Un dono, un’orazione civile, un’esortazione.
di Maurizio Bettelli
Sono giornate lunghe, in cui il tempo scivola lento lungo le pareti della nostra stanza mentre lo sguardo si allunga fuori dalla finestra in cerca di una libertà che non ci è concessa. Un libro, un film, un disco, una telefonata, un saluto attraverso i social. Ogni giorno uguale, ogni giorno con lo stesso ritmo e gli stessi pensieri. In questa calma piatta artificiale, ecco arrivare dal nulla un dono. Arriva attraverso i social, attraverso Instagram. E’ un dono che porta la firma di Bob Dylan: è una canzone tutta per noi.
Perché?
Contro ogni logica di marketing, come giustamente ha evidenziato Gigio Rancilio sulle pagine dell’Avvenire (1), il più titolato tra i cantautori viventi ci ha fatto recapitare a casa una infinita canzone, lunga quasi 17 minuti, riportando indietro i nostri orologi di quasi sessant’anni, al 1963, esattamente al 22 novembre, giorno dell’assassinio di John Kennedy, l’assassinio più disgustoso ci dice con voce magicamente ferma Dylan. Non è una canzone tanto rassicurante, non è neppure orecchiabile. Scivola attraverso i nostri diffusori con la stessa lentezza e la stessa mestizia con cui passa il tempo lungo queste giornate attraverso i nostri orologi.
Anche Stephen King, nel 2011, aveva provato a riportarci a quel 22 novembre 1963, ma anziché usare la musica, il grande romanziere americano ci aveva riportato a quella data passando lungo le strade della fantascienza, attraverso una porta spazio-temporale che, secondo le intenzioni dell’autore, ci avrebbe permesso di cambiare il corso della storia, togliendo appena in tempo il fucile dalle mani dell’assassino di Kennedy.
Dylan sa che non si può cambiare la storia, sa che non si può far tornare in vita qualcuno che non c’è più. Lo sa fin da quando ci ha cantato della barista nera Hattie Carroll uccisa a bastonate da un bianco, o quella del pugile Davey Moore ucciso sul ring dall’avidità degli scommettitori, o ancora quella di Medgar Evers ucciso con un colpo di pistola esploso da dietro a un cespuglio, o quella dell’attivista nero George Jackson ucciso in prigione e tante altre ancora. Ma ognuna di quelle morti, cantate dalla voce di Dylan, non era solo il racconto in versi di una ingiustizia, bensì era un dito puntato contro una verità scomoda, contro una lettura dei fatti finalizzata a tenere vivo quel sogno americano così fasullo e così lontano da quell’immagine di grande paese incontaminato, che, nonostante l’incubo quotidiano in cui si ritrova la maggior parte degli americani, fissa con sguardo severo le ingiustizie e le prevaricazioni sapendo perfettamente che perseguire la felicità del suo popolo significa necessariamente perseguire la Verità.
Ma l’uccisione di Kennedy fu la peggiore di quelle morti ingiuste e irrisolte, fu il delitto più atroce.
Chi ha parlato di questa canzone sui media l’ha definita un lamento funebre. In parte forse lo è.
La base musicale su cui scivola la voce solenne di Dylan è costruita su un pianoforte suonato con accordi cadenzati senza concessioni a divagazioni frivole o virtuose, che si appoggia sul bordone di un contrabbasso suonato con l’archetto. Il controcanto è lasciato alla introspezione di un violino, mentre certi passaggi sono sottolineati da un batterista attento a non guastare la sospensione magica di questo racconto sublime. Dylan chiama a raccolta tutte le parole che ha incontrato nei testi di Shakespeare, nei versi di Blake, T.S. Eliot, Whitman e di Dylan Thomas, perché lo aiutino a passare da un punto di vista all’altro, da una visione all’altra, dalle immagini che scorrono su una vecchia pellicola amatoriale che cattura impietosa il proiettile che passa attraverso il cranio del Presidente al racconto in ordine sparso degli anni che sono rotolati via prima e dopo quel tragico 1963. Gli anni della guerra di Secessione e gli anni di Woody Guthrie e di Pretty Boy Floid, gli anni del blues di Etta James e gli anni del jazz di Monk e Parker, gli anni di Woodstock e della Summer of Love, fino agli anni 80 e su su fino ad arrivare a noi. Una lunga lista di nomi tenuta insieme per assonanze e allitterazioni, come un mantra che lentamente perde il significato delle parole per sciogliersi in suono, in lamento, in preghiera.
Conosciamo lo stile narrativo di Dylan, lo abbiamo imparato a conoscere fin dai tempi di Desolation Row o Sad Eyed Lady of the Lowlands, e lo abbiamo visto affinarsi in capolavori a metà strada tra la narrativa e la canzone come in Joey o in quel meraviglioso e irripetibile punto di non ritorno che è Brownsville Girl. Amiamo quello stile, amiamo quella tecnica che fonde assieme racconto, canzone, rhythm and rhyme. Lo amiamo per quella sua capacità di estraniarci, di portarci fuori dal qui e ora e proiettarci in un altrove che non ha tempo e non ha spazio. Che anno è, dove siamo, cosa stiamo guardando, cosa stiamo ascoltando, chi ha parlato, che voce è mai questa? Una esperienza quasi lisergica che ci trascina dentro e fuori un caldo mattino del 1963 in una Dallas vestita a festa dentro a una limousine nera che abbiamo visto e rivisto mille volte nel filmino di quel cineamatore con i suoi fotogrammi sfocati e imprecisi, come sfocata e imprecisa è la verità che ci è stata raccontata sulla morte di Kennedy, e che verità non è.
Ma l’omicidio di Kennedy non è uno dei tanti casi irrisolti, una delle tante zone grigie che, da Abraham Lincoln (ma forse dall’attracco del Mayflower) in avanti, gettano un’ombra sui riflettori multicolori che illuminano il Grande Paese.
Questo è il più orrendo degli omicidi. Rappresenta in modo impietoso e spietato l’uccisione del padre, come suggeriva Alessandro Portelli alla radio durante la trasmissione Fahrenheit di qualche giorno fa. In una America, aggiungo io, che è ammalata cronica di adolescenza infinita e che spinge i suoi Huck, i suoi Holden, i suoi figli migliori a uscire dalla purezza adolescenziale e andare alla ricerca costante di un padre che non sia assente, che non sia violento, che non sia perennemente ubriaco, di alcol o di sé stesso, o che non venga ucciso in un attentato, sapendo in partenza che non solo un padre non lo troverà mai, ma nel corso di questa ricerca, questo figlio nato orfano, sarà destinato anche alla perdita dell’innocenza.
Nella simbologia della grande letteratura americana, la perdita dell’innocenza è un mito fondante. Dylan lo sa, e tante volte ci ha portato sui luoghi di quella purezza perduta sapendo che non c’era riscatto e non c’era salvezza nel restare lì e che sarebbe stato molto più prudente andarsene via
Only one thing I did wrong
Stayed in Mississippi a day too long (2)
Solo una cosa ho sbagliato, rimanere nel Mississippi un giorno di troppo, canta in Mississippi, ammiccando al giovane Huck Finn che scivola via sulla sua zattera lungo le acque limpide del grande fiume.
Nel 1952 l’etichetta discografica americana Folkways Records pubblica una raccolta di canzoni americane degli anni Venti e Trenta curata da un regista bohemien, un po’ poeta e un po’ discografico, di nome Harry Smith. Questa raccolta di canzoni si intitola: Anthology of American Folk Music. (3)
L’obiettivo ambizioso di quella raccolta era tentare di costruire una identità nazionale attraverso le canzoni, fornire altri punti di vista al racconto di un grande paese. Un racconto fatto di voci diverse e appartenenti, se non a tutte, a molte delle etnie che hanno sentito quella terra la loro terra.
Tra le voci e gli oltre ottanta titoli che sono raccolti nell’antologia citiamo: Engine 143 cantata dalla Carter Family, Stackalee (Stagger Lee) cantata da Frank Hutchinson, Frankie cantata da Mississippi John Hurt, John Henry cantata da The Williamson Bros. e ancora Rabbit Foot Blues cantata da Blind Lemon Jefferson.
Per oltre mezzo secolo, quella collezione ha profondamente influenzato fan, etnomusicologi, storici della musica e critici culturali; ha ispirato generazioni di musicisti famosi, tra cui Bob Dylan, Joan Baez, Jerry Garcia e innumerevoli altri. Dylan stesso, intervistato da Serge Kaganski per la rivista Mojo (4), dichiarò
Nei primi anni ascoltai quella antologia, quando era molto difficile recuperare quel tipo di canzoni. Particolarmente lì, su quei dischi, si trova la ricchezza della folk music. Ascoltandole, mi fu chiaro che dovevo imparare tutte quelle canzoni. Era il linguaggio, il linguaggio poetico: tutto lì è poesia, non c’è dubbio, ogni singola canzone di quella raccolta. E anche il linguaggio è diverso dal linguaggio popolare corrente, ed è proprio questo ciò che mi ha affascinato immediatamente di quelle canzoni.
Nel 1992 questa antologia viene ripubblicata su CD e le note critiche di accompagnamento vengono affidate a giornalisti musicali del calibro di Greil Marcus e ad alcuni musicisti della scena del Folk Revival degli anni Sessanta. Scrive Dave Van Ronk, nelle sue note di accompagnamento alla riedizione del 1992: “
Quella antologia era la nostra bibbia (…) Noi tutti conoscevamo ogni parola di ognuna di quelle canzoni, comprese quelle che non sopportavamo. Dicono che nel parlamento britannico del XIX secolo, quando un membro iniziava a parlare citando un autore classico in latino, l’intera Camera si alzava per declamare la medesima citazione insieme a lui. Così facevamo noi con quelle canzoni. (5)
In un bel saggio di John Street – docente alla East Anglia University – intitolato Invisible Republics and Secret Histories: a Politics of Music (6), l’autore scrive:
Dylan utilizzò le canzoni e i personaggi di questa antologia, non solo per produrre delle cover (Love Henry in World Gone Wrong, 1993, è una rilettura di Henry Lee, la canzone che apre l’antologia. n.d.a.), bensì per costruire il suo personaggio artistico. L’utilizzo di queste canzoni da parte di Dylan è testimoniato ampiamente a partire dal suo primo album, poi ancora nei Basement Tapes (registrati nel 1967 ma distribuiti ufficialmente nel 1975) fino a World Gone Wrong (1993). Le canzoni e i cantanti di quella antologia hanno dato la possibilità a Dylan di adottare le voci dei personaggi che popolano le sue canzoni.
Più avanti Street scrive:
Greil Marcus sostiene che Dylan venne a impersonare un ideale democratico. Il cantante incarnava un desiderio di pace e di casa in mezzo al rumore e allo sconvolgimento, e nel riflesso estetico di quell’incarnazione ha posto la pace e la casa nella purezza, l’essenziale bontà, del cuore di ogni ascoltatore. Marcus collega l’evocazione di Dylan del sogno americano a quella che le generazioni precedenti avevano ascoltato nelle registrazioni raccolte da Smith. Marcus scrive di Dylan: questa purezza, questa occhiata a un’oasi democratica non viziata dal commercio o dall’avidità era ciò che le persone negli anni ’50 e ’60 trovarono nei blues e nelle ballate registrate negli anni Venti e Trenta. (7)
Da un certo punto in avanti il testo di Murder Most Foul si srotola lungo una serie di nomi di artisti e di titoli di canzoni. Preciso come sempre, Paolo Vites (8) ha portato alla luce ottantadue titoli di canzone recuperati nel mare dei versi di questa canzone Dylan, ha redatto un elenco minuzioso affidandolo alle onde infinite del web. Non credo che sia solo una assonanza numerica (ottantaquattro i titoli dell’antologia, ottantadue le canzoni recuperate da Vites dal testo di Dylan), io presumo che ci sia un gesto nascosto dietro a questo lungo elenco di canzoni e artisti. Forse Dylan vuole lasciarci la sua Anthology of American Folk Music (con buona pace di qualche nome inglese, ma per gli americani una è la letteratura inglese – comprendente anche autori americani – e, secondo questa ottica, una potrebbe essere anche la condivisione del patrimonio musicale). Dylan stesso ci ha detto quanto sia stata importante per lui quella raccolta di vinili pubblicata nel 1952, e non è tanto azzardato pensare che con quella lunga lista di nomi e canzoni, Dylan abbia voluto scrivere un secondo volume di quella antologia affinché le prossime generazioni abbiano altri punti di riferimento, altre voci e altri personaggi a cui attingere per portare avanti il grande racconto, non più di una America, ma di un occidente in continua ricerca di una dimensione più umana, di una verità che ci porti verso quell’oasi democratica avvolta di purezza.
E’ forse questo il regalo che ci ha voluto portare Bob Dylan, in questo preciso momento, alla luce di questa svolta epocale, nel momento più atroce della nostra esistenza?
Io voglio intenderlo così.
1 Rancilio G., «Il più atroce dei delitti»: il canto profezia di Dylan al tempo della pandemia, Avvenire, 01-04-2020
2 Dylan B., Mississippi, Special Rider Music, 1996
3 AA.VV Anthology of American Folk Music,a cura di Harry Smith, Smithsonian Folkways Records, 1952-1993
4 Mojo Magazine Issue 51, “Dylan Speaks” interview by Serge Kaganski, 1998, p.64
5 AA.VV Anthology of American Folk Music,a cura di Harry Smith, Liner notes, Smithsonian Folkways Records, 1952-1993
6 Street J., Invisible Republics and Secret Histories: A Politics of Music, in Cultural Values, Vol.4 nr. 3, July 2000, pp. 301
7 Street J., Invisible Republics and Secret Histories: A Politics of Music, in Cultural Values, Vol.4 nr. 3, July 2000, pp. 302-303
8 La lista dei riferimenti musicali individuati da Vites è apparsa sulla sua pagina di Facebook. Se ne parla anche in Vites P.,Bob Dylan La canzone inedita/Video, “Murder Most Foul”: JFK ai tempi del coronavirus, Il sussidiario.net, 27-03-2020
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