e poi c’erano i ragazzi e le ragazze che approfittano e che chiedono e che qualche volta prendono di nascosto, rubano sguardi e rubano attimi di pelle sfiorata, di pensieri incastrati, di sorrisi di contrabbando…..
Madonna di Bagni 2012
Quello che colpisce della festa della Madonna di Bagni a Scafati è l’ordine nel disordine, la compostezza di ogni “rota” all’interno di uno spazio che accoglie migliaia di persone Qui si viene, non vengono in massa solo per impiegare il tempo, Bagni è un ritrovo che si aspetta, che aspetta chi della tradizione non prende solo la parte ludica e rumorosa ma ne vive l’essenza,
Il fascino di questa festa è tutto racchiuso nei cerchi di gente che racchiudono danzatori e suonatori, nello sguardo di chi si perde nel guardare la facilità e, a volte, anche la goffaggine ma sicuramente entrambe fatte di passione per il momento, per la danza, per il rumore ipnotico delle castagnette che non si sa come e perché ma a centinaia battono tutte all’unisono.
Rote che hanno in comune l’amore per la tradizione ma che ognuna la racconta a suo modo e con le sue note. C’è chi arriva dalla costiera amalfitana e racconta una storia fatta di tanti tamburi che contemporaneamente accompagnano una danza di lotta e di guerra ma anche di amicizia e di fratellanza tra genti diverse, tra chi guardava il mare e chi produceva nell’entroterra. Una danza che qualcuno ha definito mefistofelica, fatta di giochi, di scambi, di sguardi, di finte e di furbizia.
In un angolo un po’ in disparte ad un tratto una storia che ha catturato, che ha incantato che ha portato lontano. Una storia che volava sulle ali di un flauto più che sul battere di un tamburo, con una voce di vecchio che proveniva da un corpo di giovane. Due anonimi che era lì come fossero soli, che si guardavano e che danzavano e il mondo non c’era e il chiasso era spento, solo il flauto, solo la voce, solo gli occhi e le braccia. La storia era di dolcezza più che di passioni era un abbraccio non terminato era un rincorrersi piano, per non afferrarsi mai; mai con il corpo continuamente con i pensieri. Erano due e il mondo non c’era. Erano giovani, erano sudati, erano felici di danzare e di guardarsi, di sfiorarsi. L’uomo con la barba scura e gli occhi piccoli e la donna dai lunghi capelli scomposti continuavano ed io ero lì che non sentivo e non vedevo altro, che invidiavo i loro sguardi che avrei voluto essere in quell’abbraccio perché lì era l’amore del mondo, mai completo sempre perfetto. Non incontrerò più quell’uomo e quella donna ma porterò con me la meraviglia di perdermi e di riempirmi gli occhi di tanta bellezza.
Il racconto ad un tratto è finito perché altri tamburi e altre storie si sono raccontate e per un momento mi ha infastidito quel tamburo troppo forte che ha rotto l’incanto dell’uomo con la barba e della donna dai lunghi capelli scomposti. L’universo di Bagni reclamava di essere vissuto nella sua interezza.
C’era l’uomo con i grandi baffi detto lo zingaro, che di zingaro ha la voglia di vivere, la gioia e la semplicità del dialogo, con la bocca defraudata di tutti i denti, il volto arso dal sole e con la voce che esce dal petto come fosse tuono, rauca e potente. C’era l’antropologo ballerino e poi c’erano i ragazzi e le ragazze che approfittano e che chiedono e che qualche volta prendono di nascosto, rubano sguardi e rubano attimi di pelle sfiorata, di pensieri incastrati, di sorrisi di contrabbando. C’erano i fotografi e c’era il fotografo, quello che si nasconde dietro la barba lunga e che riesce a rapire l’anima con il suo obiettivo, che vede attraverso i corpi, che sa quando la sua macchina fotografica deve essere ladra, una ladra che prende e poi restituisce, solo in altra forma. C’era tra tanti anche a chi piaceva essere fotografato e la spontaneità era cosa lontana. C’erano poi i cantori della tradizione, dal cantatore di Scafati che porta la tammurriata in giro sui palchi per farne godere a chi ancora non la conosce al giovane cantatore di San Marzano. C’era il grande tamburellista della Puglia, che qui è fratello, che qui è amico, che qui tornerebbe ogni volta perché la cultura e la voglia e la passione sono collante e mai divisione. C’erano poi le donne e gli uomini che guardavano e ascoltavano, c’era chi rimpiangeva e chi sperava di poterci tornare ancora, di ritrovare i volti e le voci. Ed in fine c’erano loro i ballatori della passione, quelli con le gambe che si incrociano, che si guardano negli occhi e si sfidano e seguono il suono di un fischio stridulo e di una voce vicina che pare arrivi da un mondo lontano. Loro che si divertono e che incantano che non vorresti smettessero mai, che fanno invidia per la forza, per la passione, per la potenza delle loro braccia e delle loro gambe ma non possono esserci gambe e braccia tanto forti se non sostenute da pensieri altrettanto potenti. C’era quello con gli occhi azzurri e il sorriso che incanta, quello con la barba incolta, i capelli arruffati e la voce gioiosa e quello che da ballatore diventa poeta per raccontarsi al mondo. E tra loro, tra i ballatori di una delle tammurriate più famose c’era lui il guerriero dai capelli neri dagli occhi che brillano, dallo sguardo fiero. C’era lui che sa ma che come dice: “ è come quando ti getti nel vuoto ma sai che non ti farai male”. Il ballatore della tradizione che quando balla dice di passione, di voglia di vita, di coraggio. Con le braccia alzate al cielo con i nervi tesi e i muscoli che raccontano la storia di questa danza che è una guerra che è una lotta che non la possono raccontare gli altri, gli altri la possono solo ascoltare, solo guardare, gli altri possono solo sperare che duri il più a lungo possibile, perché poi quando finisce torna la realtà, torna la voglia di goderne ancora e di nuovo, perché lì in quelle braccia alzate c’è tutta la forza dell’universo.
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