Grazie a Dio il blues rurale sta cominciando a non essere più identificato con povertà, razzismo, lai e lamenti ma, sgrassato da tutte le venature ideologiche si appresta ad essere un genere come un altro, con tutti i pregi e i difetti del caso. Questo per dire che se prendiamo l’ultimo disco di John Jackson, quello che può essere definito una leggenda del blues o il grande vecchio del blues rurale, non troviamo in copertina piantagioni, baracche o vecchi sdentati, ma un elegante vecchio signore sorridente che con orgoglio ci saluta facendo il gesto di alzarsi il cappello mostrando una nuova e fiammante National cutway.
Il disco, edito per l’Alligator; è curato ed “elegante” e racchiude, con una buona registrazione, 16 brani che ripercorrono un po’ la storia del blues così come l’ha imparata John Jackson durante la sua giovinezza in Virginia, prima di trasferisi nei sobborghi di Washington dove venne “scoperto” dall’etnomusicologo Charles Perdue nei primi anni sessanta che lo introdusse nel mondo, a quei tempi in fermento, del folk-blues revival.
Fu proprio grazie a questo “giro” che Jackson ebbe modo di stringere amicizia con il gotha del folk-blues di allora: da Gary Davis a Mississippi John Hurt passando per Skip James e Son House diventando egli stesso pedina portante del gruppo ed esibendosi con continuità fino ad oggi in mezzo mondo: dall’Africa all’Europa e anche (per gli Statunitensi motivo di grande orgoglio) nei locali della Casa Bianca per l’allora presidente Carter.
La fortuna di Jackson è che il cantante è sempre rimasto fedele allo stile della Virginia che privilegia un suono semplice, immediato e “facile” con una linea melodica accattivante e uno stile chitarristico non asprigno e non troppo virtuosisitico. Jackson non è un grande chitarrista e neppure un grande cantante, ma la semplicità della sua esecuzione fa risultare il blues e le ballate eseguite una testimonianza di un genere per cui si perdona qualche grattata di troppo o qualche indecisione vocale
Il lavoro è una carrellata tra traditional e brani di autori fra i più noti come il delicato “Midnight Hour Blues” di Leroy Carr o il frizzante “She’s so Sweet” di Blind Boy Fuller o l’intenso “Death Don’t Have No Mercy” del Reverend Gary Davis, ma le cose migliori Jackson ce le fa sentire quando ci ripropone i tradizionali della sua terra: come in “When He Calls Me” che gli cantava quand’era piccolo sua madre.
In definitiva “Front Porch Blues” è un delizioso omaggio alla tradizione da parte di un cantante che ha già dato molto e che ha ancora voglia di divertirsi.
Roberto Menabò
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