di Maurizio Bettelli
Qualche giorno fa, sulla sua pagina di Facebook, Michele Gazich ha lanciato un appello. Ma che dico un appello? Un grido di dolore e di rabbia. Michele scriveva:
Amici, non posso crederci! Ho saputo oggi che ci sono ancora posti liberi per tutti e tre concerti che mi accingo a fare per presentare il mio nuovo album, ARGON!
Ho attraversato due anni (sì, dico “due anni” e non ho un altro lavoro) in cui non ho quasi mai avuto modo di suonare dal vivo! Ho comunque registrato un album! Finalmente lo presento dal vivo in 3 concerti e non avete ancora comprato tutti i biglietti?
Perdonate lo sfogo, ma suvvia…
E poi non raccontatemi che supportate la musica, gli artisti e che adorate le mie canzoni! Non parole, ma opere di bene, come diceva San Francesco. Prenotate, prenotate…
Mi sono sentito a disagio, mi sono sentito in grande difficoltà, mi sono sentito male. Quello non era Michele Gazich a scrivere, quello era la musica, la poesia, l’Arte, il lavoro paziente e preciso dell’artista, di ogni artista. Un grido sfinito, sfiduciato, stremato, sgolato che a fil di voce chiede aiuto mentre il suo essere, il suo esistere, come un naufrago in balia di un mare tempestoso e sordo, sta scomparendo in lontananza.
Perché siamo arrivati a questo? Perché siamo arrivati a tanto? Dove abbiamo sbagliato?
In questi anni del nuovo millennio abbiamo assistito a un divertente quanto divertito ribaltamento di valori. Divertente, perché è stato portato avanti con la leggerezza e la disinvoltura di un’operetta da avanspettacolo, divertito perché in tanti, se dapprima storcevano il naso, alla fin fine si sono uniti alla risata generale compiaciuti e ammiccanti.
Con la complicità di qualche giornalista spregiudicato o di qualche anchorman televisivo, si sono trasformati i bestiari televisivi serali e i Barnum TV domenicali, in grotteschi tribunali popolari, dove sono stati gettati nel tritacarne mediatico, dignità e educazione, cultura e umanità, politica e scienza. Abbiamo assistito al dilagare della superficialità, all’esaltazione di ignoranti orgogliosi della loro ignoranza, abbiamo sentito e visto parole e atti che non avremmo mai pensato di rivedere o riascoltare nelle piazze e nelle vie delle nostre città. Per una risata in più, per un colpo di gomito in più, abbiamo lasciato che i princìpi della civiltà venissero calpestati in nome di una visione contorta della democrazia, in nome di una grottesca interpretazione del termine libertà.
Riproponendo qui le belle parole di Michele, abbiamo lasciato che i pavimenti di una delle più antiche biblioteche tedesche crollassero, e secoli di tomi, incunaboli e manoscritti venissero ingoiati per sempre nella melma delle fogne di Colonia, per costruire una linea della metropolitana. Tutto questo per far guadagnare al trasporto urbano 8 minuti di tempo rispetto ai tram.
Se non si sono indignati i tedeschi davanti a questo orrore, perché mai dovremmo indignarci noi davanti a quello che abbiamo combinato in questa nostra povera patria negli ultimi vent’anni?
Rimane questo grido che squarcia il cielo plumbeo di questi tempi amari, messi ancora più a dura prova dal Covid19. Un virus che sembra mutare in un modo direttamente proporzionale alla nostra capacità di adattarci a questa impetuosa ondata di ignoranza.
Molti artisti si sono arresi e hanno abbandonato l’arte, o si sono riciclati nei modi necessari a garantire loro, e ai loro cari, una esistenza dignitosa. Altri ancora hanno accettato mediazioni e compromessi, stemperando le tinte forti dei loro colori in inutili segni dai pallidi semitoni che quasi scompaiono sulle tele male illuminate appese alle pareti delle aste televisive. Gli altri, e sono pochi, perseverano sul loro cammino seguendo la loro stella cometa. E per seguirla si sono liberati del superfluo (ho venduto anche la macchina, mi ha detto Michele tempo fa) e hanno tenuto l’essenziale: una voce, un cuore, uno strumento. Con un bagaglio leggero, si va più lontano, si sa.
E’ vero, come canta Michele, Dio sopravvive nei dettagli, nelle crepe dei centri commerciali. O come cantava uno dei Santi Patroni degli autori di canzoni, Leonard Cohen, c’è una crepa in ogni cosa, così entra la luce. La ricerca di quei dettagli, l’inseguimento di quella luce che si fa sempre più fatica a distinguere dai tanti abbagli, diventa la Quest for the Holy Grail, la ricerca estenuante del cavaliere che immola la propria vita nel recuperare il Santo Graal.
E come Sir Galvano anche Michele ha imboccato quella strada, facendo della ricerca del vero il suo obiettivo primario. E per farlo ci mette metodo, precisione, impegno, fatica, dedizione, studio, analisi e lavoro. Tanto lavoro. Mi rendo conto di aver messo in fila una serie di sostantivi che oggi sono completamente caduti in disuso. E questo ci fa capire ancora di più quanto sia impegnativa e frustrante questa ricerca del vero. Quanto tutto ciò abbia un costo, anche in termini squisitamente economici.
E’ anche per questo, caro Michele, che mi sono sentito a disagio nell’ascoltare il tuo grido. Perché a nessuno importa più quanta fatica costi sapere usare o no d’un certo metro, ci siamo adattati al fuori tempo, al fuori metro, al fuori tutto, anzi, ne siamo diventati convinti sostenitori! Com’erano gli slogan di quel 1984 di George Orwell…War is Peace (La Guerra è pace), Freedom is Slavery, (La libertà è schiavitù), Ignorance is Strength (L’ignoranza è forza).
La rotta percorsa da Michele, nel seguire la sua cometa è un susseguirsi di spostamenti che hanno nell’est il punto cardinale portante. Forse perché in quell’oriente dove sorge il sole, sarà possibile intravvedere una nuova rinascita? Ascoltare la voce di un nuovo profeta? Assistere al miracolo di un nuovo Messia? Non sappiamo. E certamente non lo sa neppure Michele che continua nel suo cammino di ricerca, attento a scorgere, capire, interpretare ogni segno che possa aiutarlo a proseguire il suo percorso e a mantenere la rotta giusta.
Di ogni tappa raggiunta lungo questo cammino, in questa ricerca del vero, Michele ci ha lasciato una traccia, una testimonianza. E così, seguendo quelle tracce, l’abbiamo seguito sulle strade dei venti e dei canti verso Damasco, lungo le calli e i campielli di una Zara città invisibile (dove le nostre radici famigliari si intrecciano, si spezzano ma non si perdono), tra i corridoi e le stanze del manicomio di San Servolo a dar voce alle ombre dei nostri sensi di colpa, o ancora sulla nave dei folli in cerca del colore degli angeli o sui sentieri in salita sulla via del sale.
L’altra sera Michele ci ha preso per mano e ci ha portato al Vittoriale, tempio straordinario dedicato a uno dei maggiori geni italiani relegato da un bibliotecario, tanto zelante quanto devoto ai signori della superficialità, agli scaffali della letteratura da bruciare. Con pazienza e perizia Michele ha tolto il poeta D’Annunzio da quello scaffale polveroso e l’ha portato con sé sul palco.
Ci ha fatto accomodare nel cuore del cuore di casa D’Annunzio, in quel teatro con la volta a cupola e le poltrone color carminio, e ci ha mostrato alcune delle sue visioni sonore raccontandoci di poeti, matti, esuli, pellegrini e altri straordinari personaggi incontrati lungo il suo cammino alla ricerca del Graal.
Assieme a lui sul palco c’era fantastica Giovanna Famulari alla voce e al violoncello, le cui note si sono intrecciate con quelle salvifiche della chitarra e al piano di Marco Tibu Lamberti, con la voce di Rita Tekeyan, diventando insieme la trama e l’ordito di un tessuto perfetto per ricevere il ricamo delle note del violino di Michele e su cui trasformare quel grido di dolore e di rabbia, scritto col sangue su Facebook, in immagini poetiche, visioni di speranza, parole di bellezza.
Mentre Michele cantava ho alzato lo sguardo verso il soffitto a cupola del teatro del Vittoriale, e ho visto che dal colmo pendeva un cavo d’acciaio a cui era appeso il biplano su cui D’Annunzio, nell’agosto del 1918, aveva sorvolato Vienna lanciando sulla città volantini tricolori che dicevano W la Libertà! W l’Italia!
Per un attimo ho chiuso gli occhi e ho sognato che sul quel biplano ci fosse Michele che, con audacia temeraria, sfidasse l’ignoranza e la superficialità di questi tempi cupi e inondasse il cielo delle nostre città di volantini con le parole delle sue poesie.
Quando li ho riaperti il teatro del Vittoriale era avvolto nella musica di Michele e le sue parole volteggiavano nell’aria come petali di fiori.
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