GEMONA. A che ora è la fine del mondo? Alle 21.06 del 6 maggio 1976. É come il suo inizio: una tenebra. Cinquantanove secondi per cancellare la storia, togliere tutto dispensando dolore ovunque lungo una ferita di 16 chilometri. Eppure i mille morti di quel terremoto insegnarono al Friuli a essere nuovamente popolo – come profeticamente aveva scritto un giovanissimo Pasolini nel 1944 -, a ritrovare il profondo senso della solidarietà, l’orgoglioso coraggio del dover fare, e del farlo insieme.
L’evento. Chi c’era sa che questa non è retorica. Chi non c’era, come Simone Cristicchi, l’ha scoperto, vissuto e raccontato in una nuova, straordinaria e commovente pagina di teatro civile, Orcolat ’76, un evento di parola e musica andato in scena in uno dei luoghi simbolo di quella tragedia immane: il duomo di Gemona, che ne ha ospitato l’anteprima nazionale. Anche questo progetto – voluto e realizzato da Provincia di Udine, Comune di Gemona, Folkest e Canzoni di confine – è un lavoro (e un successo) di squadra, capace di mettere insieme il talento degli autori e degli interpreti in un racconto corale costruito e scritto con grande sensibilità da Cristicchi e Simona Orlando attraverso le testimonianze di tanti, salvatori e salvati, e restituito con il linguaggio di oggi a un pubblico emozionato e commosso fino alle lacrime, già dalla poesia iniziale dell’attrice Maia Monzani, dolce e materna nei suoi 89 anni di giovinezza.
Musica per un dolore. E poi la musica, composta per massima parte dal maestro Valter Sivilotti, da tempo ormai amico-partner di Simone, e interpretata dalla Mitteleuropa Orchestra, dal Coro del Friuli Venezia Giulia (istruito dal maestro Cristiano Dell’Oste), e dalla voce, calda, precisa e incisiva di Francesca Gallo. Sivilotti, dal talento eclettico, saggio e raffinato, ha voluto che il testo dell’ouverture (accanto ai versi biblici) e quello del congedo fossero di un autore gemonese colto e profondo come Renato Stroili Gurisatti; e non ha dimenticato neppure le canzoni che scandivano quei giorni maledetti e benedetti: Prejere di Ennio Zampa (con tutta la tenerezza di Simone), Fuarce Friûl di Dario Zampa (cantata da Francesca e dal pubblico) e Sabide sere di Giorgio Ferigo e Povolâr ensemble (ancora Francesca). A completamento di questo mosaico policromo nelle sue intense ritmiche e nei suoi momenti di insopportabile dolore (l’apocalittica Dies irae) e di luminosa speranza (l’inno finale E pur dut) Cristicchi ha aggiunto le sue Terra nera e La tosse della terra (scritta con Sivilotti) e Chitarra ferita di Antonio Pascuzzo.
La voce dell’Orco. Questo il suono, questo il bianco e nero del terremoto che si fa narrazione, epos, lascito, sfida. Cristicchi racconta, incalza, medita, affascina nuovamente ripercorrendo i momenti della scossa assassina (“quel boato ti resta dentro per sempre”), l’arrivo dei primi soccorritori, che trovano “sepolti vivi, sepolti morti, morti viventi barcollanti come sonnambuli”, la lacerazione disorientata delle anime (il prete che non sa più se crede in Dio) di fronte a una natura che, mentre uccide i giovani e lascia in vita i vecchi, “non ci è avversa, ci è indifferente – dice Simone -. É solo il ciclo di distruzione e rinascita che conserva il mondo”. L’Orcolat ci regala l’impensabile che diviene reale e la normalità che si fa surreale: la mamma che salva il figlio lanciandolo da una finestra a un’altra donna; quella che sta lì con l’ombrello aperto “perché mio figlio è là sotto e non voglio che si bagni”; una terza che, sotto le macerie, allatta la sua creatura fino all’ultimo respiro. Sono storie che inchiodano ogni altra parola, così come sono carezze le infinite catene di solidarietà che portano sollievo a la int e che magari fanno finalmente capire all’Italia e al mondo che il Friuli è sì alpini, prosciutto di San Daniele, grappa, la Grande guerra, Carnera, Zoff e Bearzot, Pizzul e Udinese e, forse, Pasolini, ma è anche altro: “un popolo con una storia, un passato, una tradizione”. Ha capito le parole di Pasolini. Anche in questi giorni che si fanno baratro e abisso: qui, ancora oggi, il tempo si conta come prima e dopo il terremoto dl 1976.
Rimettersi in piedi. Mille immagini ci attraversano il cuore: i ricordi dei vigili del fuoco; le lettere dei bambini da tutta Italia; il ritorno degli emigranti da ogni dove pronti a una nuova e decisiva fatica; l’appello dell’arcivescovo Battisti “prima le fabbriche, poi le case, poi le chiese”; la decisione del governo di fidarsi e – con la regia di Zamberletti – mettere la ricostruzione nelle mani della Regione e dei sindaci, straordinari protagonisti nella resurrezione del loro popolo. Anche e ancor di più dopo il colpo da ko del 15 settembre, giorno in cui l’Orcolat si risveglia per completare l’opera di annientamento. Ma non ci riesce: la gente, dopo l’esodo sulla costa, si rialza e moltiplica gli sforzi. “Tornate fra dieci anni” aveva detto un vecchio sotto una tenda, spiegando al mondo che questo Friuli avrebbe trovato la forza di rinascere. Perché aveva capito che “quando la tua intera esistenza entra tutta dentro un sacco, per forza di cose ti ritrovi a vedere solo l’essenziale, come una specie di miracolo all’incontrario, che ti dà togliendo”.
L’eredità. Questa è la storia da non dimenticare, questa è l’eredità, non il testamento, di quei mille morti. Ma, con tanta onestà, Cristicchi non chiude la questione terremoto come un modello, anzi pone interrogativi che nessun può eludere. “Perché questa solidarietà ha la data di scadenza? Perché diamo il meglio di noi solo nei momenti peggiori, anche quando vediamo che insieme non abbiamo paura di niente e che da soli abbiamo paura di tutti? Perché la casa rimessa a posto torna a essere quel maledetto muro che divide gli uni dagli altri? Davvero bisogna perdere tutto pur di ritrovarsi come comunità? Se la risposta è sì, allora non abbiamo ricostruito abbastanza”. Ecco perché, allora, questo alto esempio di teatro civile non è qualcosa di friulano e basta. Diventa messaggio universale, paradigma di un cammino per tutti, anche per la gente del Centro Italia che oggi è nelle tende spaventata e incerta: ci dice che uniti si risorge, si va avanti, si trova la luce e il suo calore, si disegna il domani. Da soli no. Ma il Friuli del terzo millennio se lo ricorda ancora?
Nicola Cossar
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