre prima i Fogliamari erano considerati dei poveracci e degli ubriaconi e non erano ascoltati, ora ricevono attenzione e vengono studiati. E sono fieri della propria tradizione. In questi laboratori con le confraternite cerchiamo soltanto di guidare le persone (magari aiutandole negli aspetti più tecnici, come l’impostazione della voce), lasciando però che siano loro a agire. In tal modo anche il confronto con le giovani generazioni è più proficuo, perché avviene senza la nostra intermediazione, che potrebbe far perdere e snaturare parte di queste espressioni culturali.
Quindi la scena culturale siciliana è in movimento. Oltre alle iniziative da voi avviate e al lavoro di altri artisti e istituzioni (mi viene in mente ad esempio il Museo Antonino Uccello), cos’altro sta avvenendo in Sicilia e cosa si dovrebbe fare di più?
Certamente si dovrebbe lavorare molto di più sul coinvolgimento. Abbiamo valenti musicologi in Sicilia e il lavoro di documentazione è stato in gran parte fatto. Ciò che a questo punto manca è un lavoro complessivo di coinvolgimento e sensibilizzazione, e la creazione di occasioni in cui la gente possa vivere e partecipare (anche visivamente) a questa ricchezza, rendendosi conto che si tratta di un patrimonio comune. E ciò, sia chiaro, spogliando il tutto da ogni valenza campanilistica o regionalistica. Anche il pubblico reagisce in maniera diversa. Dopo l’ondata folk e la successiva crisi della facile “canzonetta folk”, si sta cominciando a capire che c’è bisogno di andare alle radici. Così quello che prima sembrava non musicale, ora acquista valore (come è il caso per l’appunto dei “lamentatori”). Si tratta di un tessuto culturale che è rimasto in gran parte intatto, su cui nessuno aveva lavorato (a parte gli etnomusicologi, che però si limitano perlopiù a effettuare delle registrazioni). È quello che cerchiamo di fare con le nostre iniziative. E in questo senso riceviamo, anche dagli studiosi, incoraggiamento e approvazione, perché trovano che operiamo mettendoci innanzitutto passione e amore.
Un progetto che state seguendo in questo momento e a cui tenete particolarmente?
Stiamo collaborando con l’Istituto di Geografia Umana di Milano. A settembre siamo stati a Strasburgo, dove si tiene il congresso mondiale di questa disciplina. Il direttore dell’istituto, Giorgio Botta, ci ha chiesto di partecipare non solo con un concerto, ma anche curando una mostra fotografica su Sutera, per attivare un momento di studio su quella zona. Abbiamo coinvolto così Ninni Pennisi, che ha fatto un servizio fotografico sui volti delle persone di Sutera, nel contempo riprendendo le case del paese abbandonate da chi è emigrato. Al congresso interverremo, oltre che esibendoci in concerto, parlando della nostra realtà e del nostro paese. La cosa naturalmente ci onora. Come vedi ci muoviamo anche su binari diversi da quello musicale.
Lascia un commento