di Maurizio Bettelli
Flannery O’ Connor è una scrittrice americana nata in Georgia, nel sud degli Stati Uniti, in quella parte d’America dove il tempo sembra rimanere sospeso e i suoi abitanti paiono intrappolati in un perverso incantesimo che confonde dannazione e salvazione e che trascina loro e le loro vite in una spirale senza fine, alla disperata ricerca di una via d’uscita che molto probabilmente non esiste. La loro dannazione è nel portarsi addosso la grande ombra inquietante della loro imperfezione (sia essa una malformazione fisica, un disagio mentale, un senso di colpa frutto di una religiosità malsana o conseguenza di perversioni o dipendenze), la loro salvezza è nella ricerca spasmodica di una possibilità di espiazione, di una possibilità di riscatto o, più spesso, di in una via di fuga. Uno dei romanzi più celebri di Flannery O’ Connor si intitola La vita che salvi può essere la tua e racconta la storia di un vagabondo male in arnese, per giunta con un braccio malforme, che capita in una fattoria del sud degli Stati Uniti e si offre a due donne (madre vedova e figlia sordomuta) come aiutante tuttofare, in cambio di un tetto, un pasto e la possibilità di sistemare una vecchia auto abbandonata in garage e appartenuta al marito della vedova. In breve la figlia e il vagabondo si innamorano, forse consci entrambi della loro menomazione e convinti di riscattarsi nel matrimonio. Il giorno delle nozze, durante la luna di miele, il vagabondo abbandona la sua sposa in un drive-in lungo la strada, su quella stessa strada che avrebbe dovuto condurli alla loro felicità, alla loro salvezza, e scappa via sulla macchina del padre della sposa, lasciando la giovane moglie senza un soldo, senza un mezzo e senza la possibilità di farsi capire, isolata nel suo mutismo. Prima di aprire la porta del drive-in che lo avrebbe condotto alla dannazione eterna, lo sguardo del vagabondo cade su un cartello appeso dietro al bancone del bar che dice: Guida con prudenza. La vita che salvi può essere la tua.
Nel presentarsi al pubblico, durante i suoi concerti, Mary Gauthier, non fa mistero dei suoi trascorsi burrascosi. Come uno dei tanti personaggi usciti dalle pagine di Flannery O’ Connor, anche lei si porta dietro un’ombra: la sua dipendenza dall’alcol. Ma con dignità e coraggio ci racconta come ha trovato la via del riscatto, la via della sua salvezza. In un filmato reperibile su YouTube (Saved by a Song/ Mary Gauthier https://www.youtube.com/watch?v=pWTyAgWLNtc), parlando della sua esperienza, Mary ci dice:
Lavoravo in un ristorante a Berkeley accanto al Music College e molti musicisti e autori di canzoni frequentavano quel ristorante. Ero circondata dalla musica, quando sentii il richiamo delle canzoni. E mi ci aggrappai come un naufrago perso nell’oceano si aggrappa al salvagente. Ho scritto canzoni su come sono finita in galera e su come mi sono obbligata a curarmi per uscire da questo stato di oblio (dovuto all’alcool, ndr). Le mie canzoni erano pesanti, difficili, e per qualcuno fastidiose. Quando andavo in giro a cantarle, il pubblico era diviso a metà, e forse ancora oggi lo è. Una parte delle persone mi dice – Oh mio dio come sono pesanti e cupe…-, conoscete il tipo di commenti, ma c’è un altro gruppo di persone che alla fine del concerto vengono da me piangendo e mi si avvicinano bisbigliando: – Grazie! Quello di cui canti è mio fratello… è mio padre… sono io –. Quella parte di pubblico mi ha infuso coraggio, speranza e mi ha spinto a continuare. Ho deciso di restare sobria e di prendermi cura delle canzoni che giungevano a me e di ignorare tutte le altre menate. Mi hanno definita una sorta di Leonard Cohen lesbica… perché no, nessuno ha ancora provato a farlo, no?”
Fin qui, niente di nuovo. Come in tante storie di redenzione, la peccatrice, perduta e ritrovata, si lascia andare ai canti autobiografici, magari cantando Ero sempre ubriaca ma ora sono sobria, parafrasando i versi del noto inno cristiano Amazing Grace. E così infatti ha fatto. Per anni Mary è stata una sorta di racconto vivente che di città in città, di stato in stato, portava in giro la sua storia di dannazione e di salvezza, salvezza che però non è stata il risultato di lodi al Signore di costrizione, pentimento o penitenze, bensì è arrivata attraverso la musica. Musica come cura dell’anima, canzoni come medicine per ritrovare sé stessi, canzoni per guarire.
Dice più avanti Mary, nel corso della medesima registrazione recuperata su YouTube: Ho scritto tante canzoni, ho imparato parecchio sulle canzoni e su come scriverle. Quello che so per certo è che le canzoni sono molto di più di un prodotto commerciale, messo in commercio da multinazionali che livellano la musica verso il basso. A me le canzoni hanno salvato la vita, sono una sorta di medicina spirituale per un mondo che sta andando a male.
Ma questa medicina, potrebbe forse curare altre anime oltre alla sua? Davvero, come dice Mary, le canzoni potrebbero diventare la medicina spirituale per un mondo malato? Se Mary Gauthier fosse stata un personaggio di Flannery O’Connor, molto probabilmente se ne sarebbe uscita da questa storia sbattendo la porta e lasciandosi alle spalle i mali del mondo, tenendosi per sé il bottino della sua salvezza. E invece, e per fortuna, Mary non è figlia della O’Connor. Per quanto entrambe siano state partorite e nutrite dalla medesima terra, il riscatto di Mary non ha segnato la fine di un racconto, bensì l’inizio di una nuova storia.
Mary si avvicina a una associazione che si occupa del disagio dei veterani americani, reduci dalle tante guerre in cui sono coinvolti gli Stati Uniti. L’associazione si chiama Songwriting With Soldiers e mette in contatto i cantautori che desiderano collaborare a questa iniziativa, con un gruppo di ex militari rimasti segnati, nel fisico o nella psiche, dal servizio militare attivo nelle zone di guerra. Il fine terapeutico perseguito è quello di aiutare i veterani a liberarsi dalle storie che li opprimono e che li rendono incapaci di reinserirsi nella normalità della vita che vivevano prima. Questa collaborazione coinvolge, oltre agli artisti e agli ex-militari, anche le famiglie dei veterani per cui la guerra non è mai finita e, citando le parole di Mary, continua in casa in una sorta di guerra dopo la guerra. Torniamo a quel filmato di YouTube e ascoltiamo questa esperienza dalle parole di Mary:
Un’anima che ha sofferto un trauma, sente un profondo senso di vergogna e tende a isolarsi, a non integrarsi col gruppo. Questo è ciò che è successo a molti veterani traumatizzati dalla guerra del Vietnam. Io penso che le canzoni possano aiutare a colmare il vuoto lasciato da un trauma perché le canzoni creano un legame di empatia, ci conducono attraverso l’esperienza di un’altra persona che noi comprendiamo, forse meglio, attraverso ciò che noi abbiamo sperimentato, E allora, una canzone può salvare il mondo? Ma non saprei. Le canzoni possono cambiarti il cuore, aprirti il cuore.
Nelle mani giuste una chitarra può fare un mucchio di cose, sicuramente può essere usata come una macchina per fare soldi, è stata usata come strumento di seduzione, usata come un espediente per scappare via o come anestetico per spegnere i contatti col mondo. Ma nelle mani giuste e per una giusta causa, questa diventa un generatore di empatia e le canzoni possono aprire il tuo cuore. Se il tuo cuore si apre, anche la tua mente si apre, e allora sperimenti le emozioni di un’altra persona e gli stereotipi svaniscono, i pregiudizi, i preconcetti, si sgretolano. Se apri la mente a qualcuno, significa che stai cambiando quel qualcuno. Una canzone apre il cuore, un cuore aperto apre la mente e una mente aperta può cambiare una persona. Quale altro modo esiste per cambiare il mondo? Io credo che le canzoni abbiano questo potere. Ascoltare i racconti, le voci delle persone e le loro storie e riscrivere quelle storie in forma di canzone, questo significa essere un cantautore, questo è il mio mestiere. Le canzoni e lo scrivere canzoni fanno sì che io sia qui a cantare.
Il disco che raccoglie undici vite di altrettanti veterani dell’US Army si intitola Rifles and Rosary Beads (letteralmente: Fucili e grani di rosario) ed effettivamente, sgranando i grani di quelle vite ci si ritrova ad ascoltare i misteri dolorosi di un rosario fatto di orrori e violenze, di famiglie frantumate e di poveri soldati le cui menti, come schegge impazzite, vagano in un territorio popolato da ombre e sensi di colpa dove non c’è confine tra passato e presente, dove si mescolano dannazione e salvezza, dove la vita è sospesa in un tempo che non è. I testi delle canzoni sono giustamente firmati da Mary Gauthier, dai soldati che hanno raccontato le loro vite e dai famigliari dei veterani che hanno contribuito col loro dolore. La produzione musicale, tanto impeccabile quanto emozionale, è stata affidata a Neilson Hubbard che partecipa alle registrazioni anche in qualità di batterista. Le canzoni alternano ballate in classico stile Country prog con canzoni dove l’intreccio tra chitarre elettriche, percussioni ritmate e controcanti di slide guitar, mandolino, viola e violino creano quel gioco di trama e ordito su cui la voce sicura di May Gauthier trova le sfumature giuste per dare credibilità e spessore ai suoi racconti. Il pianoforte e i fiati tratteggiano con pennellate misurate ed efficaci la profondità di uno sfondo ricco di chiaroscuri. I musicisti che hanno contributo alla realizzazione di questo album straordinario, dai suoni e dai contenuti eccezionali, sono, ovviamente, Mary Gauthier (voce, chitarra e armonica), Will Kimbrough (voci, chitarra, mandolino), Danny Mitchell (voci, piano, fiati), Kris Donegan (chitarra), Michael Rinne (basso), Odessa Settles e Beth Nielsen Chapman (cori). Non credo che la presenza di Beth Nielsen Chapman nella registrazione di questo album sia casuale. Figlia di un ufficiale di aviazione in forze al US Army, Beth ha vagabondo al seguito del padre e della sua famiglia dall’America all’Europa per tornare in Alabama negli anni delle battaglie per i diritti civili. E nel ritornello della canzone che chiude l’album, Stronger Together, il controcanto di Beth sulle due parole chiave, pur sforzandosi di mantenere una voce ferma e determinata cede a un accenno di commozione e si arriccia in un tremulo che ci colpisce al cuore e allo stomaco e ci rende tutti quanti partecipi di quel dolore e della necessità dei famigliari dei soldati, e soprattutto delle mogli, di trovare la forza per rimanere unite e, allo stesso tempo, di restare unite per mantenersi forti. In un attimo ci corrono alla mente quegli sguardi vacui, quei sorrisi malinconici e quelle lacrime soffocate di Maril Streep, nei panni della moglie di Nick, e di Rutanya Alda, in quelli della moglie di Michael, ambedue interpreti indimenticabili de Il cacciatore di Michael Cimino.
Sulle musiche che raccontano le vite di questi undici soldati, a volte come una carezza pietosa, a volte come uno sguardo pieno di grazia e dolcezza, scivolano le note del violino sentimentale di Michele Gazich, che come un filo sottile intriso di pathos si svincola dalle profondità della sofferenza e affianca Mary nell’indicare ai reduci il loro percorso salvifico. Michele ha anche curato la traduzione in italiano dei testi di Mary Gauthier e che impreziosiscono un libretto esaustivo curato da Appaloosa Records per l’edizione italiana distribuita da IRD. Ambedue le aziende stanno portando avanti con impegno e passione un percorso musicale di qualità con punte di grande livello artistico e culturale come questo Rifles and Rasary Beads che, a quanto si sa dalle cronache, è tra i primi 5 dischi nominati per il Grammy Awards 2018.
Se le canzoni sono medicine che possono salvare la vita ai vivi, come ci ha insegnato Mary Gauthier, su un altro continente, distante solo geograficamente dall’America della cantautrice della Louisiana, Michele Gazich ci dimostra quanto queste medicine possano anche salvare dall’oblio l’esistenza di alcune persone che sono transitate in uno dei luoghi più tristi e orrifici di una delle città più belle del mondo, durante gli anni bui del ventennio fascista. La città è Venezia, il luogo è l’Isola di San Servolo, manicomio che ha spalancato le porte e tolto i chiavistelli dalle camerate nel 1978, sotto la spinta liberatoria di Basaglia e della sua Equipe medica. Le persone, le cui esistenze sono state sepolte nell’oblio degli archivi dell’Istituto psichiatrico, sono un gruppo di ebrei ricoverati dopo la promulgazione delle leggi razziali da parte di Mussolini nel 1938 e consegnati ai nazisti perché li deportassero nei campi di sterminio. Nessuno di loro è tornato vivo dai campi e la loro esistenza sarebbe rimasta per sempre ignota se Michele Gazich non avesse accettato di partecipare al progetto Waterlines – residenze letterarie e artistiche a Venezia– e di vivere per l’intero mese di ottobre 2017, all’interno dell’ex manicomio di San Servolo. Durante questi trenta giorni, Michele, come un moderno Diogene, ha illuminato con la sua lanterna gli archivi polverosi dell’istituto e ha passato in rassegna una certa quantità di cartelle cliniche fino a scoprire che dal 1940 all’ottobre del 1944 il manicomio fungeva da anticamera per i campi di sterminio per gli ebrei veneziani. Queste vittime innocenti, finivano sotto le grinfie di solerti medici e infermieri che, con metodo e spietata freddezza, si prodigavano nell’annullare ogni capacità di reazione, ogni facoltà di intendere e volere, in queste persone con ininterrotte sedute di elettroshock, con terapie a base di iniezioni di zolfo o con la somministrazione di psicofarmaci e sedativi. Così dalla polvere degli scaffali, sono venuti a galla i nomi, le foto sbiadite, le agghiaccianti descrizioni di fantomatiche malattie mentali e le spietate terapie, fino alla fatidica parola ritirato, scritta con mano ferma e zelante sull’ultima pagina della cartella clinica, che, come un sigillo della Santa Inquisizione, avrebbe precluso per sempre agli ebrei veneziani ogni possibilità di salvezza. Prendendo a prestito il paradigma Foucaultiano che ribalta i termini della psicoanalisi e rilegge il disagio mentale non in termini di malattia, bensì di creatività, Michele entra nelle menti, negli occhi, nei cuori e si infila nei corpi martoriati dall’elettroshock di quei poveri disgraziati e trasforma la loro pazzia (più indotta dai medici del manicomio che reale) in una forza creativa di inusitata potenza.
Il risultato è una raccolta di undici canzoni, suddivise in tre momenti (prologo, personae, envoi) che ci rendono partecipi di questa rivelazione e per un’ora di musica e parole ci rinchiudono sull’isola di San Servolo, ci fanno sentire il freddo umido dei muri delle camerate, gli odori tremendi di escrementi e disinfettanti, il lento e continuo strascicare dei passi delle vittime lungo i corridoi, la micidiale precisione dei medici nel redigere i referti, che inchiodano le vittime al loro letto di dolore, come le frecce al palo del martirio di un San Sebastiano.
Il grande lavoro di transfert e di elaborazione in forma creativa di questa ingiusta e dimenticata sofferenza, avrebbe potuto impantanarsi nelle acque limacciose della laguna che circonda l’isola di San Servolo, caricando di toni cupi e musiche grevi un racconto che è già intriso di tanto dolore, invece ha trovato nelle melodie dolci e accattivanti e nella voce e nel violino di Michele un percorso salvifico che oltre a riportare alla luce questa pagina oscura e ingloriosa della nostra storia, ci fa riflettere ancora e ancora, e specialmente di questi tempi, di quanto la follia di una dittatura, e l’impotenza o la vigliaccheria di un popolo che diventa massa acefala, possano produrre in termini di sofferenze, ingiustizie, crimini.
Dal punto di vista della scrittura, l’album attinge a piene mani dalla vasta e capillare cultura di Michele Gazich, che spazia dai classici greci ai filosofi post moderni, dalle sacre scritture alla linguistica, dove i rimandi e le citazioni si rincorrono lungo il pentagramma, incidendo nella nostra mente una serie di immagini forti, a volte spietate, a volte dolci, ma sempre profondamente intense. E si capisce anche come, a illustrare ogni canzone, la mano di Alice Falchetti abbia scavato nel legno con lame precise e sottili, fino a dar forma ad altrettante immagini evocative che fanno da perfetto contraltare alle canzoni di Michele. Segni che hanno negli occhi di Alice Falchetti il lavoro di Egon Schiele, ma soprattutto sulla punta delle sue dita, le incisioni di Erick Heckel, Ernst Ludwig Kirchner, Emil Nolde, August Macke, Aleksiej Jawlensky, Max Pechstein di quegli espressionisti tedeschi che non sapendo come affrontare l’orrore dei tempi che stavano vivendo, e come liberarsi dell’etichetta di arte degenerata cucita sui loro petti, infierivano coi loro coltelli nel cuore del legno, come se fosse nel cuore dei gerarchi e dei criminali nazisti e dei loro sostenitori.
Dal punto di vista musicale, pur restando ancora ben salde nello stile compositivo di Gazich, le canzoni tendono, più che in altri lavori precedenti, a vestirsi di luce e colori. Quasi fosse una necessità, un bisogno di ossigeno, di respirare aria limpida e profumata uscendo da quelle camerate maleodoranti, le melodie si addolciscono e, come per le canzoni di Mary Gauthier, diventano medicine necessarie in grado di farci sopportare l’orrore del racconto dell’esistenza travagliata di queste personae. Vorrei sottolineare il grande lavoro che Michele ha fatto sull’uso della sua voce, modificando timbri, registri, vocalizzi, passando dal cantato sussurrato, al grido strozzato, al bel canto limpido e potente, dando a ogni canzone una ulteriore chiave di lettura, e non secondario, una ulteriore chiave di ascolto.
L’album, uscito in questi giorni su etichetta Fono Bisanzio, è stato registrato negli studi MacWave da Paolo Costola, sotto la direzione artistica di Michele Gazich. Oltre all’immancabile Marco Lamberti alle chitarre, al bouzouki e alle seconde voci, che ha collaborato alla stesura della musica del bellissimo brano Torquemada, i musicisti che hanno preso parte alla costruzione di questo album sono stati: Paolo Costola, basso elettrico; Alberto Pavesi, batteria e percussioni; Raoul Moretti, arpa; Valerio Gaffurini, pianoforte e cori; Michele Gazich, viola, violino, pianoforte e piano Wurlitzer.
Ultima traccia dell’album, Anna, te scrivo, ci regala un cameo: la voce potente e marciana di un Gualtiero Bertelli in piena forma al canto, e ancora capace di far vibrare le corde più dolci dell’anima con le note concilianti della sua fisarmonica. La presenza di Bertelli diventa allora un sigillo d’oro, una sorta di benedizione, da parte di chi per una vita si è dedicato all’impegno civile e ha studiato e mantenuto vive le più nobili tradizioni musicali venete e non solo, verso un’opera che senza alcun dubbio tocca uno dei vertici più alti nella produzione artistica di Michele Gazich e che è destinata a raccogliere onori e consensi anche al di fuori dei confini nazionali.
Così come Michele Gazich ha curato la traduzione italiana dei testi di Mary Gauthier, nell’album Rifles and Rosary Beads, così Mary ha collaborato alla traduzione in inglese dei testi di Temuto come grido, atteso come canto, sottolineando il forte legame collaborativo che accomuna il percorso creativo di questi due artisti che senza sosta stanno attraversando città e villaggi, da una parte e dall’altra dell’Oceano, portando in tournée le canzoni di Mary. Sodalizio artistico che li accomuna anche nella loro visione del fare canzoni, nel loro lavoro quotidiano di osservazione e composizione, con uno sguardo sul mondo che sempre di più sembra prendere a prestito il punto di vista di Woody Guthrie, e che guarda alla vita dal basso delle strade dei quartieri popolari della grande provincia americana, o dai vicoli carichi di profumi e colori delle nostre città mediterranee, così ricchi di storie e personaggi che trascendono ogni barriera linguistica, ogni credo religioso, ogni confine e ci fanno sentire tutti simili pur nelle nostre diversità.
Non è quindi un caso se i concerti di Mary Gauthier e di Michele Gazich (recentemente accompagnati anche da Jaimee Harris) si concludono sulle note di This Land Is Your Land come a volerci ricordare che apparteniamo tutti a un’unica terra, che siamo tutti figli di una sola grande anima.
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