di Andrea Del Favero
Joan Baez ha annunciato il suo ritiro dalle scene e ha scelto di farlo con un lunghissimo tour che finirà a metà 2019 e con l’uscita di un disco, prodotto da Joe Henry, dopo essersi affidata a Steve Earle nell’uscita discografica precedente. Questo disco mi gira tra le mani dalla primavera, l’ho ascoltato e riascoltato in auto e a casa, ammirandone l’ottima resa sonora. Ho preferito ascoltare il concerto della Baez dal vivo nella sua ultima tournée italiana, l’8 agosto al castello di Udine, prima di scriverne.
Vi confesso che per molto tempo, pur ammirando la donna e il suo impegno, la sua dolce fermezza, la sua gentilezza da vera signora, non ho particolarmente amato il suo vibrato con il quale infarciva un po tutti i brani, indipendentemente dalla provenienza. E sinceramente, sotto il profilo della country music, ho sempre preferito Dolly Parton o Emmylou Harris.
Detto ciò, c’è da sottolineare come nelle ultime prove, persi gli orpelli pop voluti da Geffen negli anni Novanta, la Baez abbia un tono più asciutto e convincente. Colpa dell’età che avanza e della voce che le consente meno acrobazie oppure merito dei nuovi produttori? Fatto sta che questo disco, come il precedente Day After Tomorrow, è una piccola chicca da ascoltare e riascoltare con calma, senza fretta, lasciandosi trascinare in un vortice di riflessiva dolcezza e di bellezza.
L’apertura è riservata a un brano firmato Waits/Brennan, seguito da sciintillanti versioni di Be Of Good Heart e Silver Blade, entrambi di Josh Ritter. Sorprende Another World di Anthomi (ovvero Anthony di Anthony and The Johnson), insieme con la monumentale The President Sang Amazing Grace, scritta da Zoe Mulford, folksinger della Pennsylvania, brano magistralmente interpretato da Joan anche nei suoi concerti.
E’ poi la volta di Civil War, scritta da Joe Henry e ancora Tom Waits con Last Leaf. Grandi interpretazioni della Baez, che fa propri questi brani, con grandissima personalità e grazie uno splendido lavoro in fase di produzione che circonda la voce ancora affascinante della folksinger americana di una calibrata scelta di colori strumentali.
Le successive The Things That We Are Made di Mary Chapin Carpenter e The Great Correction di Eliza Gilkyson siamo su ambienti musicali più normali per la Baez, meno sorprendenti se vogliamo, ma ancora di gran qualità.
Il finale è lasciato alla simbolica I Wish The Wars Were All Over, di Tim Eriksen, con un testo fortemente rappresentativo di quello che è stata la carriera della Baez, sostenitrice di movimenti di lotta e liberazione, e musicista di gran valore.
Produzione superba, così come il lavoro dei musicisti che affiancano Joan Baez in questo suo bel disco, altamente consigliato.
Come il suo ultimo concerto: una grande bellezza!
Lascia un commento