CLOUD VALLEY CV2007, 1999 – FINLANDIA-INGHILTERRA/FOLK PROGRESSIVO
Personaggio assai popolare negli ambienti roots britannici e non, disc-jockey, organizzatore, presentatore e giornalista, oltre che musicista (alle prese con l’inseparabile zither), Andrew Cronshaw è stato artefice in oltre un ventennio di attività (l’ultimo ‘The Language of Snakes’, Topic SPDCD 1050, è di sette anni fa) di una manciata di dischi sempre interessanti, anche se non necessariamente memorabili. Troppo eterogenei gli interessi di questo ‘guerrigliero del folk’, troppo sopra le righe il suo …spontaneismo, per catalizzare in via definitiva l’attenzione degli appassionati. Non fa eccezione questo ‘On The Shoulders…’, registrato in pieno inverno nella celebre località di Kaustinen, Finlandia occidentale, famosa per le manifestazioni che vi si tengono e soprattutto per essere la patria di alcuni tra i più importanti suonatori europei di violino – oltre che, naturalmente, del nativo kantele. E’ in effetti proprio l’incontro fra lo zither di Cronshaw ed il suo omologo nordeuropeo (il kantele, appunto), a rappresentare la traccia unificante dell’album: due tra le più note soliste dello strumento finnico – Hannu Saha e Minna Raskinen – compaiono nella maggior parte dei brani, insieme ai due compagni storici dello stesso Cronshaw (l’irlandese Bernard O’Neill al basso e l’australiano Ian Blake ai fiati).
Le quattordici tracce sono tutte tradizionali (solamente tre di derivazione celtica, le altre tutte riconducibili alle varie etnie finniche e siberiane). Meglio sarebbe tuttavia parlare di ‘origine’ tradizionale: l’approccio multiculturale di Cronshaw, ancora una volta, rappresenta insieme un pregio ed un limite, e spesso opera una trasformazione quasi intellettuale in brani che nacquero con altre timbriche, altre funzioni, non di rado anche altri tempi musicali (‘Hullu Sakari’, ad esempio: originariamente una polska, qui è arrangiata come slow tune). L’idea poteva essere interessante, ma soprattutto nella prima parte del disco si avvicina pericolosamente a stilemi tipici della new age più esoterica, annacquando ed omogeneizzando un po’ il materiale originario. Nella seconda parte il repertorio tradizionale prende in qualche modo il sopravvento (splendida ‘Many Are The Cries And Shrieks Of Woe’, per sola voce, con Jenny Wilhelms della band Gjallarhorn in evidenza; o la grintosa ‘Song Of The Beavers’, in conclusione) e si raggiungono i migliori risultati.
Non un capolavoro, ma un disco comunque interessante, a suo modo omogeneo, raffinato e rarefatto, che può rappresentare un significativo approccio con un settore importante della musica del Nord Europa.
Giorgio Bravo
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