Un discorso attorno al Mediterraneo che trasporta in questa contemporaneità sensibilità di sguardo e aperture che una cultura millenaria ha stratificato lungo questi territori. Un discorso fatto di profumi, di luoghi, di memorie storiche che vacillano a mano a mano che l’indagine retrocede cercando di rintracciare l’origine dei brani. Rosamarino è questo, per cominciare, ma anche altro. Un album ideato e prodotto da Ninfa Giannuzzi, che reca per titolo l’antico nome del rosmarino. Realizzato e promosso con il sostegno di Puglia Sounds Record 2016, edito da Kurumuny, l’album vede la partecipazione, accanto alla voce di Ninfa Giannuzzi, delle cantanti Rachele Andrioli, Simona Gubello, Meli Hajderaj, per un totale di dieci tracce che coprono un arco di tempo storicamente indefinito, nelle quali il ruolo principale è affidato alle quattro voci, con una serie di arrangiamenti che recano altrettante firme, quelle di Alessandro Aloisi, Eliseo Castrignanò, Valerio Daniele, Vito de Lorenzi, Ninfa Giannuzzi, Stefano Luigi Mangia, Rocco Nigro, Vanessa Sotgiu, il tutto arricchito dall’elettronica di Giorgio Distante, dalle percussioni di Vito de Lorenzi e dalla fisarmonica di Rocco Nigro. In copertina, funzione b di Egidio Marullo incide per altri segni lo scorrere del disco. Il percorso avviato dalle dieci tracce mette in rilievo il peso della voce, delle voci, l’andamento storico di una tradizione orale che nella reiterazione delle forme, dei segni, della vocalità, ha fissato nel tempo schemi, tematiche, ritmi, melodie. Queste ultime hanno saputo imporsi alle volte più della stessa parola, diffondendosi a macchia d’olio nel bacino del Mediterraneo al punto che ogni popolo ha affondato la propria cultura, la propria ritualità in una ripetizione di suoni la cui origine si perde nel tempo. Caratteristica dei brani scelti è quella di essere presenti in varie aree del Mediterraneo in differenti popolazioni, ognuna delle quali tende storicamente a rivendicarne la paternità. Se spesso le melodie risultano comuni, è facile notare come nella stesura dei testi ogni popolo abbia saputo inscrivere la propria cultura, pervenendo ad una diversificazione del patrimonio testuale.
La diversità delle quattro voci che animano l’album, si risolve in un amalgama che è corpo sonoro compatto, intreccio di stili i quali, come le storie dei brani – disseminati lungo tutta l’area del Mediterraneo – concorrono alla scrittura di una narrazione contemporanea, che recupera il nucleo centrale del percorso storico dei brani, ma allo stesso tempo li fissa sulle direttrici di una nuova erosione del senso originario. Il senso dell’operazione lo si può cogliere e definire a partire da un verso di Lucrezio – che anche se non contenuto nell’album sembra prefigurarne gli intenti – il quale scriveva Smangiate da edace salsedine, le rocce. E come le rocce smangiate dalla salsedine, le radici di questi brani si perdono nei secoli e oltre. L’indeterminatezza destina i brani ad una indecifrabilità di fondo che tende a sottrarli alla penetrazione del senso, coltivandone la suggestione. Sono la dissolvenza storica, l’appartenenza a volte meticcia, a volte impossibile, la trasversalità delle contaminazioni, la diffusione orizzontale, la dissipazione dei segni negli anfratti del mondo, a votare all’evoluzione il divenire storico dei brani. È proprio da questa prospettiva che le ritualità dei gesti e dei suoni e dei canti attraversano la fissità di un orizzonte rituale, atemporale, collocandosi in questo progetto in ulteriore contaminazione. La contiguità di tempo e linguaggio, la conseguente gerarchizzazione del sociale, non tengono conto di ciò che nel popolare si sottrare alle grammatiche verticali, ai toni, ai ritmi, e nell’indecifrabile al di là del simbolico si dipana nella vita. Ad ogni elemento che si sottrae, ad ogni tono che è tale nella sua diversità dal consueto, c’è un desiderio che viene mancato e resta vivo al di fuori dell’ordinario. Dal primo elemento del linguaggio qualcosa via via si disperde e nella dissipazione aumenta la proliferazione dei segni. Se c’è un sentiero in quest’album, e c’è, è nella differenza che allatta le tracce ormai disperse dei brani e nelle contaminazioni restituisce tutto ad altra vita.
Francesco Aprile
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