L’evento ricorrente ogni due anni a Ponte Caffaro si è appena concluso: la tre giorni dicembrina del Convegno Internazionale sulla Musica Popolare, giunto alla 6° edizione. L’Onlus Onés, presieduta dall’artista Luigi Bonomelli, a sua volta coadiuvato da una frotta laboriosa ed entusiasta di giovani e meno giovani collaboratori, è il Deus ex Machina di questa eccezionale manifestazione. Il Gigi “crede”, come si poteva credere ai riti druidici dell’antico e mistico mondo anglosassone, in questo progetto culturale; idea che trova l’humus e l’habitat nel territorio in Valle Sabbia. Questa valle ha il privilegio e la responsabilità di detenere tratti peculiari della cultura popolare, grazie alle sue tradizioni carnascialesche e alle sue folcloriche e distintive ballate da danza provenienti da Bagolino e Ponte Caffaro. La presentazione del Convegno di venerdì 13, nella sala comunale, cui hanno partecipato le Autorità locali, etnomusicologi universitari, giornalisti specializzati e musicisti, ha rappresentato solo in parte le esclusività dell’evento: il coordinatore ha voluto tenere in serbo le sorprese che avrebbero visto luce (e suoni) nel corso di quello che piacerebbe definire “festival di popolo e popoli”.
I professori universitari non hanno mancato di dar risalto che, certamente nel Nord Italia e probabilmente in tutta la Penisola, non esiste una manifestazione così congeniata e strutturata come questa, che si svolge da ben sei edizioni.
La sua particolarità è data anche dalla prosecuzione di un evento così particolare, soprattutto in un periodo, come l’attuale, di crisi economica che lascia, prevalentemente all’inventiva dei promotori, la parte importante e necessaria del finanziamento.
Il Convegno di quest’anno ha visto l’impegno di ricercatori e musicisti collegati dal tema conduttore della “Musica da strada”, nei suoi differenti ambiti. Per musica da strada s’intende quella che viene proposta e fruita nelle piazze, che raggiunge locali pubblici e luoghi religiosi, all’aperto nelle contrade, che presuppone, certamente, un’organizzazione iniziale ma che prosegue nell’improvvisazione dettata dal diretto rapporto con le genti. Venerdì è stato dato ampio spazio alle realtà carnevalesche del Piemonte: sicuramente un’occasione di confronto tra le originali tradizioni carnascialesche in aree lontane e le diverse tradizioni caffarese e bagossa. Credo che al lettore valsabbino possa, quindi, interessare una più puntuale disanima sugli argomenti esposti dai conferenzieri.
Giampiero Boschero. Relazione sulla cultura occitana.
La location ove sono successi i convegni e i concerti è stata la Sala Polifunzionale Santacroce di Lodrone di Storo (TN), a una decina di metri dal confine bresciano. La prima conferenza è stata tenuta dall’Avvocato saluzzese Giampiero Boschero, qui nelle vesti di ricercatore specializzato sulle tradizioni delle Valli Occitane. Ha discusso e raccontato, avvalendosi di videoriprese, del particolare carnevale che si svolge in Val Varaita, celebrato nella sua teatrale forma ogni cinque anni. E’ una manifestazione che si tramanda almeno dal 1400 che, per ordinanza regale, fu vietata perché sospettata di fomentare generici disordini ma che il popolo, di nascosto, ha continuato a celebrare. I rituali, recite allegoriche di avvenimenti anticamente trascorsi, sono complessi ed evocativi. Le Compagnie che organizzano l’evento prendono il nome antico di Baìo, Abbazia. Le Baìe hanno un preciso rapporto con il territorio: non corrispondono al circondario parrocchiale, né tantomeno a confini comunali, tanto che possono emergere, nel gioco recitato, contese giurisdizionali. Vi è una sorta di scala gerarchica tra i vari officianti che, da zona a zona delle Valli Occitane, assume caratteristiche differenti. A capo delle Baìe può esservi tanto la figura del Vecchio, una sorta di padre di tutta la cittadinanza che si riconosce sottoposta alla “giurisdizione” del suo specifico Baìo, quanto, in altre zone, la costituzione di un Consiglio di Saggi.
Coloro che hanno manifestato nella messinscena itinerante, fino ai primi anni del 1900, sono stati rigorosamente scelti tra la popolazione locale, e solo per poche eccezioni, tale partecipazione è stata estesa ad alcuni musicisti non appartenenti alla pertinenza della Baìa. Oggi, il carnevale si svolge in cortei, e assume una caratteristica di parareligiosità. Anticamente lo strumento musicale adottato in prevalenza era il violino, la cui importanza è stata ridimensionata, col tempo, con l’introduzione, sempre più preponderante, di fisarmoniche e clarinetti. La cerimonia trova l’epilogo itinerante nella piazza del paese, dove la finzione scenica ha curiosi sviluppi.
E’ inscenata la fuga di un ladro che, secondo la tradizione specifica della Baìo, ha sottratto, fra i costumi tipici, un capo d’abbigliamento o una giovane sposa. Il “malvivente” è così inseguito da guardie fino a raggiungere un’osteria dove, guardie e ladro, sono soliti appacificarsi con una buona bevuta.
Particolari sono il corteo ed i balli tradizionali della Baìo di Sampeyre, dove si svolge la Grande Baìa della durata di tre giorni. I balli sulle sonate sono eseguiti da coppie di ballerini e, al termine della manifestazione, la sera, in ogni frazione viene inscenato un processo nei confronti del tesoriere che si è impossessato della cassa. Da frazione a frazione, l’epilogo diverge: in alcuni casi il furfante sarà graziato e in altre, datosi alla fuga, sarà colpito alle spalle dagli armigeri per poi venir, infine, resuscitato bagnandogli le labbra col vino.
Il carnevale di Roccagrimalda.
L’autore e musicista Filippo Gambetta racconta, integrando con sonate padroneggiate con l’organetto diatonico, la tradizione folcloristica del carnevale di Roccagrimalda, raccontandosi come suonatore esterno e accolto a suonare per l’occasione insieme agli altri suonatori locali. Da musicista, da ampio spazio all’aspetto legato alle ballate tipiche della zona in esame, non omettendo però riferimenti storici curiosi. Si viene così a conoscere che quel carnevale è una rappresentazione della prima contestazione e sollevazione popolare contro l’antica invisa regola feudale dello ius primae noctis, circostanza che è patrimonio a volte storico ed altre volte leggendario di molte comunità, compresa quella bagossa, riportata con dovizia di particolari da Bortolo Scalvini nella sua pubblicazione “Storia della valorosa e spaziosa terra di Bagolino” del 1873.
C’è, nella commedia inscenata, il concorso di più attori che rappresentano i maggiorenti, i potenti, i militari e il popolo, quest’ultimo rappresentato da coppie di sposi. Data la fama assunta da questo carnevale, nel 1939 il fascismo ha preso il controllo della manifestazione, imponendo la sostituzione dei tradizionali costumi, e soprattutto dei cappelli allo scopo sostituiti da fez. La manifestazione è stata anche inscenata a Roma in occasione della visita di Stato di Hitler. Solo dopo la caduta del fascismo, il gruppo folcloristico ha ripristinato le locali usanze e i previsti costumi, anche se il carnevale sarà ormai esibito in occasione di diversi festival e non vivrà più officiato nel paese fino al 1991, e fino a quando non verrà suggellato il gemellaggio con altri carnevali locali.
Il gruppo, così giunto al sodalizio, ha pertanto assunto il nome Lachera, da una ballata tipica della loro tradizione. Nel corso della conferenza, il musicista, coadiuvato da un suo allievo di Roccagrimalda, ha eseguito alcune delle tipiche e originali sonate, quali appunto la Lachera, l’onnipresente Gilda e il Calissun.
Filippo Gambetta, in serata, ha poi preso parte alla serie di concerti musicali succedutisi nella tre giorni. Il compositore, come chi scrive ha avuto modo di ascoltare da uno dei sui lavori, il CD intitolato Andirivieni, ha una preparazione classica. Ciò nonostante compone brani che, pur avendo nel suo ensemble artisti che suonano in acustico, sono di taglio moderno. Ascoltando invero le sue composizioni si trovano riecheggiamenti di un bellissimo lavoro degli Hölderlin Express del 1994, nelle cui composizioni colpiscono sonorità medievali e musica celtica rivisti in chiave elettrica e con richiami al jazz. Calato nel convegno, Gambetta ha piuttosto scelto un repertorio più adatto e, assistito da Claudio De Angeli alla chitarra acustica, ha adattato alcuni brani della tradizione ligure quanto musiche originali dal repertorio del suo gruppo musicale folcloristico Ligurtari. E’ stata l’occasione per seguire, interpretati come ci si aspetta da uno dei maggiori esponenti nazionali dell’organetto diatonico, una performance vibrante, espressiva e appassionante. La prima esecuzione è stata una ballata folk vivace e moderna, che ha assunto contorni più attinenti alla nostra epoca grazie al bellissimo lavoro interpretato con la chitarra da De Angeli, che ha arpeggiato e pizzicato le corde dello strumento musicale esibendo di aver ben assimilato gli insegnamenti dei grandi del folk rock inglese fine anni ‘60. Il secondo brano ha progredito un delizioso medley di arie della cultura regionale ligure settecentesca, attualizzate per merito della tecnica del fisarmonicista e del chitarrista. L’assolo di chitarra, qui arpeggiata per rendere perfettamente godibile la romantica introduzione, è stato raggiunto dall’organetto di Filippo Gambetta. Nell’ordinato e rispettoso dialogo tra i due esecutori, dove non esiste supremazia ma armonia, si è esteso un tema delicato, con parti “soffiate” e altre sapientemente ritmate; la chitarra, che ha dovuto accordare la cadenza al brano, ha tenuto il ritmo con maestria e garbo. Da par suo, il fisarmonicista ha “pompato” il mantice del suo strumento creando studiati tremolii euritmici di sicuro effetto. Il terzo brano, una rivisitazione attualizzata di musiche parigine di inizio 1900, è risultato più vivace e di respiro internazionale, per il quale valgono ancora le considerazioni sulla felice intesa tra i due musicisti, così come per tutto il resto del repertorio proposto. L’ultimo brano, che probabilmente è stato scelto dall’autore così collocato, è quello che ha esaltato al punto più alto le virtualità dell’organetto diatonico. E’ stato usato il soffio del mantice come vero e proprio elemento integrato nella costruzione del pezzo musicale, e la maestria di Gambetta ha reso vibrazioni sonore che hanno solleticato ancora i smaliziati ascoltatori, quasi tutti attempatelli e abituati ad interpretazioni di rilievo.
Renato Morelli e Giovanni Desogos: La musica processionale di Cuglieri.
Anche la musica processionale è musica itinerante da strada, che attiene quindi all’argomento del Convegno. La tradizione sarda conta manifestazioni carnascialesche importanti e, forse, la preminente è quella che si svolge nei centri barbaricini di Mamoiada. Altrettanto importante è la celebrazione itinerante del rito parareligioso che viene eseguito dai Cantores prevalentemente in occasione della Settimana Santa. Renato Morelli, etnomusicologo, regista in Rai, musicista e giornalista, e Giovanni Desogos, che insieme a Filippo Casule è a capo del progetto musicale Su Cuncordu di Cuglieri, hanno illustrato la tradizione canora particolarissima della Sardegna. Il coro Su Cuncordu di Cuglieri, per tradizione composto da soli uomini, riproduce il canto dei pastori sardi esibendo musica colta di tradizione religiosa medievale con la tecnica polivocale di quattro cantores che si alternano a seconda della tonalità richiesta dal canto. E’ una musica prevalentemente processionale che si svolge, quindi, all’aperto tra le strette strade in salita di Cuglieri, sebbene una parte del repertorio è cantato all’interno della chiesa parrocchiale.
Chi scrive ha perso alcuni passaggi fondamentali della ricerca esposta da Morelli, spesso garbatamente interrotto da Giovanni Desogos che ha ritenuto di puntualizzare gli interventi del principale relatore, divertendo anche il pubblico astante. Si è, comunque, appreso che la tradizione cantora è stata tramandata e coltivata da confraternite impegnate a mantenere vive queste importanti tradizioni. La polivocalità, quando il vocalizzo è compreso di tutte e quattro le diverse tonalità, dà origine a una quinta voce che è il prodotto armonico delle quattro. I cori cantano in latino, e avvicendano la musica profana alla sacra. Nel corso della relazione, i Su Cuncordu hanno intonato due differenti interpretazioni dello Stabat Mater, cantate nella precisa versione a seconda del momento liturgico, e il Miserere, anticipando lo splendido concerto che in serata ha, poi, avuto luogo. In quello spettacolo serale, i Su Cuncordu hanno partecipato alla parte prettamente musicale, eseguendo più brani e mostrando una tecnica e una passione coinvolgente. L’acustica del teatro, non perfetta, pure ha reso il concerto polivocale qualcosa di ispirato tanto che, chiudendo gli occhi, si ha avuto l’impressione di essere tornati indietro di qualche secolo, in un ambiente bucolico sacralizzato dalle voci di monaci intonanti liturgie di contemplazione.
Maurizio Padovan.
Musicista, docente universitario, storico della musica e della danza, Maurizio Padovan ha ripreso l’argomento, stavolta prettamente musicale, delle sonate in Val Varaita. Facendo brevi accenni alla storia, ha più che altro eseguito, con grande tecnica, le musiche da danza tipiche utilizzando un violino appartenuto in vita a Jusep da’ Rous, storico suonatore della Baìo di Sampeyre. Ha pertanto spiegato come il violino fosse lo strumento principale suonato nell’accompagnare la processione, prima che fosse sostituito dalla fisarmonica. Avendo riscritto per il violino le partiture odierne, col fine di ricercare e riproporre lo spirito genuino delle ballate, ha suonato brani quali la Meschio, che si traduce come miscuglio di più danze, la Gigo, ovvero la danza più rappresentativa della Val Varaita, e il Valet che, per alcuni aspetti, ha ricordato, a chi scrive, le ballate bagosse. Ha poi proseguito con un’altra Gigo, stavolta usando la tecnica arcaica dovuta alla mancanza di protesi d’appoggio del violino che, oggi, appoggia sul collo mentre una volta era adagiato sul braccio. Ha infine eseguito una Curento e un ultimo brano, di cui non è stato inteso il titolo, tra i più arcaici, con una struttura musicale più elaborata.
Al termine del primo giorno dedicato al congresso, volendo riassumere quanto emerso dalla dissertazione dei vari conferenzieri succedutisi, s’è assunto che le manifestazioni carnascialesche piemontesi vivono di una teatralità di forte impatto, con un’organizzazione che lascia poco spazio all’improvvisazione. La parte musicale, legata a questi eventi, è meno originale e antica rispetto a quella ricca di storia a cui è abituato l’ascoltatore dei sonadur caffaresi e bagossi.
Mike Higgins: Border Morris.
Sabato Mattina, alle 9,30, il Convegno ha intrapreso prettamente l’indirizzo internazionale del tema principale: la musica da strada. Mike Higgins e Janet Maj, sono già assurti alla cronaca locale per aver percorso a piedi, in tre mesi, un viaggio dall’Inghilterra, ai confini col Galles, fino a Ponte Caffaro, che i coniugi reputano una seconda casa e patria. Stavolta sono stati presentati al Convegno accompagnati dalla loro banda che, in realtà, è composta da due formazioni, maschile e femminile, separate: The Shropshire Bedlams e Martha Rhoden’s Tuppeny Dish. Buoni conoscitori della lingua italiana, e già truccati per lo spettacolo che ha avuto avuto luogo la sera, hanno dato nutrite informazioni storiche e folcloristiche sul ballo itinerante e sulle sonate della Danza Morris. Le origini di questa danza sono molto antiche, e le prime fonti documentaristiche provengono da un testo datato 1448 e 1494, anno in cui i ballerini Morris si esibirono per Re Enrico VII. Anche Shakespeare, nell’opera “Two Nobel Kinsmen”, cita questo ballo, incentrando una scena su questa tipica danza nell’antica Atene. Tra le varie ipotesi sull’origine di questa antica danza, è interessante riportare almeno quella teorizzata da Joseph Strutt, scrittore, pittore e incisore inglese, che nel 1700 si occupò soprattutto della storia del costume inglese. Lo studioso ritenne che il Morris possa aver avuto origine da una antica forma italiana di danza di corte, il Morisco. Il Morris viene suonato e ballato in diverse parti dell’Inghilterra, ma quello proposto nel corso del Convegno è stato il tipico ballo sviluppatosi nel confine col Galles, che prende il nome specifico di Border Morris. Sono sonate e danze che possono essere ballate solamente da appartenenti dello stesso sesso, e da qui s’intuisce il motivo per cui il gruppo assume i due nomi. Quando ballano gli uomini, la musica è suonata dalle donne e viceversa. I costumi sono coloratissimi. Anticamente, essendo danze ballate da persone povere che si esibivano per raccogliere elemosine, i costumi sono stati in realtà dei semplici vestiti da lavoro ai quali venivano applicate strisce di carta colorata. Oggi, che il rituale ha mero scopo tradizionalistico, i costumi sono composti di coloratissime strisce di tessuto, corredati anche da campanelli e da sonagli appesi alle ginocchia. La musica è stata prevalentemente tratta dal repertorio di una famiglia zingara indigena ed è usanza locale collegare queste danze con la fertilità. Per questo motivo i ballerini sono richiesti nelle cerimonie e feste nuziali. Questi balli vengono eseguiti dagli uomini brandendo lunghi bastoni coi quali intraprendono giocose sfide, incrociando le legnacee daghe e, accordando, contestualmente, ritmo alle danze con la percussione dei legni. Le danze maschili concludono tutte con un chiassoso urlo seguito da salti e da una fuggevole uscita di scena, molto divertente. Le donne, che sono vestite più semplicemente con un abito giallo, un corpetto verde e calze lunghe dai diversi due colori, ballano facendo volteggiare drappi bianchi. Gli strumenti musicali impiegati dai suonatori sono la tuba, organetti, violini, tamburelli, sonagli appesi ai polsi delle donne e ginocchia negli uomini. Alcuni di questi balli sono stati eseguiti durante la parte congressistica ma, in serata, è seguita poi la rappresentazione vera e propria dove è stato possibile ammirare la ricchezza dei vestiti, la bellezza dei balli e l’originalità delle composizioni musicali. Assolutamente divertente una danza, che, è stato spiegato, viene eseguita durante i matrimoni, dove i lunghi bastoni sono stati maneggiati da coppie di ballerini. Nei ritornelli, a turno, un uomo ha brandito il ligneo bastone come un simbolo fallico eretto e l’altro ha incrociato i legni in una violenta e divertente percussione, a cui hanno seguito finte urla di dolore. L’incrociare dei bastoni, che in altri balli simboleggia un’antica tenzone, oltre ad essere scenica e allusiva, costituisce un elemento anch’esso musicale.
Febo Guizzi: I pifferi d’Ivrea.
Alle ore 10.45 è intervenuto il Prof. Febo Guizzi, docente universitario in etnomusicologia ed anche lui esperto negli argomenti trattati al Convegno. Data la sua formazione, è tornato agli argomenti del giorno precedente affrontando l’aspetto musicale e finanche sociale, su uno dei carnevali più famosi: quello d’Ivrea. Con la dissertazione colta e fluida che ha padroneggiato, ha esposto alcune considerazioni generali sui carnevali, volendo puntualizzare che tali manifestazioni non sono triviali e portatori di messaggi grotteschi; quantomeno non il carnevale strettamente popolare che è sempre caratterizzato da intensa solennità. Con questo, ha usato il termine “carnevalizzazione” come processo rappresentativo di una comunità e del mondo circostante che agisce tramandando popolarmente non solo la tradizione ma anche il ricordo storico, la saggezza degli anziani e il valore di riti parareligiosi. Da questa prefazione ha poi cominciato a discutere del Carnevale d’Ivrea, nell’immaginario popolare famoso per la battaglia delle arance, solo un aspetto della manifestazione, che è da inquadrare in una liturgia ben più complessa ed evocativa. Tale battaglia evoca, difatti, la battaglia mitizzata avuta luogo in Ivrea dove i potenti sono stati banditi perché imputati di aver esosamente tassato il popolo e contro la ricorrente regola dello ius primae noctis. Questo elemento non può essere discosto dai costumi e dagli strumenti musicali adottati dai commedianti del carnevale. Il popolo, qui inusualmente rappresentato in vesti militari, rivendica il potere conquistato, proprio vestendosi militarmente. Medesimo allegorico significato è stato dato dall’utilizzo importante dei tamburi, che per analogo motivo sono protagonisti nelle marce di stampo militaresco. Tutto ciò è stato interpetato dal relatore come un criterio per condividere l’affettività popolare. Le pifferate sono invece le musiche più antiche, in una sospensione del tempo che si riflette nello spirito del carnevale: un carnevale conservativo. Data la differente vocazione degli strumenti, che, comunque, interagiscono, esistono due gruppi di suonatori che si organizzano per le loro specialità musicali. Il tamburo rappresenta l’evocazione militare e cavalleresca. La musica piffero tamburo non è nata come marcia militare, ma alla fine consegue quello scopo anche per i costumi e i labari che riportano alla militarità. Molto belli i filmati dell’istituto Luce sul carnevale di Ivrea, che il relatore ha posto in visione commentandone gli aspetti. Le pifferate, intese come sonate tipiche del carnevale, sono riferibili al 1700.
Valter Clerici: La Gipsy Music
Valter Clerici è un musicista approdato alla corte del principe degli artisti presenti quest’anno al convegno: Dorado Schmitt. Nativo di Milano, chitarrista, ha scelto di vivere insieme al popolo nomade stanziato a Lussemburgo, in una posizione comunque privilegiata. I trascorsi artistici di Dorado, che ha avuto l’onore di suonare con Django Reinhardt, e da cui ne è scaturita la fama, fanno cogliere del nomadismo gli aspetti più romantici e positivi, pur essendo quella una scelta di vita spesso, in altri ambiti, corrosa da povertà, da stenti e da rimedi invisi. I cachet per gli spettacoli musicali di quella comunità hanno garantito, e garantiscono alla gente nomade li stanziata il benessere necessario per vivere in armonia con la popolazione che l’attornia. In realtà, quello che è accaduto nella fase congressuale non è stata propriamente l’esposizione storica e dei caratteri della Gipsy Music, piuttosto la premessa del concerto che ha poi avuto luogo la domenica sera. Valter Clerici, che si è improvvisato relatore perché parla la lingua italiana, ha semplicemente introdotto alcuni brani che, nell’immediatezza, ha eseguito insieme all’atteso Dorado e col figlio diciottenne Amati. Seppur, nei pochi brani, siano emersi i talenti della famiglia Schmitt, volutamente celandolo, quanto mostrato non è stato certamente all’altezza del grandissimo spettacolo di congedo. Intendendo parlare di quell’evento solamente a chiusura di questa relazione , si è scelto di riportare l’aspetto prettamente musicale in quel contesto.
Domenico Staiti: Ritmi e canti delle confraternite del Marocco.
Domenico Staiti, professore universitario di etnomusicologia, ha avuto il compito di chiudere la parte congressistica affrontando dottamente i ritmi e i canti delle confraternite del Marocco. Il relatore è un ricercatore “sul campo”, e le sue indagini non sono state pertanto puramente accademiche. Ha attuato un metodo scientifico di approccio diretto alle comunità, che ha raggiunto e con cui ha coabitato per mesi interi. Ha affrontato da subito le caratteristiche formali della danza in questi riti, spiegando i motivi per cui gli uomini danzanti vestono e si muovono da effeminati e suonano tamburelli per i canti e balli delle donne. La funzione dei ballerini effeminati, come è provenuto da fonti latine che il relatore non ha meglio indicato, sono riconducibili al culto degli officianti del rito di Cibele, e a quel tempo erano evirati. Anche Agostino d’Ippona, nativo del Nord Africa nella regione che diventerà l’Algeria, ha parlato di questi riti, ma anche per questo non è stato specificato su quale opera compare il riferimento. In Marocco, peraltro, l’omosessualità è vietata, anche se praticata. Per questo motivo, alcuni di loro, che si considerano posseduti in modo permanente da uno spirito femminile, trovano uno spazio e un luogo dove potersi esprimere in libertà. Gli officianti non sono solamente musicisti, ma anche incensieri e selezionatori dei profumi delle donne. Le compagnie di ballo si avvalgono delle confraternite sufiste fondate da comunità sacre, sebbene sul piano ufficiale questi sodalizi non c’entrino nulla con le danze e con la trance che si vuole raggiungere evocando gli spiriti con quei riti. I testi di quelle ballate, che raccontano di emigrazione e di poesie femminili, hanno oggi una rilevante importanza. Sono stati mostrati filmati, autoprodotti dal relatore e dal suo staff, dai quali si è tratta l’impressione che lo stato catartico raggiunto dai danzanti, apparentemente in trance, è indotto dal ritmo ossessivo e ripetitivo tenuto dalle percussioni, a cui contribuisce una sorta di strumento a fiato che è suonato come elemento psichedelico, e da un ripetere di parole arabe in una particolare successione che coinvolge l’officiante quanto il pubblico. La trance, che è sintomo d’impossessamento da parte di uno spirito buono o malvagio, può essere “divertita” o “angosciosa”.
Nello spettacolo serale, due diverse compagnie di musica tradizionale e spirituale, coi loro direttori artistici Abderrahim Amrani Marrakchi e Diwan Choukri, hanno suddiviso il loro momento artistico in tre frazioni: la prima, che è di derivazione dalle confraternite sufiste, è stata più melodica e caratterizzata da voci recintanti canzoni e dialoghi tipici del Nord Africa, con l’apporto di una danzatrice dalle movenze sensuali; la seconda, che è stata dedicata a riti di evocazione degli spiriti maschili e femminili, ha avuto più un approccio di tipo spirituale e di canto religioso. Una parte finale è stata proposta con le due compagnie musicali cooperanti che hanno voluto coinvolgere il pubblico invitandolo a cantare e a pregare Allah. L’impressione è stata che lo spettacolo sia stato “confezionato” per un più facile ascolto occidentale, non avendo riscontrato gli stessi ritmi ossessivi e ipnotici mostrati nei filmati. Forse per questo, gli spettatori non sono stati impossessati da spiriti e non sono caduti in trance.
Bruno Pianta e Lorenzo Pelizzari: il nuovo libro sul canto tradizionale a Ponte Caffaro.
La domenica ha avuto inizio con la presentazione del libro di Pelizzari Lorenzo dal titolo “Oi che bèl felice incontro”. A discuterne sono stati lo stesso autore e Bruno Pianta, etnomusicologo ricercatore e musicista. L’autore ha illustrato il libro e i brani che sono acclusi alla pubblicazione in un CD. E’ stata l’occasione per conoscere gli aspetti legati alla genesi di questi canti popolari, che sono stati trascritti e quasi tutti, ben 128 su formato mp3, è possibile ascoltarli. E non sono tutti. Altre canzoni e sonate sono state trascritte in precedenti sue pubblicazioni. La ricerca è stata prettamente svolta sul caffarese, sebbene, in gran parte, i canti raccolti siano patrimonio di tutto l’arco alpino, e solo alcuni probabilmente sono stati personalizzati dalla popolazione locale nei testi e nelle interpretazioni. Si apprende, nell’esposizione dell’autore, che queste canzoni vengono cantate prevalentemente in coro, con diverse tonalità. Questa presentazione è stata preziosa, poiché ha inserito nella dimensione internazionale del convegno quel patrimonio e “gusto” delle tradizioni che appartengono al paese ospitante, e che certamente hanno elementi di comparazione con altri folclori, in un contesto di confronto scientifico con pari, e in molti casi superiore, dignità.
Santa Messa cantata dai Su Cuncordu e artisti per strada.
Il proseguimento della mattinata ha portato la vera anima del Convegno nella funzione religiosa in chiesa e nella strada; quel soffio vitale che nell’introduzione si è scelto di chiamare “festival di popolo e popoli”. La celebrazione della Santa Messa ha visto la partecipazione dei Cantores Su Cuncordu. Gli artisti, che hanno potuto esprimersi in un ambiente dall’acustica certamente migliore del teatro in cui si erano esibiti la sera precedente, hanno potuto generare, con canti religiosi di più agevole comprensione, un’atmosfera “nuova” e profonda, dalla diversa e efficace sacralità, dal gusto antico, per l’incredula e felice assemblea caffarese e i suoi ospiti tutti riuniti. Al termine della celebrazione, davanti a un pubblico numeroso e divertito assembrato al piazzale della chiesa, c’è stato un primo momento dove i ballerini e suonatori del Border Morris hanno, per mezzora, riproposto i loro splendidi balli e costumi. I colori delle vesti, lo spirito dei ballerini, la propagazione delle vibrazioni degli strumenti musicali, hanno beneficiato del sorriso sorpreso dei bambini, della luce del sole e del “respiro” della strada, rendendo l’esibizione un evento, e una fola, da tramandare. E’ stata poi la volta di assistere alle due compagnie artistiche marocchine. Con gli strumenti tipici consistenti in diverse percussioni, tromba, uno strumento simile alla chitarra ma con sole tre corde e una sorta di particolari nacchere, tutti strumenti dai nomi impronunciabili o non ben intesi, hanno inscenato uno spettacolo più vero e istintivo di quello ben confezionato osservato a teatro, facendo respirare alla popolazione il gusto e la bellezza dell’arte musicale extraeuropea. Anche questo resterà certamente impresso nelle memorie dei bambini, che forse, da adulti, favoleggeranno e comporranno nuove ballate che parleranno di curiosi personaggi, provenienti da un’altra terra, dal sapore salmastro e dal colore delle montagne in autunno, che hanno portato gioia e novità.
Concerto dei Diabula Rasa.
Il convegno doveva volgere al termine, con due botti finali di tutto rispetto che l’organizzatore ha desiderato per l’epilogo. Alle ore 16.00 è stato eseguito il concerto dedicato al pubblico giovanile. Il gruppo folk metal Diabula Rasa ha una storia originale e interessante. E’ nato 13 anni fa come “Tabula Rasa”. In origine ha eseguito, in una qualche forma di cui non è possibile a chi scrive dare riferimenti, brani tratti dai Carmina Burana del medioevo e sonate della tradizione. Concettualmente, questo tipo di ricerca non è stata esclusiva degli allora Tabula Rasa. Soprattutto nell’area mitteleuropea, molti artisti hanno studiato e reinterpretato musiche antiche e testi latini o in lingua volgare, in una fusion di generi quali il beat, il folk e il progressive. Un esempio è stato dato, già nel 1973, dai deliziosi tedeschi Ougenweide che, trasformando i motivi della tradizione e della musica sacra, e componendo canzoni in tedesco medievale, hanno “folkizzato” il loro sound con strumenti musicali prevalentemente acustici. Ancora, con un’approccio progressive, si vuole citare il gruppo italo francese Ordo Equitum Solis, che, anch’esso, dai primi ’90, ha composto musiche e testi in latino per un prodotto risultato a tratti sinfonico e ad altri d’eterea vena post punk. Quella ricerca musicale importante, colta, e suonata con strumenti musicali auto costruiti dal liutaio e leader Luca Veroli, quali liuto, cornamusa e ghironda, ha avuto modo di svilupparsi anche grazie alle competenze della tastierista, Daniela Taglioni, professoressa in filosofia e diplomata in pianoforte, appassionata di musiche medievali. Luca Veroli e Daniela Taglioni, coadiuvati dalla bassista Samantha Bevoni, laureata in lingue, curavano e tuttora compongono i testi che eseguono live. Nel 2007, molto concretamente, per poter attecchire in un “mercato” più importante e seguito, il gruppo ha deciso un cambiamento di strategia che ha coinvolto l’immagine, il target di utenza e soprattutto la musica, che, mantenendo viva una ricerca sulla musica dotta, l’ha comunque patinata con suoni metallici ed elettrici. Nascono così i Diabula Rasa. Nelle note di copertina del loro ultimo album, dal titolo che già riesce a dare una certa immagine, Ars Medioheavy, descrivendo la loro musica, Luca e Daniela spiegano:”Si tratta infatti di melodie che si trovano sepolte agli albori del nostro sistema musicale, dentro l’anima della nostra cultura e della nostra storia e che con essa si sono evolute. Si è quindi trattato di farle riemergere e di dare loro voce in un linguaggio capace di parlare all’umanità del XXI secolo, dando loro nuova vita”. E terminano quelle note augurando:” buon ascolto…e buona danza”. Questa prefazione si è resa necessaria per comprendere il criterio per cui l’organizzazione, nella sua proposta giovanile, ha ritenuto i Diabula Rasa confacenti al progetto del Convegno. Sul palco, come ormai consueto per il gruppo, gli artisti si sono esibiti con vestiti dalla foggia barbarica, con la strumentazione commista tra antico e moderno, e soprattutto con una faccia tosta e divertita, ancorché divertente. La band, che oltre ai già citati interpreti si è avvalso dei valenti Moreno Boscherini alla batteria, Sonia Nardelli e Stefano Clo alle chitarre, ha da subito dovuto adeguarsi a problemi elettrici che hanno impedito la piena resa del particolare sound. Ne hanno fatto le spese, soprattutto, le due interpreti femminili alla voce, che solo dopo metà concerto hanno fatto intuire le vocalità in controcanto che colmavano lo spettacolo. Ciò nonostante, il programma proposto è stato d’indubbio interesse. In questo medium temporale ricercato, ha provocato ascoltare testi antichi, suoni di ghironda e cornamusa, chitarre e basso elettrici in un contesto che del metal mantiene solo la superficialità e che ha nel substrato un patrimonio culturale.
Concerto di Dorado e Amati Schmitt
La grande chiusura del Convegno è stata affidata nelle mani della famiglia Schmitt. Alle 21.00 ha avuto inizio lo spettacolo che ha visto protagonisti i già tre citati artisti, alle prese con violini e chitarre gitane, e un contrabbassista di cui non è stato inteso il nome. Il programma, che per la storia dell’illustre Maestro Django Reinhardt, a cui si rivolgono questi musicisti, potrebbe essere inquadrato nel filone jazz, è stato certamente di agevole ascolto, come si suol dire “orecchiabile”, seppure le arti di padre e figlio siano state espresse al livello di un grandissimo virtuosismo. Prendendo in considerazione il fatto che, nella tradizione nomade, la musica viene tramandata e che chi suona lo strumento non è capace di tradurre le note nel pentagramma, può sopravvenire un iniziale fastidio; sensazione che, nel frangente, è stata immediatamente superata e sostituita dall’ammirazione nel momento in cui le dita degli artisti hanno mosso le corde del violino e della chitarra. La musica, nei due, scorre nel sangue zingaro e il coinvolgimento in platea è stato immediato. Gli applausi ricevuti sono stati tanti e meritati. Le composizioni che sono state proposte provengono dai generi del teatro della rivista, del varietà, del cafè- chantant, dell’avanspettacolo e da alcune colone sonore anni ’20 – ’40, e il rimando, in alcuni momenti, è alle delicate atmosfere che si possono cercare nelle musiche dei film di Charlie Chaplin, con tanto di emozioni annesse. Dorado è cresciuto alla corte di Django Reinhardt, probabilmente il chitarrista di estrazione nomade più famoso e gradito, e ha suonato lo strumento con tecnica e passione non comuni. Amati, diciottenne destinato a grandi onori e palchi, ha accompagnato il padre costruendo, insieme a Valter Clerici e al contrabbassista, la parte ritmica. Ma quando il padre ha smesso la chitarra per il violino, il giovane, sul palco promosso a solista, è salito alla ribalta mostrando una tecnica e una sensibilità incredibili e toccanti. E il padre ha accarezzato con lo sguardo quel figlio che certamente lo “scalzerà” dal trono; per questo, comunque, entusiasta. Alternando brani dai tratti ironici ad altri più sentimentali, con anche una splendida e triste composizione dedicata al defunto genitore di Dorado, hanno concluso al meglio il Convegno.
Marcello Rizza
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