A uno dei fondatori del gruppo padovano, il compito di rispondere a qualche domanda, con l’intenzione di ricostruire un po’ di passato e illustrare un po’ di presente di una delle formazioni storiche del folk italiano.
Anche Calicanto arriva a festeggiare i trent’anni di ininterrotta attività. Cosa ricordi con maggiore nostalgia (gioventù a parte) dei vostri inizi?
Ultimamente ricordo spesso, devo proprio dire con una certa nostalgia, quell’aura di magia che per noi, allora neofiti, avvolgeva le musiche e soprattutto gli strumenti della musica popolare italiana. Di questi, in particolare, conoscevamo pochissimo anche perché allora su organetti,ghironde,cornamuse e dintorni non si era ancora sviluppata una didattica, produzioni di dischi e libri, ma proprio per questo motivo questi oggetti sonori catturavano la nostra attenzione e il nostro immaginario che di lì a poco si sarebbe sviluppato nelle forme più svariate. Ricordo spesso ai giovani che gran parte dei nostri inizi musicali sono stati spesi unicamente per capire come cavolo funzionavano ‘sti strumenti saltabeccando tra anziani suonatori , botteghe di liutai e costruttori per mettere in squadra un vecchio organetto o per cavare qualche suono decente dalle prime ricostruzioni di piva. Esperienze ed emozioni uniche che forse oggi, tra lezioni in rete e acquisti via mail, rischiano di sembrare un po’ superate, ma che sono legate indissolubilmente alla mia fase musicale più ruspante e viscerale e hanno scandito in miei primi veri passi di musicista e credo anche di altri della mia generazione.
Questi trent’anni sono stati caratterizzati da numerosi cambi di formazione, alcuni apparentemente indolori, altri vere e proprie cesure fra un periodo storico e un altro. A cosa pensi che sia dovuta, in generale e nel vostro caso specifico, questa instabilità all’interno dei gruppi folk?
Premetto che all’origine siamo partiti come trio (io,mio fratello Giancarlo e Massimo Fumagalli), quindi due terzi della formazione resiste ancora! Battute a parte, come diceva Corrado Corradi (per oltre quindici anni una delle colonne portanti del gruppo), l’esperienza Calicanto è stata per molti scuola di vita. Nel nostro piccolo microcosmo ne abbiamo viste e condivise di tutti i colori superando momenti molto difficili sia a livello personale che di gruppo. La cosa di cui un po’ vado fiero è che al di là dei contrasti e delle amarezze legate a improvvise scomparse (impossibile non ricordare Riccardo Sandini), inevitabili divergenze,contrasti e abbandoni, la qualità delle persone che sono passate di qua ha permesso che anche i contrasti più aspri, le animosità e le scelte personali più estreme siano state superate sempre in modo civile. Cosa che ha consentito negli anni anche piacevoli rimpatriate come quando lo scorso ottobre mi è capitato di rivedere ad una festa di matrimonio l’amico Massimo Fumagalli che veniva apposta dalla Svizzera. Aveva una nuova fisarmonica (ed una nuova donna… clarinettista), abbiamo unito le forze ed è stato un grande piacere far ballare decine di persone come ai vecchi tempi e qualche amico, forse di parte, ci ha detto che sembrava non avessimo mai smesso di suonare insieme.
Riguardo l’instabilità delle formazioni folk penso sia in parte dovuta al fatto che pochi sono gli ardimentosi che in Italia si siano potuti permettere la scelta del professionismo a 360 gradi e che l’instabilità economica e i pochi fondi per la cultura abbiano avuto un grosso peso nella coesione e nella longevità di molti gruppi.
Fra i gruppi italiani, siete forse quello che ha più e meglio cantato il vostro territorio di origine. Venezia, il Veneto, il mare Adriatico sono proprio una fonte inesauribile di ispirazione?
Credo proprio di si. Tutti noi, anche i più giovani, subiamo il fascino del mare e della laguna ed è una vera gioia quando ci chiamano a suonare a Venezia (recentemente al teatro Malibran), nelle isole lagunari o nel Delta del Po.
Francesco Ganassin stesso, nel nuovo cd dedica 2 brani a 2 luoghi incantevoli come Burano e Porto Caleri.
Con Francesco e Giancarlo poi si va spesso a camminare sui Colli Euganei, sul Grappa o all’isola di Pellestrina, il paesaggio veneto così variegato (capannoni a parte), le letture dei nostri amati Rigoni Stern, Biagio Marin, Meneghello, rimangono un costante bacino di stimoli che poi vengono esaltati quando un concerto o altre occasioni ci portano sulle tracce della cultura veneziana nelle isole dalmate,egee o magari sulle Dolomiti.
Il suono d’insieme di Calicanto è sempre stato caratterizzato da un certo velo di malinconia: anche l’allegria, pur copiosamente presente, è composta e garbata, talvolta quasi frenata. Ti riconosci in questo e sai darne una spiegazione?
Si certo. Condivido la tua osservazione, è sempre stato così. Credo che essere pregni di Venezia inevitabilmente ti porta ad una certa introspezione, alla risata composta, spesso ultimamente, per ciò che mi riguarda, al silenzio. Credo molto sia dipeso dalle suggestioni dell’inizio della nostra storia e dalle persone e dai musicisti che sono passati. Forse è un caso ma in generale mi pare di poter dire che molte di queste persone che oggi non vedo quasi più, sono state caratterizzate da una certa sobrietà, addirittura in alcuni casi da una certa riservatezza che in questo momento storico non posso che apprezzare ancora di più.
Frequentando l’acquerello mi sono con gli anni affezionato particolarmente alle variazioni del turchese, colore in cui ritrovo questa malinconica allegria di cui parli. Se penso alla musica di Calicanto la sento con queste tonalità cromatiche.
Dentro il marchio Calicanto si cela un numero davvero notevole di proposte spettacolari diverse. Dal tuo spettacolo in solo alla collaborazione del gruppo con grandi orchestre o compagnie teatrali, qual è il filo rosso che lega tutti questi progetti?
Fin dai tempi della grande collaborazione con Corrado Corradi si era sviluppata una certa curiosità per il mondo teatrale, per lo stare in scena cercando di dialogare il più possibile attraverso le nostre musiche.
Forse fu anche un cercare una nostra dimensione che ci permettesse, attraverso un ”riuso creativo” della tradizione popolare più ampio, di sottrarci ad alcuni stereotipi dei gruppi folk anni ’70.
Negli anni più dinamici ci interessammo di animazione, commedia dell’arte, teatro di strada, musicoterapia, disabilità e malattia mentale. Credo alla base ci fosse una sorta di “arrapamento”, in parte anche a noi stessi ignoto, una sorta di intuito e di curiosità che ci guidava in questa direzione piuttosto che passare magari giornate intere su e giù per le tastiere dei nostri strumenti ( a cui ci dedicammo tuttavia con convinzione in una fase successiva).
Insomma l’istinto ci portava da quella parte. Non nascondo che a volte qualcuno di noi avrebbe preferito riallinearsi su partiture e contrappunti e concentrarsi maggiormente sulla cosiddetta pratica musicale, tuttavia col tempo questa duttilità e’ diventata una delle nostre caratteristiche e ci ha consentito di partecipare a spettacoli teatrali importanti come ultimamente quelli con La Compagnia Pantakin da Venezia, Titino Carrara e Laura Curino.
Veniamo a questo ultimo “Mosaico”, ancora una volta un preciso riferimento a una forma d’arte che nel bacino dell’Adriatico e a Venezia ha trovato massima espressione. In scaletta, i brani di tradizione sono numericamente equivalenti a quelli di composizione: questo significa che le tessere originali del vostro personale mosaico artistico cominciano a scarseggiare?
Non direi. Nel disco l’equivalenza tra brani tradizionali e di composizione non è casuale, essa è stata calibrata in base ad esigenze ed equilibri decisamente di carattere artistico, metabolizzando con cura nuove composizioni e brani tradizionali riarrangiati.
In merito al rapporto con la tradizione devo dire che oggi questo è vivo più che mai anche grazie al recente ritrovamento di alcuni manoscritti di danze dell’area dolomitica di notevole interesse che probabilmente diventeranno oggetto di future pubblicazioni e spero di uno spettacolo in cui cercheremo di coinvolgere altri amici musicisti delle aree montane limitrofe.
In questo disco, sia pure solo come ospite all’arpa, compare tuo figlio Alessandro. Ce lo introduci come musicista, insieme al vostro nuovo e giovane percussionista Alessandro Arcolin?
Alessandro ha 16 anni e frequenta il liceo classico e la classe di composizione al conservatorio di Padova. Da quando era bambino ha sempre seguito con una certa attenzione le vicende di Calicanto. Quando facevamo lunghi viaggi in auto i nostri cd erano una delle sue compagnie preferite. Col tempo ci siamo accorti che aveva metabolizzato gran parte del repertorio del gruppo del quale aveva imparato testi, passaggi, sequenze, interventi strumentali. A 8 anni scelse di cominciare a dedicarsi al clarinetto frequentando la banda del nostro paese, Teolo. Successivamente alle scuole medie, grazie ad un amico valido insegnante, si appassionò alla musica d’insieme finché un giorno, complice un concerto di Vincenzo Zitello, fu catturato dall”arpa e da quel momento la sua e la nostra vita familiare cambiò decisamente. In questi anni in punta di piedi ha fatto spesso delle apparizioni all’interno dei concerti di Calicanto. Nell’ultimo cd è un ospite importante che ci regala anche una bella composizione dal titolo “Barene” che poi è anche il titolo del suo suo primo cd che sarà missato in questi giorni e che a breve uscirà distribuito da Felmay.
Per pudore paterno mi fermo qui, aggiungo solo che penso che questo cd sarà per molti una bella sorpresa.
Alessandro Arcolin (detto Arco) ha venti anni, è stato mio allievo al liceo dove insegno e poiché in quella scuola da vari anni sono attivi dei laboratori musicali e teatrali di buon livello, c’è stata l’occasione di fare un lavoro e uno spettacolo insieme piuttosto articolato sulle musiche del Mediterraneo che si chiamò “Nostromare”. Alessandro proveniva dalla musica rock e progressive ma non fu difficile per lui lentamente appassionarsi alle musiche mediterranee e poi a quelle di Calicanto. Quando dopo il terzo figlio, Paolo Vidaich (nostro ex percussionista) ci confidò che aveva intenzione di fermarsi, ci siamo guardati in giro e la scelta è caduta proprio su Arco che dopo aver preso per bene le consegne da Paolo si è inserito con entusiasmo portando vagoni di energia e di simpatia (e abbassando notevolmente la media degli anni del gruppo).
Dicci con franchezza: se nel 1983, dopo due anni di attività dal vivo, all’uscita di “De là de l’aqua”, qualcuno avesse detto all’architetto Tombesi che nel 2011 sarebbe stato ancora in pista a tirar mantici e a grattugiare dita sulle corde avresti avuto il coraggio di credergli?
No, ma sarebbe stato bello solo sfiorarne l’idea!
Pellestrina Onderod from Carlo Buffa on Vimeo.
[…] trent’anni del gruppo e in parte proprio su questa nuova produzione. Rimandiamo all’intervista (che trovate archiviata nella sezione ARGOMENTI/INTERVISTE) per il soddisfacimento di molte curiosità e limitiamoci a trasferire, o almeno a tentare di, le […]