di Felice Colussi
Mike Oldfield, da tempo esule a Nassau, nelle Bahamas e sparito dalle cronache musicali negli ultimi anni, ha passato davvero un periodo terribile della sua vita. La morte del figlio trentatreenne lo ha segnato in maniera decisamente forte. Potete immaginare uno che a vent’anni si è trovato miliardario con il primo disco, sul quale Branson costruì la fortuna dell’etichetta Virgin, come possa sentirsi: probabilmente come finire contro un muro a cento all’ora.
Oldfield ha reagito riconcentrandosi sulla sua musica, riprendendo in esame i suoi grandi lavori degli anni Settanta, in questo caso Ommadawn, che è del ’75, e ricreando quella magica atmosfera che circondava quel disco, a mezza vie tra il prog più intenso e i primi accenni di celtic rock. A questo punto sono iniziate le difficoltà perché, come al solito, il nostro ha la pretesa di suonare tutti gli strumenti da solo, come ai bei tempi. Una cosa facile da realizzare a Edimburgo o a Londra, ma un po’ più difficile a Nassau. Fin che si è trattato di bodhran, mandolino, bouzouki, glockenspiel, chitarra flamenco, arpa celtica, la storica Gibson SG, le immancabili campane tubolari è stato facile. Altri armamentari d’epoca erano irraggiungibili dal suo esilio dorato delle Bahamas, ma fortunatamente e grazie alle moderne tecnologie ha potuto ricreare in studio il suono del Vox Continental, del Farfisa così come il Clavioline, una sorta di precursore dei moderni synth, inventato addirittura nel 1947. Per riproporre un suono più simile possibile all’originale ha estratto sezioni dell’Ommadawn primigenio, comprese le parti vocali recitanti, le ha letteralmente smontate, aggiunto effetti sonori, le ha riplasmate e modificate alla sua maniera fino ad ottenere quello che lui definisce uno strano suono ultraterreno.
L`album ha uno sviluppo simile all’originale del ’75, attraverso due lunghe suite di oltre venti minuti, che stanno chiaramente a indicare i classici lati A e B dei dischi in vinile. Se pensiamo allo stato d’animo con questo disco è stato registrato, il risultato finale è davvero sorprendente se non proprio strabiliante evidenziando come Oldfield abbia recuperato a pieno le sonorità inconfondibili dei sui dischi di quarant’anni prima, quelle gioiose arie celtiche e pastorali. Le due lunghe composizioni, Return to Ommadawn Pt.1 e Return to Ommadawn Pt.2, suonano davvero come fossero delle outtakes o registrazioni alternative delle suite pubblicate nel vecchio album., addirittura gioiose… In certi momenti ci ha fatto pensare come spirito all’ultimo, straordinario George Harrison, che, in punto di morte, ci consegnò uno dei migliori inni alla vita possibili con il suo ultimo disco.
Dopo il successo del primo Ommadawn, Oldfield si era trovato musicalmente rinchiuso in se stesso, incapace di raggiungere ancora quelle vette artistiche, neppure lontanamente. E, in effetti, tutti credevano di averlo definitivamente perso, dal punto di vista musicale. Eccolo invece qui con questo clamoroso, miracoloso ritorno! Ne siamo felici, bentornato, vecchio Mike!
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