Tramite amici comuni che gli hanno fatto sentire la mia musica sono entrato in contatto con Phil Kaufman, leggendario tour manager di Rolling Stones, Gram Parsons, Flying Burrito Brothers e Emmylou Harris. Un personaggio davvero unico, con una vita sempre al limite tra bene e male e che definire “spericolata” è estremamente riduttivo. A me, si sa, piacciono molto le storie. E Phil ne ha davvero tante di storie da raccontare. Come quella in cui “rubò” il cadavere di Gram Parsons, morto per overdose a soli ventisei anni in una squallida camera d’albergo. Non solo lo rubò, ma lo andò anche a cremare a Joshua Tree in pieno deserto del Mojave. E tutto solo per onorare una promessa che i due si erano fatti qualche tempo prima. Oppure quella che gira intorno a Charles Manson, il diabolico criminale famoso per essere stato il mandante di uno dei più efferati delitti della storia americana. La notte del 9 agosto 1969 un gruppo di quattro ragazzi “manipolati” da Manson irruppero nella villa di Los Angeles abitata dal regista Roman Polanski e dalla sua compagna Sharon Tate, che in quel momento stava trascorrendo una serata in compagnia di alcuni amici. Su ordine di Manson, la Tate, all’ottavo mese di gravidanza, venne accoltellata e barbaramente uccisa da un “commando” formato da tre ragazze e un ragazzo. Con lei vennero trucidate altre cinque persone. Roman Polanski si salvò per puro caso perchè assente per impegni di lavoro. Perché vi ho raccontato tutto questo? Perché Kaufman mi ha detto di essere sicuro che ad essere ucciso, quella notte maledetta, non avrebbe dovuto essere Sharon Tate, ma lui stesso! E mi ha anche spiegato perché la pensa così. E poi Phil era in studio con gli Stones mentre questi registravano due autentici capolavori come “Beggar’s Banquet” e “Let it bleed”. Sono davvero tante le storie di cui Kaufman è stato testimone o protagonista. Lui è davvero uno che ha vissuto la storia del rock – ma non solo – in prima persona. Phil era lì mentre accadevano fatti che oggi sono diventati leggenda. Era lì perché era il road manager di una serie di nomi che sono scritti nell’olimpo della musica moderna. Lo chiamavano “Road Mangler”, ovvero lo “spianatore di strade”, per la sua innegabile capacità nel risolvere i problemi on the road e ricoprendo questo ruolo Kaufman ha lavorato anche per Frank Zappa, Joe Cocker, Willie Nelson, Etta James, Jimmy Smith, Vince Gill, Marty Stuart e Nanci Griffith. Questo solo per fare qualche nome. Phil non è una persona facile. Tutt’altro. Eppure ha avuto la gentilezza di mandarmi una mail scrivendomi che alcune mie canzoni lo avevano toccato nel profondo. Quando gli ho chiesto di raccontarmi un po’ la sua vita, (ma lui di vite ne ha vissute forse più di una), questo fuorilegge della musica, sopravvissuto a una tempesta di fuochi incrociati mi ha detto di sì. E non era affatto scontato. Quella che segue è il racconto ruvido, sincero, ironico e disarmante di un uomo che ha giocato a carte con il proprio destino, spesso ridendo in faccia alla morte. Un uomo che ha sempre vissuto al limite provando sia l’umiliazione della galera, sia il sapore indescrivibile della libertà. Un uomo innamorato perdutamente della vita e della musica.
Un uomo che è sempre stato e sempre sarà on the road…
Come è iniziato tutto quanto?
Sono nato vicino a New York nel 1935 da una famiglia mezza ebrea e mezza irlandese. Mio nonno era un attore di varietà. Uno di quelli che si dipingeva la faccia di nerofumo. Quindi si può dire che il mondo dello spettacolo è sempre stato in qualche modo nel mio DNA. I miei non andavano d’accordo e ho passato un infanzia difficile sbattuto qua e là. A quindici anni mi guadagnavo già da vivere lavorando in un bar. Nel 1957, come se fosse scritto nel mio destino, e forse lo era davvero, cominciai a lavorare nello show business e subito dopo entrai nell’industria cinematografica. Fu solo nel 1968 che iniziai con i Rolling Stones la mia storia nel mondo della musica.
Ti ricordi la prima volta che hai incontrato Gram Parsons?
Stavo lavorando per gli Stones che erano venuti a Los Angeles per mixare Beggar’s Banquet. Ero lì con Mick Jagger (che mi aveva nominato sua “tata ufficiale”), Jimmy Miller il loro produttore; e Marianne Faithfull. Gram arrivò solo qualche giorno dopo con Keith Richards e Anita Pallenberg. Venivano dal loro “esilio” nel sud della Francia. Gram stava davvero insegnando agli Stones la musica country. Quella vera. Spesso finito il lavoro in studio andavamo tutti nell’appartamento che gli Stones avevano affittato per ascoltare dischi di country. Alla sera si mettevano tutti seduti intorno a me che fungendo un po’ da disc jockey mettevo sul piatto del giradischi gli ellepì che Gram mi suggeriva. Poi mentre ascoltavamo le canzoni Parsons spiegava, soprattutto a Mick e a Keith, la differenza tra i vari stili. Diceva loro: “Vedete, questo è lo stile di Buck Owens, quest’altro è quello di Merle Haggard, mentre quest’altro ancora è quello di Don Rich”. C’è chi dice che Gram fosse un po’ il loro “cagnolino”. Non era affatto così. Sia Mick che Keith lo stimavano molto. E anch’io dopo un po’ di diffidenza iniziale, cominciai a guardarlo con occhi diversi. Iniziai anche e per merito suo ad apprezzare la musica country che fino ad allora avevo sempre considerato come un genere piuttosto rozzo e adatto solo ai contadini del sud.
Gram fece capire a me e agli Stones che il country altro non era se non il soul della povera gente bianca. E di questo gli sarò eternamente grato. E poi Gram era un vero gentiluomo del sud, e senza di lui bellissime canzoni come “Wild Horses “, “Dead Flowers” e “Sweet Virginia” non sarebbero mai nate.
Tu sei stato anche il road manager dei Flying Burrito Brothers. Come era il rapporto tra Byrds e Burritos? C’era collaborazione?
Per niente, anche se poi i musicisti si spostavano da un gruppo all’altro continuamente. C’è stato persino un momento che nei Burritos c’erano più Byrds che nei Byrds stessi. Ma erano come cani e gatti e non perdevano occasione di litigare. Sono tutte storie inventate quelle che raccontano che i due gruppi jammavano insieme. La cosa rilevante di quel periodo è che fu Gram a far aprire le porte dei “santuari” del country a tutti quegli hippy con i capelli lunghi che suonavano country rock. Lui fu quello che inventò quel genere di musica. Lui e Chris Hillman.
A proposto di Hillman, come era il rapporto tra i due?
Musicalmente splendido, per altri versi difficile. Chris era spesso incazzato per il fatto che Gram assumesse droghe e sovente non era nemmeno in grado di salire sul palco. Una volta Chris era talmente fuori di sé che distrusse una Martin nuova di zecca. E poi forse non aveva mai accettato del tutto l’amicizia di Parsons con gli Stones. Il problema è che Gram non si presentava nemmeno alle prove dei Burritos. Era sempre fatto di alcol, cocaina, morfina e tranquillanti. Una miscela che ti mette una sete terribile e ti infila nella testa milioni di domande alle quali nessuno può dare una risposta. Lo so bene perché anch’io sono passato da lì. Gli Stones dal canto loro gli dissero più volte che doveva trascorrere più tempo con il suo gruppo “ufficiale”, senza peraltro ottenere nessun risultato concreto. A Gram piaceva troppo stare con Mick e Keith. E poi, almeno secondo me, era un destino inevitabile che i Flying Burrito Brothers facessero la fine che hanno fatto. Io me lo sentivo e glielo avevo detto più volte. Forse è anche per questo che un giorno mi licenziarono senza motivo. Per molto tempo non rivolsi più la parola a Gram, sino a quando non mi chiamò in occasione della registrazione del suo primo disco solista. Anche lui come Mick aveva bisogno della sua “tata”. Dovetti rimetterlo letteralmente in piedi. Avevamo lì in studio pronti per suonare i musicisti di Elvis Presley e Emmylou Harris, e lui era fuori di testa dal mattino alla sera. Un po’ forse era colpa anche del suo matrimonio che stava andando a pezzi. Faticai non poco, ma riuscii a metterlo in carreggiata. Il risultato lo potete ascoltare in quel gioiellino che è il suo primo album.
Che impressione ti fece in quel periodo Emmylou Harris che suppongo avessi appena conosciuto?
Oh, era dolcissima. Quando non c’era da suonare se ne stava in un angolo a lavorare a maglia o a giocare con la figlia che aveva portato con sé.
Emmylou non ha mai voluto parlare del suo rapporto con Gram se non in termini artistici. Solo recentemente e piuttosto a sorpresa ha dichiarato che quando lui è morto, lei era innamorata di lui.
Tu cosa ne sai?
Davvero Emmylou ha detto questo? Mi stupisce. Per quanto ne so io non c’è mai stato niente di fisico tra i due. Forse era nell’aria e forse prima o poi sarebbe successo. L’avevo intuito perché Gretchen, la moglie squilibrata di Gram, la odiava a morte e le donne si sa per certe cose hanno un sesto senso. Non credo che fosse perché Emmylou sapeva cantare come un usignolo e lei no. Credo che fosse per qualcos’altro che Gretchen percepiva. Io e Gram non abbiamo mai parlato e anche se l’avessimo fatto non ti direi comunque nulla (e qui Phil ride di gusto).
Cosa ricordi del momento in cui sei venuto a conoscenza della morte di Gram?
Ero a casa e mi chiamò una delle ragazze che era con lui quella notte. Come sotto shock saltai in macchina e corsi al motel. Entrai nella stanza, presi tutte le droghe che trovai in giro e le buttai via. Prima che arrivasse la polizia caricai in macchina le ragazze e tornai a Los Angeles. Non volevo avere guai con loro. Non che ci fossero reati da contestare; anche perché il suocero di Gram riuscì a far scrivere sul certificato di morte che il decesso era avvenuto per infarto e non per overdose. Non so come abbia fatto, ma essendo uno speaker dei notiziari è probabile che avesse qualche conoscenza che gli è tornata utile in quel frangente. A Gretchen, la moglie di Gram, è sempre piaciuto fare la bella vita della consorte di una rock star senza volersi mai “sporcare le mani” con il lato oscuro di quella vita. Quando le telefonai per darle la triste notizia la prima cosa che mi chiese fu se avevo trovato il libretto di assegni di Gram. Tra loro due era comunque tutto finito. Solo qualche giorno prima aveva colpito Gram con un attaccapanni rendendolo sordo da un orecchio.
Tu sei sicuramente il più celebre “crematore” della storia del rock. Mi puoi raccontare, seppur brevemente, della famosa promessa tra te e Gram e sull’altrettanto noto furto della sua salma?
Tutto avvenne al funerale di Clarence White (grande chitarrista country celebre per aver fatto parte dei Byrds e dei Muleskinners). Clarence era stato investito luglio del 1973 da un ubriaco mentre a fine serata stava caricando gli strumenti sul furgone. Era morto sul colpo. Una vera tragedia. A lui è dedicata una strofa di “In my hour of darkness”. Io e Gram andammo al suo funerale e tutto ci sembrò molto triste. Insomma non ci sembrava nemmeno il funerale di un musicista. Ci arrabbiamo così tanto che non entrammo neanche in chiesa. Per sfogare la nostra collera ci rifugiammo in un bar dove cominciammo a bere parecchie birre. Ci dicevamo che se Clarence avesse potuto scegliere il suo funerale tutto sarebbe stato diverso. E da lì nacque quella che diventò una promessa molto seria. Gram mi disse: “Noi adesso abbiamo la possibilità di scegliere. Tu sei il mio road manager e il mio migliore amico. Promettimi che quando sarò morto tu prenderai il mio corpo e lo andrai a bruciare nel deserto di Joshua Tree”. “Ok” gli dissi “amico. E tu, ti prego, promettimi che farai la stessa cosa per me”. Fu un vero patto, anche se nessuno dei due poteva nemmeno immaginare lontanamente ciò che sarebbe successo due mesi dopo.
Quindi non appena hai saputo della sua morte hai subito pensato di onorare la promessa?
Beh veramente non subito. Mi ero quasi dimenticato di quel patto. Ma tutto mi tornò improvvisamente alla mente quando qualcuno mi telefonò dicendomi che il patrigno stava già organizzando tutto per trasferire la salma di Gram da Los Angeles a New Orleans. Per storie di eredità era importante che Gram fosse seppellito dove aveva deciso il suo patrigno. E io questo non potevo permetterlo. Più di una volta Gram mi aveva detto di odiarlo con tutte le sue forze. Pensava che avesse sposato la madre solo per mettere le mani sul patrimonio dei Parsons agiata famiglia di possidenti della Louisiana. Gram lo chiamava “l’alligatore stronzo con le scarpe rosa”. Quando morì la madre il patrigno diventò ancora più insopportabile. Fu anche per questo che Gram se ne andò da casa. Era un avvocato e aveva amici nella polizia e nell’FBI. Insomma un tipo anche un po’ “pericoloso” per certi versi. Sicuramente aveva del potere.
Insomma, raccontami come avvenne il “furto”, o meglio di come hai tenuto fede a quel patto di due mesi prima.
Innanzitutto bisognava agire in fretta, perché il corpo di Gram si trovava già in un hangar della Continental Airlines all’interno dell’aeroporto di Los Angeles, pronto per essere spedito in Louisiana. Una delle ragazze che era con Gram la notte in cui morì aveva un fidanzato che possedeva un carro funebre. Si, proprio così.
Lo aveva comprato facendo un grande affare e lo usava come se fosse un furgone. Era quello che ci voleva.
Nel giro di qualche ora arrivarono sia il carro funebre sia Michael, il suo ragazzo. Lo conoscevo già da qualche tempo. Era un tipo davvero fuori di testa ma con un cuore grande come una casa. Fu lui ad aiutarmi a “rubare” il corpo di Gram all’aeroporto. Da solo forse non ce l’avrei mai fatta.
Cosa ricordi del viaggio verso Joshua Tree?
Tutto. Mi ricordo che mi sono fermato solo un paio di volte: una per telefonare alla mia ragazza. Io e lei ci eravamo accordati per parlare in codice come se fossimo in guerra. Io le avrei detto “La torta è sulla panna” il che voleva dire che ce l’avevamo fatta e lei mi avrebbe risposto “il prete è sul pulpito” che significava che accanto a lei c’era già un avvocato e qualcuno che le avrebbe prestato i soldi per pagare la cauzione pronti per quando ci avrebbero presi. Perché questo era sicuro. L’importante è che ciò non avvenisse prima che avessimo portato a termine il nostro compito. Ci fermammo un’altra volta per comprare un paio di casse di birra, un bel po’ di vodka e Jack Daniel’s e qualcosa da mangiare.
E’ vera la storia che siete stati fermati dai poliziotti e che questi non si sono accorti di nulla?
Sì, è stato quando eravamo ancora nell’hangar all’aeroporto. Io mi presentai all’impiegato della Continental dicendogli che la famiglia aveva deciso di spostare il corpo nell’hangar di un aeroporto privato da cui poi sarebbe partito per la Louisiana. Quello mi credette. Non so come fece, ma mi credette. Stavamo caricando la bara sul furgone di Michael quando sentimmo una voce gridare “Hey voi due!”. Ci girammo in direzione di quel suono e ci trovammo davanti un poliziotto alto due metri. “Hey voi due, non vorrete caricare quella cassa tutta da soli, aspettate che vi do una mano”. Ci aveva fatto prendere un colpo. Ancora oggi stento a credere che sia accaduto. Eppure è proprio così. Ci domandò anche perché non fossimo in divisa da becchini. In effetti eravamo vestiti da veri hippy. Io gli dissi che eravamo ad una festa con delle ragazze quando il boss dell’impresa di pompe funebri per cui lavoravamo ci aveva chiamato chiedendoci di fare quel lavoro anche se quello era il nostro giorno di riposo. Lui sorrise e poi sospirando disse: “ Eh, sì, so come vanno queste cose, purtroppo quando il capo chiama non c’è nulla da fare, bisogna obbedire…”.
Il fatto di aver cremato Gram a Cap Rock aveva un significato particolare?
No, nessuno. Molta gente ha scritto un sacco di stronzate sull’argomento ma in realtà Cap Rock era solo un luogo dove c’era uno spiazzo che ci sembrò adatto a ciò che dovevamo fare. Eravamo stanchi, fatti e bevuti. Non saremmo riusciti ad andare avanti ancora per molto. E poi l’importante era che tutto avvenisse nel deserto di Joshua Tree. Era il luogo stesso, nella sua interezza, ad affascinare Gram. Un giorno mi disse che l’idea di una country music “cosmica” gli era venuta lì.
Dopo aver dato fuoco al feretro siete rimasti lì a lungo?
Beh, mica tanto. Vedevano da lontano delle luci che si avvicinavano quindi non siamo rimasti fino alla fine. Ho saputo poi che la polizia aveva trovato solo ossa bruciacchiate e un po’ di ottone.
Come hanno fatto a scoprirvi?
Ci hanno scoperto solo per caso e perché qualcuno aveva chiamato le guardie forestali segnalando un incendio nel parco. Nessuno si accorse del furto finché l’aereo con cui doveva arrivare la salma non atterrò a New Orleans. Arrivarono a noi solo qualche tempo dopo. Forse fu la moglie di Gram a denunciarci ma di questo non sono veramente sicuro e poi oggi non ha più nessuna importanza. Comunque sia, riuscimmo a non andare in galera. Il processo si tenne il giorno del ventisettesimo compleanno di Gram. Forse fu un segno. Ci dettero una multa di 300 dollari per il furto non del corpo (in California rubare un cadavere non è reato), ma per esserci fregati la bara che abbiamo dovuto ripagare sino all’ultimo verdone. Quasi ottocento dollari.
Questa storia che mi hai raccontato è diventata anche un film “Grand Theft Parsons”. Come sei entrato nel progetto?
Per più di trent’anni c’è stata gente che mi proponeva di collaborare ad un film su quell’episodio. Ma si trattava per lo più di robaccia horror. Non mi dispiacciono i b-movie ma quella era veramente spazzatura. Un giorno arrivarono questi due irlandesi accompagnati da un inglese che mi sembrarono persone serie. Anche perché all’inizio la mia parte sembrava dover essere interpretata da Hugh Jackman. Ma costava troppo e il loro budget era davvero limitato. Comunque il film si fece lo stesso e ne fui abbastanza
soddisfatto. Mi dettero persino una piccola parte. Un cameo come si direbbe. Sono quello che viene portato dentro dai poliziotti alla fine del film.
Quindi sei contento di come Johnny Knoxville ti ha impersonato nel film?
Johnny ha lavorato bene. Si è letto tutta la mia biografia e abbiamo anche cenato una volta insieme. Pur con tutti i limiti di un film, sì credo che mi abbia rappresentato piuttosto bene. La giacca che indossa nel film e la moto che cavalca sono le mie. Il giaccone è lo stesso che portavo quel “fatidico giorno” in cui mantenni la promessa.
Una delle canzoni più famose di Parsons è sicuramente “In my hour of darkness” che sembra davvero un brano autobiografico. Io tra l’altro l’ho incisa dedicandola al road manager di Willie Nelson scomparso qualche tempo fa. Tu sai chi sono i tre personaggi protagonisti della canzone ?
Certo che lo so. Il giovane uomo che muore in un incidente stradale appena fuori Denver è Brandon De Wilde un attore caro amico di Gram, che restò ucciso in un incidente nel 1972. La sua macchina uscì di strada ad una curva appena fuori Denver in Colorado. Il tipo che suonava “la sua chitarra dalle corde d’argento” è Clarence White di cui ti ho parlato poc’anzi; e “il vecchio diventato saggio con gli anni e che lo sapeva leggere come un libro” era Sid Kaiser il guru della marjuana che George Harrison dei Beatles gli aveva presentato.
Tornando agli Stones quanto tempo sei stato con loro?
Come ho già detto, ho cominciato a lavorare per loro nel 1968. Loro erano venuti in America, a Los Angeles per mixare “Beggars Banquet” al celebre Sunset Sound Studio che si trovava a Hollywood.
Erano già delle star. Un amico mi disse se mi interessava un lavoro da cento dollari a settimana in contanti. Eccome se m’interessava. Il mio amico aggiunse che si trattava di fare da segretario a un certo Mick Jagger che io all’epoca, essendo un grande appassionato di musica jazz, neanche conoscevo. Accettai. Quando arrivai agli Studios mi dissero che tutto quello che dovevo fare era di prendermi cura di lui e delle sue esigenze; di fare in modo che arrivasse in studio in orario, che prendesse le sue medicine, che mangiasse a sufficienza e che lo tenessi fuori dai guai. Beh, non era difficile. E poi per cento verdoni a settimana sarei andato persino al Polo Nord. Mi comprarono persino un paio di scarpe e una camicia nuovi di zecca. E mi diedero una macchina, una Cadillac fresca di concessionaria. La mia ragazza pensava l’avessi rubata e invece era tutto vero. Gli dissi: “Baby questa è un a cosa che ancora non conosci. Si chiama “Rock ‘n’ roll”!
E così sei diventato la “tata ufficiale” di Mick Jagger?
Sì, e lui ne era molto contento. Tutti nello staff degli Stones erano contenti di me. Prima che io arrivassi nessuno era mai arrivato in studio in orario ma con me nessuno sgarrava. Una volta arrivammo talmente in orario che i fonici non volevano aprirci i cancelli per entrare increduli del fatto che i Rolling Stones fossero così puntuali. Ci misi un po’ a convincerli, a suon di vaffanculo, che eravamo proprio noi. Terminato il lavoro negli States, Mick mi chiese anche di volare a Londra con loro per stare dietro a Brian Jones che in quel periodo stava partendo del tutto con la testa. Purtroppo dovetti dire di no. Ero ancora in libertà vigilata e non potevo lasciare il paese. Forse se mi avesse avuto vicino Brian non avrebbe fatto quella fine. O forse sì… Chi lo sa?
E con Keith Richards come erano i rapporti?
Splendidi. Io, lui, Anita e Gram andavamo spesso in giro insieme e ne combinavamo di tutti i colori.
Keith è uno che anche quando è fuori di testa sa darsi una disciplina. Questo è ciò che mancava a Gram e purtroppo l’ha pagato con la vita. Richards era capace di stare in piedi fino alle quattro a far baldoria e poi di presentarsi in studio alle sette di mattina prima di tutti gli altri, già pronto con la chitarra tra le mani. Ho sempre detto che “Keith avrebbe potuto mangiare chiodi a cena e l’unica cosa che gli sarebbe accaduta il giorno dopo sarebbe stato di pisciare ruggine”. E’ una frase un po’ forte ma rende bene l’idea. Ha una costituzione fisica che sembra fatta di cemento armato. Ecco perché lui è sopravvissuto e tanti altri no.
C’eri anche quando hanno registrato “Let it bleed” o sbaglio?
Si, i Rolling Stones tornarono a Los Angeles nel 1969. Brian Jones era già morto e al suo posto c’era Mick Taylor. Per soggiornare durante il periodo affittai loro la casa di Stephen Stills. Quando gli Stones arrivarono a casa sua, Stephen non voleva più andarsene. Lui e il suo batterista erano fuori come dei balconi. Dovetti letteralmente prenderli per gli stracci e buttarli fuori. Ormai il contratto era firmato e si dovevano cercare un altro posto in cui stare.
Insomma, ti rendi conto? Hai preso a calci un monumento della musica come Stephen Stills?
Beh, se è solo per questo, una sera ho buttato fuori da una limousine persino Jim Morrison. Era ubriaco e stava diventando insopportabile.
So che c’è una storia intorno alla registrazione di “Country Honk” che in qualche modo ti coinvolge? Cosa mi dici in proposito?
Gli Stones mi dissero che per quel brano di “Let it bleed” volevano un autentico violino country. Chiesi consiglio a Gram che mi suggerì di contattare Byron Berline così gli comprai un volo espresso da Oklahoma City a Los Angeles. Quando Byron arrivò agli studi della Elektra sembrava che avesse appena finito di arare un campo. Un vero contadino. Più country di così. Il loro produttore voleva che sembrasse uno di quei violinisti che suonavano per strada così portammo una sedia e qualche microfono in strada e registrammo lì. Per far sembrare il tutto ancora più vero pagai una mia amica perché andasse su e giù per la strada con la sua macchina suonando il clacson. La canzone sembra incisa in strada perché in effetti lo è davvero!
Quando finì la tua storia con negli Stones?
Veramente non è mai finita. Ogni tanto Keith Richards mi chiama ancora al telefono. Diciamo che lasciai dopo la tragica storia del concerto di Altmont in cui un ragazzo venne ucciso dagli Hell’s Angels. Avrei dovuto occuparmi io della sicurezza ma poi loro decisero di affidarsi a quei motociclisti pazzi e sappiamo tutti come è andata a finire. Se solo mi avessero dato retta…
Abbiamo parlato poc’anzi di un mito come Morrison e allora la domanda sorge spontanea. Hai conosciuto anche Janis Joplin e Jimi Hendrix?
Si, lì ho conosciuti entrambi nel periodo in cui seguivo i Flying Burrito Brothers. Si dividevano spesso il cartellone. Hendrix era un amico dei Burritos e ogni tanto suonava con loro. Ci credereste? Jimi Hendrix amico di una country band? Eppure è tutto vero. Quelli erano anni speciali in cui poteva davvero succedere di tutto.
In “Road Mangler Deluxe” la tua interessante biografia (per ora uscita solo in inglese n.d.r.) parli anche di Charles Manson. Come e quando vi siete conosciuti e quali erano i vostri rapporti?
Ho conosciuto Charles Manson in prigione. Era il 1967. Io ero dentro per spaccio di droga. O meglio a Hollywood negli anni Sessanta se eri una star e ti trovavano un po’ di marijuana non ti condannavano perché era sufficiente che tu dichiarassi che era per uso personale, se invece eri un anonimo lavoratore del cinema e ti trovavano con un po’ di roba, tu potevi in mille modi ai poliziotti che quella modica quantità era per uso personale: loro non ti avrebbero comunque ascoltato e ti avrebbero spedito dritto in galera. Incontrai Manson nel carcere di Terminal Island, un posto che non aveva nulla da invidiare alla prigione di Alcatraz. Vedevo Charlie nell’ora d’aria. Se ne stava seduto in un angolo a strimpellare la sua chitarra. A insegnargli a suonare era stato un ergastolano che faceva parte di una delle più feroci gang di Los Angeles. E, considerate le circostanze, non suonava neanche tanto male. Le guardie lo prendevano spesso in giro ma lui sembrava vivere in un mondo tutto suo. Era dentro per aver “contraffatto dei documenti”, il che mi faceva abbastanza ridere perché Manson sapeva leggere e scrivere a malapena. Non mi stupiva affatto che lo avessero beccato quasi subito. Poi venni sapere che in realtà aveva cercato di incassare dei vaglia postali rubati. Gli avevano dato dieci anni con la condizionale che si giocò quasi subito finendo presto in gattabuia. Quando lo conobbi io stava finendo di scontarli. A quell’epoca sembrava totalmente inoffensivo. Era un po’ fuori di testa, ma non sembrava pericoloso.
E poi com’è stato che l’hai rivisto dopo essere stato rilasciato?
Devi sapere che alla fine degli anni sessanta anche noi a Los Angeles avevamo un quartiere hippy come Haight Ashbury a San Francisco. Era il quartiere di Topanga Canyon, appena fuori L.A..
Lì all’epoca c’era posto per tutti. Le case costavano pochissimo e la vita era molto “easy”. Lì si ritiravano centinaia di ragazzi in fuga da un mondo che sembrava stritolarli; un mondo che tra guerra fredda, il Vietnam e un conflitto nucleare che sembrava poter scoppiare da un momento all’altro; appariva davvero invivibile. A Topanga Canyon sembrava che un altro stile di vita fosse possibile. Lì si faceva festa tutti i giorni, le ragazze erano sempre disponibili e la droga non mancava mai. A noi quello sembrava il Paradiso, anche se forse non lo era. Fui io a cercare Charlie Manson quando nel 1968 uscii di galera. Oggi si parla ancora molto di quello che fece. Fu certamente una tragedia ma secondo me ancora adesso ci sono cose non del tutto chiare. Quando lo rincontrai lui viveva in vecchio bus tutto dipinto di nero circondato da ragazze che lo adoravano e praticamente lo mantenevano. Era una tipica comune hippy con la sola differenza che lui era il solo uomo in mezzo a tante giovani donne. Per qualche giorno, e ne fui molto contento perché ero appena uscito di galera e avevo alcune prevedibili “esigenze”, mi unii anch’io al gruppo apprezzando molto le attenzione e le gentilezze delle ragazze.
Come ti sembrava Manson all’epoca?
A quell’epoca Charlie sembrava un tipo generoso e piuttosto innocuo. Era diventato persino amico di Dennis Wilson dei Beach Boys che gli promise di fargli incidere un disco. Poi non se ne fece nulla e ricordo che Manson ci rimase molto male. E si arrabbiò tantissimo quando scoprì che i Beach Boys avevano pubblicato una sua canzone modificandone il titolo e aggiustandola qua e là.
Mi ero anche già accorto di questo suo “talento” nel controllare la mente delle persone manipolando la loro personalità, ma ripeto, non era per nulla violento e mai e poi mai avrei pensato che arrivasse a fare ciò che ha fatto. Parlava continuamente di pace e amore. Come tutti peraltro in quel periodo. L’unica cosa che cominciò a farmi riflettere fu quando scoprii il suo odio viscerale verso i neri. Diceva frasi senza senso contro di loro e forse fu dopo una delle sue farneticazioni razziste che sia io, sia i miei amici cominciammo a insospettirci.
Ci metteste un po’ quindi a capire chi fosse?
Di tipi fuori di testa era piena la California all’epoca. E poi Charlie era sempre il benvenuto a tutte feste. Quando arrivava lui con le sue ragazze e l’acido migliore che ci fosse in giro ogni party prendeva un’altra piega. Insomma ci faceva divertire. Certo un po’ ci facevano impressione queste ragazze che sembravano completamente soggiogate da lui e facevano qualsiasi cosa lui gli ordinasse, ma il fatto che loro stesse prendessero la cosa come se fosse del tutto normale e la gran quantità di droga che ognuno di noi aveva in corpo non ci permettevano di vedere la situazione con la lucidità di cui avremmo avuto bisogno.
Quando finalmente hai realizzato chi in realtà fosse quell’individuo?
Non mi accorsi di chi fosse realmente Charlie Manson finché non cercai di allontanarmi da lui. Io e i miei amici avevamo finalmente capito che c’era qualcosa che non andava in lui e gli dicemmo che non era più gradito alle nostre feste. Charlie la prese malissimo e giurò di vendicarsi molto presto. Mi disse che me l’avrebbe fatta pagare, che mi avrebbe ucciso prima o poi. La maledetta notte che Manson inviò la sua pattuglia di ragazze “disturbate” a massacrare Sharon Tate, secondo me non erano dirette a casa Polanski, ma stavano venendo da me. Mi stavano cercando per farmi la pelle. La mia casa era vicinissima a quella in cui si trovava Sharon Tate. Quella sera ero fuori. Non sono il solo a pensare che quella notte le ragazze non avendomi trovato casa, nella loro insensata follia, decisero di far fuori la Tate e tutti gli altri. Al posto mio.
Poco dopo il suo arresto, come se niente fosse, ma la pazzia è anche questo, lui cominciò a tempestarmi di telefonate. “Non c’entro niente” mi diceva, piangendo al telefono. Credeteci o no, mi faceva persino pena.
In che senso ti faceva pena?
Diciamo che forse più che farmi pena mi faceva sentire un po’ in colpa. Avevo vissuto con lui per un po’ e adesso come tutti lo abbandonavo. Lo so a pensarci ora non ha senso ma un po’ per sdebitarmi con lui e un po’ perché non lo so nemmeno io, gli organizzai un’intervista con la rivista Rolling Stone in cui spiegò la sua versione dei fatti. Io non credo che lui abbia mai ucciso nessuno personalmente. Forse non ne era nemmeno capace o forse era troppo furbo per farlo personalmente. Quello che è certo è che lui manipolò le menti di quelle ragazze fino a farle diventare delle perfette macchine assassine. Certo mi faceva una certa impressione pensare che avevo fatte sesso con ciascuna di quelle ragazze capaci poi di commettere simili atrocità.
E come fu che diventasti il suo produttore discografico?
Come risarcimento per lo scampato pericolo pensai che dovessi guadagnare qualche soldo da tutta quella faccenda. Forse ero un po’ folle anch’io. Così nel 1971 decisi di far uscire un disco con delle vecchie incisioni di Charlie. Per la cover prendemmo la copertina del numero di LIFE in cui c’era stampato il viso “diabolico” di Manson, con quei suoi occhi da pazzo che sembravano scavarti dentro. Insomma il celebre “sguardo di Satana”. Togliemmo la “effe” di LIFE e lasciammo la scritta così com’era. Adesso ero diventato il produttore di “LIE” il primo e unico disco di Charlie Manson. Forse avrebbero dovuto rinchiudere anche me. Il disco come prevedibile vendette pochissime copie. Nessuna delle persone coinvolte nel progetto volle apparire con il proprio nome e poi quasi subito ci vergognammo tutti dell’operato. Una notte una delle sue “folli ragazze” entrò a casa mia (e per fortuna non c’ero nemmeno quella volta) e si portò via con l’aiuto di qualcuno quasi tutte le tremila copie che avevamo stampato. E andò bene così. Charlie mi scrive ancora oggi. Non spesso ovviamente. E tra mille frasi senza senso si reclama sempre innocente. Peccato che nei suoi occhi di vecchietto ci sia ancora una certa luce sempre un po’ inquietante.
Tu hai lavorato con tantissimi artisti. Puoi darmi una definizione o un ricordo di ciascuno di loro:
Frank Zappa: Ho iniziato a lavorare con lui dopo che il suo road manager si era suicidato a Las Vegas nel 1979 per aver perso tutto al gioco. Ho fatto due tour con lui: uno in Europa e uno negli States. Una persona molto seria e un grande professionista. Quando si lavorava non voleva vedere nessuno fatto o bevuto. L’unica cosa che ammetteva era il caffè che consumava in dosi massicce. Un giorno alle prove della band, per scherzare, mi avvicinai a uno dei microfoni e improvvisai un assolo di trombone fatto con la bocca. Lui dai camerini mi sentì e da quella sera cominciò ad invitarmi sul palco presentandomi come “il trombone umano”. Era una persona profonda, affidabile e con un grande senso dell’umorismo.
Emmylou Harris: Una grande cantante e una persona straordinaria. Diventa ogni giorno più bella. Sembra che il tempo per lei non passi mai. Ci vogliamo molto bene. Un tempo giravo con una maglietta con su scritto: “Chiunque faccia un torto ad Emmylou poi dovrà vedersela con me”.
Willie Nelson: Anche lui è un grande. L’ho conosciuto negli anni ottanta quando lui e Emmylou fecero diversi tour insieme.
Joe Cocker: Uno con cui non è facile lavorare. La moglie mi pagava per tenerlo lontano dall’alcol, cosa quasi impossibile. Era intrattabile e passava tutto il giorno a bere Bacardi e Diet Coke. La Diet Coke per non ingrassare! Poi saliva sul palco e sembrava un’altra persona. Riusciva persino a farsi perdonare. Ray Charles un giorno mi disse che Joe era il suo cantante preferito.
Flying Burrito Brothers: Per me il solo e vero album dei Burrito è “The Guilded Palace of Sin”. Dopo di quello si sono autodistrutti. Se avessero avuto intorno le stesse persone che lavoravano per i miei amici Eagles adesso sarebbero anche loro delle star.
Jimmy Smith: Forse il peggior artista con cui ho dovuto lavorare. Era maleducato e sempre ubriaco. Resta comunque uno dei più grandi organisti di tutti i tempi….
Etta James: Un’artista di grande talento e una vera amica.
Nanci Griffith: Ha un grande fascino sul palco e sa come scrivere canzoni. E’ una cantante favolosa e un’amica sincera.
Marianne Faithfull: La più bella donna nuda che abbia mai visto! Non c’entra nulla con la musica, ma è la verità!
Qualche hanno fa hai combattuto una dura battaglia contro il cancro. Lì hai avuto modo di verificare quali fossero i tuoi veri amici in ambito musicale. Cosa mi dici in proposito?
Nel marzo del 1996 mi hanno diagnosticato un tumore alla prostata. Come molti nell’ambiente della musica anch’io non avevo abbastanza soldi per curarmi al meglio. E fu in quella occasione che i miei amici si dimostrarono davvero tali. L’8 ottobre dello stesso anno Emmylou Harris, Nanci Griffith e tanti altri organizzarono al Ryman Auditorium di Nashville un grande concerto per raccogliere fondi in mio aiuto. Lo chiamarono “Concert for Manglerdesh”. A suonare quella sera oltre a Nanci ed Emmylou con le loro band al gran completo, ci furono Guy Clark, BR-49, Sam Bush, Rodney Crowell, Steve Earle, Vince Gill, John Prine, Buddy Miller, Marty Stuart, Trisha Yearwood e tanti altri. Dalla vendita dei biglietti e del doppio cd (quasi un bootleg) registrato quella sera raccolsi abbastanza denaro per permettermi le migliori cure possibili. Oggi sono guarito. Se sono rinato lo devo tutto ai miei amici musicisti. Non so come avrei fatto senza di loro.
Vorresti ancora essere seppellito nel deserto di Joshua Tree?
A questo punto della mia vita non è più così importante. E poi quella era una cosa tra me e Gram. E lui adesso non c’è più. Qualcuno qualche tempo fa mi ha chiesto: “Se al posto tuo ci fosse stato Gram pensi che lui avrebbe fatto la stessa cosa”? Ho detto loro che se avessero conosciuto Gram come l’ho conosciuto io non avrebbero avuto bisogno di farmi quella domanda…
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Li potete trovare anche su www.amazon.com
Ecco la mia versione di “In my hour of darkness” di Gram Parsons
Enjoy.
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Ale dice
Articolo fantastico! Tantissime chicche per chi del Rock ne fa aria da respirare! :) Grazie e buon lavoro!
Mauro dice
Che storia!
Bravo Fabrizio.
Davvero interessante.
Grazie
Giovanni dice
Non si finisce mai di imparare.
L’ho già riletta tre volte. Davvero bella.
Grazie Folk Bulletin per questa intervista.
Poggi ne conosce di storie, e riesce sempre ad appassionarci.
ciao
sergio dice
Fabrizio il tuo modo di documentarti ed entrare in sintonia con i tuoi tanti interlocutori è straordinario.Più che un’intervista è davvero un piccolo pezzo di storia del rock, raccontata da chi, di quella storia, ha fatto parte.
don claudio(ne) dice
una storia
mille storie
…frammenti di globuli rossi sparsi sulle mille strade che ci portano a quell’incrocio dove possiamo incontrare il diavolo ed incamminarci poi verso il vicolo della redenzione….
hasta bien compadre
ti saluto con un fraterno abbraccio e… facci sempre partecipe di storie che, anche se hanno il sapore della carta vetrata, raccontano le scarpe bucate del rock’n’roll
……scarpe bucate perché la strada percorsa è stata davvero lunga e l’orizzonte è davvero lontano, sempre un po’ più in là…
altri sentiri polverosi percorreranno le nostre suole, ma ci aspettano altre mille storie di rock’n’roll e saranno sempre le stringhe di una chitarra o le ance di un’armonica a regalare una manciata di colori per scaldare i cuori e dipingere le nostre visioni…..
happy trails
god bless you and your dreams
don claudio(ne)
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