di Nicola Cossar
Incontrare culture diverse, dialogarci, progettare e creare insieme nuovi percorsi condivisi. Il tutto con il preciso e nobile obiettivo di una maturazione culturale e di una riscoperta attenzione e sensibilità verso gli altri. Un invito rivolto soprattutto alle giovani generazioni. Il suono di Pan, nato in seno all’associazione Musicologi di Gemona del Friuli, è questo cammino, realizzato con una squadra vincente coordinata da quel vulcanico deus ex machina che è Marco Maria Tosolini, musicista, scrittore, drammaturgo e docente di Storia ed estetica musicale al Conservatorio Tartini di Trieste, nonché mente di questo progetto innovativo, tra didattica, laboratori e concerti.
Con MMT abbiamo fatto una lunga chiacchierata su un progetto corale e plurimediale (sostenuto da istituzioni, fondazioni enti pubblici e privati) che, per strutture, contenuti e qualità, non ha niente di localistico e merita di girare l’Italia per incontrare nuove generazioni di studenti e musicisti.
F.B. – Anche questo nono capitolo de Il suono di Pan (Il caffè di Dioniso) ci conduce alla ricerca del senso della musica e dell’uomo. Africa seme e ombelico del mondo, dunque?
M.M.T. – Che l’Africa sia il luogo della nostra origine lo ha stabilito, da molto tempo, la paleontologia ricordando la nostra piccola antenata Lucy, i cui resti furono ritrovati nella depressione di Afar della Rift Valley meridionale nel 1974. Ricordando che, ancora più recentemente resti di una scimmia antropomorfa risalente a 10 milioni di anni fa e chiamata Chororapithecus abyssinicus, sono stati ritrovati nella medesima area, in senso culturale sono soprattutto gli studi di Martin Bernal con il suo documentatissimo e vasto studio filologico Black Athena, che portano prepotentemente alla ribalta questa consapevolezza. Oltre a ciò fa piacere segnalare che Lucy fu così nominata in omaggio a Lucy in the sky with diamonds dei Beatles dai ricercatori che la trovarono: i paleontologi Yves Coppens, Donald Johanson, Maurice Taïeb e Tom Gray.
F.B. – Colpisce molto l’assoluta somiglianza dei nostri miti greco-latini con quelli Yoruba, quasi provenissero tutti da un’unica radice-matrice cosmica. Secondo te, senza scomodare Kolosimo, Von Däniken o Sitchin, esisteva un solo uomo?
M.M.T. – Questo non lo so, affidandomi di più alle, appunto, teorie paleoantropologiche più scientificamente accreditate – differenze fra Neanderthal e Cro-Magnon, ad esempio, che forse si sono temporalmente incrociati -, penso che, invece, archetipi profondi comuni teorizzati da Carl Gustav Jung, poi resi più chiari e percepibili dalla straordinaria opera di studiosi come Campbell, Morris e Hillman per citarne alcuni, sono in tutti noi, indipendentemente da razze, storie, esperienze diverse.
F.B. – Restando nell’ancestrale, alcune tribù di aborigeni australiani (che si autodefiniscono i veri uomini) tramandano ancora oggi il loro mito della creazione: Dio cantò e nacque il mondo. E’ il sincretismo il vero luogo per un dialogo rispettoso, curioso e coraggioso? Seguendo questa strada si va a cercare la Grande nota che ci può rendere tutti fratelli?
M.M.T – Il bellissimo, documentato, lungimirante testo Musica primitiva di Marius Schneider ci dice molto su tutto ciò e sulla condivisa origine sonora del cosmo e del mondo pur con centinaia di nomi e storie diverse distribuite dalla Siberia alla Terra del Fuoco, dall’Alaska al Sud Africa. Il sincretismo è un fenomeno umano quasi sempre non voluto e risultato di adattamenti necessari alla sopravvivenza della parte più profonda della cultura di ognuno. Realizzato soprattutto da chi ha avuto e ha sensibilità tribali esplicite o nascoste. Il suono cosmico esiste in ognuno di noi, ma sta ad ognuno percepirlo e renderlo elemento di armonia del sé da offrire ad altri. Per fare ciò vi sono discipline specifiche, oltre alla volontà, come la meditazione profonda, costante e ben guidata.
F.B. – Il viaggio musicale – che è anche culturale, spirituale e para-scientifico – ci dice che la musica è il collante perfetto anche nell’incontro tra le diversità, un esperanto capace di elevarci. Il progetto-spettacolo (in scena nei due maggiori teatri del Friuli-Venezia Giulia: Udine e Trieste) ci fa intendere proprio questo….
M.M.T. – Non è un caso che la diffusione dell’Esperanto non abbia raggiunto gli obiettivi prefissati dai suoi iniziatori. Il Logos non di rado si rivela fuorviante e ingannatore, anche se la Retorica è un’arte (e una scienza) bellissima. Ma il Logos ci ricorda che la mente alle volte, e spesso, … mente. Basta leggere il testo di molte leggi del nostro sistema giuridico. La musica che, come scrive Derrida (ma non solo lui), è il linguaggio meno il senso, intendendo il senso compiuto, ha una capacità sublime di mettere in equilibrio la nostra parte razionale con quelle emotiva come nessuna altra attività umana, come ormai dimostrano rilievi scientifici della termografia delle funzioni cerebrali. Di fatto fa maturare ed eleva lasciando fuori dalla porta l’inganno, l’inautentico.
F.B. – I giovani – gli studenti delle superiori – hanno applaudito con entusiasmo la vostra performance: una superband e un gruppo di giovani attori che stanno imboccando la strada del teatro. Che emozione ha destato in voi? Tipo missione compiuta?
M.M.T. – Tutta questa operazione è stata ed è una grande fatica e uno straordinario lavoro di squadra di trenta persone. Dunque naturale, anche per il climax, i contenuti fatti propri, le musiche intense, aver condiviso un comune senso di catarsi. Attori giovani e meno giovani tutti accomunati da grande serietà e motivazione con Sonia Dorigo come coach efficacissimo e Sabrina Marcuzzi creatrice delle maschere rituali. Bellissimo poi vedere la vera partecipazione emotiva dei componenti del service Greatballs… famiglia Lentini! Niente sarebbe stato possibile senza, però, il lavoro strenuo di Silvia Comuzzi dell’associazione Musicologi.
F.B. La (bella) scelta delle musiche è fondamentale e vincente: dall’Africa equatoriale alla nuova America del blues rurale, dal jazz al sacerdote voodoo Hendrix e al lussureggiante suono di Santana, fin ad arrivare al funky più raffinato. Epoche diverse, ma un percorso liberatorio ed evocativo unico a sostegno della narrazione. Come avete scelto i brani?
M.M.T. – Scelte storiche e didattiche ma cercando di non farle sembrare tali. Anni Quaranta, Cinquanta, e soprattutto il decennio di incredibile creatività 1965-1975 hanno fatto da incubatore per la selezione di brani appunto storici ed esemplificativi di un clima culturale irripetibile e perduto, non per nostalgia ma per oggettivo crollo dei valori e dei contenuti dagli anni Ottanta in poi, con precipitazione all’inizio del Terzo Millennio. Oltre a ciò, ho collegato le scelte dei brani all’evolversi della vicenda teatrale.
F.B. – Il gruppo di musicisti era davvero super. Come è nato?
M.M.T. – Quasi per caso. In occasione di una privatissima jam a casa mia, dove ho invitato il grande chitarrista Jimi Barbiani, su sollecitazione di un fraterno, carissimo amico che non c’è più, Caio Pagnutti di Muris, il quale insisteva affinché io conoscessi Jimi. Adesso capisco perché e a Caio dedicheremo un concerto. Ma anche Barbara Errico – eccellente voce – da anni mi proponeva un qualche progetto comune. Paolo Viezzi, un maestro del basso elettrico, è la mia… colonna sonora da un quarto di secolo e direttore musicale delle mie band. Indispensabile per professionalità e… pazienza. Francesco De Luisa è stato uno dei miei migliori allievi al Conservatorio di Trieste (Tosolini insegna Storia della musica e Storia della musica Jazz; n.d.a.) che avevo notato da tempo come pianista e compositore. Il batterista e percussionista Lorenzo Fonda, sempre nel segno del caso che non è un caso mi è stato presentato dall’amico Paolo Gruden, incontrato… per caso in un caffè a Trieste nell’autunno del 2015. Lorena Cantarut e Federico Màzzolo sono altri due grandi talenti che vengono dalle file dei miei allievi, spesso straordinari come artisti e persone, come loro due.
F.B. – Torniamo alla parte drammaturgica, con il coro tragico, le figure totemiche e le tre divinità a dialogare tra di loro e a combattere per avere la pianta magica – sublime e pericolosa – della Stenophylla Coffea che senza altri intermediari ci aiuta a trovare e a capire il nostro io più autentico e profondo, meraviglioso e terribile. Come ti è venuta questa idea?
M.M.T. – Durante un bellissimo colloquio con Anna Illy (sr.) in uno storico caffè di Trieste dove io commisi una gaffe fantastica… ordinai un orzo! Anna Illy, che è una delle donne più straordinarie che abbia mai incontrato per cultura, sensibilità e ironia commentò, con pacatezza… ah, ecco chi xè che prende l’orzo…, forse segnalando una sorta di damerinismo intellettuale nel salutismo anticaffeinico; mi scusai e lei rise. Stavo già lavorando alla storia degli Orisha e un’amica mi aveva raccontato di esperienze con l’ayahuasca. Così pensai che poteva essere un’idea originale che gli Dei africani si contendessero un caffè raro e miracoloso, visto che è nato in Africa (Etiopia) ed è stata una bevanda rituale – è tutt’ora un rito per milioni di persone – e medicinale. Oltre a ciò, avevo scoperto l’incredibile parallelismo fra Ares–Afrodite–Efesto e Changò–Oshun–Oggun.
F.B. – Ti senti insegnante? Complice? tentatore? O soltanto un grande innamorato della musica afro-americana che tanti figli ha generato?
M.M.T. – Sono felicemente affetto, come uno dei miei Maestri più importanti, Umberto Eco, con cui condivisi esperienze conoscitive importanti – presentò, fra le altre, il mio libro su Mainerio proprio trenta anni fa a Bologna, assieme all’altrettanto compianto Tonino Cragnolini -, da quella che lui definiva Libido docendi. Un docente motivato e dinamico è sempre un po’ mistagogo. Se lo fa in modo sorvegliato ed elargitivo, può dare ai propri allievi grandi opportunità. E riceverne. I miei migliori allievi sono i miei migliori maestri. In questa dimensione, che è profondamente mia, la civiltà musicale afro-americana – così definita dal mio Maestro migliore, Giampiero Cane – è un mondo di sorprendente, inesauribile ricchezza.
Lascia un commento