di J.d.M.
In questo periodo di Covid-19 ha avuto un grande sviluppo una branca particolare dell’antropologia, l’antropologia dei disastri che ci aiuta a leggere nuovi e vecchi comportamenti alla luce delle mutate modalità di vita sociale.
La prima domanda che ci si pone è: se escludiamo le abitudini, come il caffè, la parola rito ci sembra arcaica quanto quello che definisce, cioè una pratica culturale, un atteggiamento sociale se vogliamo, che viene ripetuta con certe regole. In quest’anno di crisi si è ribadito il concetto che i riti siano qualcosa di ancestrale, necessità vera a proprio degli esseri umani che contribuisce a definirli come tali.
Da tempo gli antropologi sanno che in situazioni di crisi i riti aumentano. Giovanni Gugg, docente di antropologia urbana dell’Università Federico II di Napoli, in un’intervista alla testata Wired, ha dichiarato: Nei disastri si perdono due punti di riferimento: uno è il territorio, che viene distrutto, l’altro è la comunità, che viene sconquassata dalle morti improvvise e dallo sfollamento. In queste eccezionali condizioni i vecchi riti si adattano, e ne nascono di nuovi. Sono dei modi con cui le società rispondono a questi sconvolgimenti. Attraverso i riti si mette in comunione il dramma, si esprimono le emozioni da esso generate, e si cerca di assorbirne lo shock.
Ecco allora che vediamo un crocifisso esposto fuori dalla chiesa di Brescello, come la Madonna che, portata nel 1822 in processione a Torre Annunziata, si dice abbia fermato la lava del Vesuvio. E lo stesso discorso si può fare anche con con manifestazioni laiche, come il famoso andrà tutto bene con l’arcobaleno che i bambini di tutta Italia hanno disegnato ed esposto fuori dalle case.
Razionalmente sappiamo benissimo che non va tutto bene, e sappiamo che ripeterlo non lo farà accadere. Ma il rito, in questo caso in forma embrionale, non si muove sul piano razionale, ma su quello emotivo. Come ha detto l’antropologo Jean Cazeneuve, quanto più i riti sembrano assurdi, tanto più sono necessari. Sottolinea nell’intervista l’antropologo, che conclude: Il suono (il canto, la musica, le campane…) e la luce (le candele, i monumenti illuminati con il tricolore…) hanno sopperito alla distanza, tessendo legami sonori e visuali che ci hanno tenuto insieme per qualche minuto, ma abbastanza per non tagliare i legami, perché altrimenti ci saremmo sentiti come naufraghi in mezzo all’oceano dopo una tempesta, cioè ancora più disperati.
Tralasciamo qui ogni ulteriore commento sull’uso dei riti da parte del Potere, sia esso ecclesiastico quanto laico, perché è un discorso scontato che ci porterebbe lontano. Basti pensare al Papa benedicente in una piazza San Pietro deserta, con alle spalle un crocifisso che avrebbe fermato la peste secoli addietro. Oppure le campane che suonano ogni giorno a una certa ora nella laicissima Francia.
Così colpevolizzare qualcuno o qualcosa aiuta a non pensare alle magagne della vita quotidiana, spesso determinate da incurie governativa che ha avuto come unico effetto generare un’apatia collettiva.
Si è creato uno scontro, ampiamente documentato dagli sciocchi dibattiti televisivi, tra i sapienti e gli ignoranti. Il risultato finale di questo processo è stato lo sminuire la comunità in quanto tale, innescando una spirale negativa apparentemente senza fine.
Ma soprattutto, neanche dirlo, assolutamente senza scopo!
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