Alcuni pensieri su Rough and Rowdy Days di Bob Dylan
di Maurizio Bettelli
Appartengo a una generazione che ha attraversato l’adolescenza, la gioventù e l’età adulta accompagnata dalla voce di Dylan. Se mi volto indietro e cerco i suoni di quegli anni, vengono a galla la voce di mia madre, quella di mio padre, quella di qualche amico, di qualche ragazza e, in sottofondo, l’onnipresente voce di Dylan. Averlo intorno è come avere intorno certi odori che, quando li avvertiamo nel naso, ci fanno capire che siamo a casa. Dylan è casa. Poi è anche un flusso di pensieri, parole, musiche intramontabili, miagolii nasali, note stanche scivolate fuori da una armonica a bocca, allitterazioni, assonanze, giochi di parole, versi memorabili e fiumi di citazioni che spaziano dal calembour alla letteratura alta, passando per lo sterminato catalogo del pop e attraversando quella infinita terra di nessuno che chiamano postmoderno.
Ci appartiene tanto Dylan, che ogni volta che canta siamo pronti a scommettere che stia cantando per noi, solo per noi. Una sorta di Mr Bojangles con cui dividiamo l’angusta cella di questa esistenza, e a cui chiediamo di cantarci ancora e ancora quella canzone, e se non è quella, pazienza, che canti quella che vuole lui. Non ci importa più quale sia, l’importante è che canti, che ci trascini dentro al maelstrom dei suoi sogni. Siamo pronti a seguirlo ovunque, siamo pronti a svanire con lui nella nostra parata personale…
Non ci poniamo neanche più il problema di cosa stia dicendo, di cosa ci voglia comunicare o raccontare. Non srotoliamo più il testo delle sue canzoni sul tavolo marmoreo del coroner, nel disperato tentativo di trovare un indizio, una causa, un colpevole o, peggio ancora, una risposta. L’abbiamo fatto fino a perderci gli occhi, fino a consumarci le mani nello sfogliare testi improbabili raccolti nelle biblioteche più remote, per giungere sempre alla medesima conclusione.
Ci abbiamo messo tanti anni, però l’abbiamo capito.
Eppure c’è ancora chi, con la pazienza dei certosini e la perizia degli enigmisti, armato di lente d’ingrandimento, solleva il lembo di ogni parola contenuta nei versi delle sue canzoni, per cercare rimandi letterari, riferimenti storici, biblici, filosofici, cabalistici… Concorrenti di un quiz a premi senza un vero premio e senza un vero quiz, convinti che se trovano quel riferimento, se individuano quella fonte, riusciranno a infilzare con uno spillo l’anima della farfalla Dylan.
Abbiamo smesso da tempo con quelle pratiche, appunto.
Abbiamo capito che preferiamo lasciarci ipnotizzare da quel gioco di parole, da quella melodia che ci fa venire in mente quella musica dolce di quando eravamo piccoli e cantavamo attorno a un fuoco altre parole, ma pensa te, sempre su quelle note beccheggianti di Offenbach... e a ricordi si aggiungono altri ricordi mentre scendiamo sempre più giù nel vortice del gorgo onirico dylaniano.
Rough and Rowdy Days, l’ennesimo ultimo album di Bob Dylan, è uscito da una manciata di giorni. E’ uscito sulla scia di una perfetta operazione di marketing pianificata ai tempi della quarantena. Un capolavoro di strategia che presto entrerà nei casi di studio di qualche docente bocconiano. Lo dico con ammirazione, non certo con sarcasmo. Del resto, lo stesso Dylan ci aveva fornito in passato alcuni indizi per ricordarci che tutto questo è anche business. Il più esplicito, e forse anche il più illuminante tra questi indizi, è la riproduzione di una lettera circolare preparata dall’ufficio marketing della CBS nel 1965 e indirizzata agli area manager affinché si impegnassero a trovare idee originali per promuovere i dischi di Dylan, pubblicata nel libretto che accompagna la prima raccolta dei Bootleg Series. La lettera si apre con la parola IDEE ripetuta tre volte e si chiude con uno slogan piuttosto emblematico: Be different – He is (Siate differenti. Lui lo è). Nel mezzo, una lista di suggerimenti su come promuovere i dischi di Dylan in uscita (1). Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Il singolo Murder Most Foul, nel giro di pochi giorni, ha raggiunto i vertici delle classifiche di Billboard in un epoca storica (ormai non è più solo un momento…) in cui il mercato della musica registrata sta svaporando ovunque. Per carità, non vorrei essere frainteso, non voglio certo sostenere che quel disco ha raggiunto le vette della top chart grazie a una mirata operazione di marketing. Voglio solo sottolineare due cose che trovo molto importanti da evidenziare: la prima è che dietro a un grande artista, se non c’è una grande squadra, difficilmente l’artista raggiunge i risultati che merita. La seconda, ma non meno importante, è che se credi in quell’artista, l’età anagrafica diventa un fattore secondario e non certo una discriminante. Mi viene da pensare a tanti discografici nostrani e alla parabola discendente di tanti artisti italiani, e non solo del passato, dotati di grandi doti, ma abbandonati al loro destino. Uno per tutti: Sergio Endrigo.
Ma torniamo a Rough and Rowdy Days. L’album contiene dieci canzoni originali, spalmate su due CD: il primo supporto contiene nove tracce e il secondo è occupato dal Murder Most Foul, di cui abbiamo già scritto qualche tempo fa (2). Nei mesi della quarantena, mentre l’album era in lavorazione, Dylan ha estratto tre brani, Murder Most Foul, I Contain Multitude, False Prophet, distribuendoli in rete, in formato free download, a distanza di circa venti giorni l’uno dall’altro, per preparare il suo pubblico all’uscita del trentanovesimo album della sua lunga carriera. L’ultimo album di canzoni inedite, Tempest, risale al 2012. Da allora a oggi Dylan, oltre a girare il mondo con la sua tournére infinita (almeno fino al lockdown), ha pubblicato due raccolte-tributo dedicate a Frank Sinatra (Shadows in the Night, 2015 e Triplicate, 2017) e una raccolta di dodici brani attinti dal grande Songbook della tradizione musicale americana (Fallen Angel, 2016). Come anticipato dai tre brani affidati alla rete per il beneficio del suo pubblico, l’album è una lunga cavalcata attraverso l’universo dylaniano. Universo che ormai ben conosciamo: un patchwork di citazioni musicali e letterarie stese quasi in stato di trance e legate da rime all’apparenza strampalate, ricco di visioni e immagini metafisiche e personaggi in bilico tra realtà e fantasia che però questa volta si susseguono sullo sfondo di un paesaggio dove il cielo volge al tramonto e lo sguardo si perde in un indefinibile altrove. Un universo tenuto insieme e raccontato da una voce che, a dispetto degli anni, ancora sa stupirci, commuoverci e farci riflettere su questo mondo che da troppo tempo sta girando nel senso sbagliato. A sostenere la voce di Dylan lungo questa cavalcata, un gruppo di musicisti più che collaudati che, per sua stessa ammissione, sono capaci di abitare una canzone invece di aggredirla (3). Musicisti che avremmo avuto il piacere di ritrovare nelle note di copertina con qualche indicazione in più, vista anche la presenza di artisti che, pur avendo intrecciato la carriera di Dylan in tempi diversi, non sono nel consolidato line-up della sua storica band, come: Fiona Apple, Blake Mills, Alan Pasqua, Tommy Rhodes e Benmomt Tench.
Un mio modesto suggerimento per ascoltare queste dieci canzoni è quello di guardare a ognuna di queste come se si ci trovassimo di fronte a una serie di dipinti. In questo ci aiuta una tecnica pittorica strettamente legata all’Action Painting di Jackson Pollock della fine degli anni ‘40: il dripping. I quadri di Pollock sono caratterizzati da tele candide su cui il pittore ha lasciato sgocciolare la vernice proveniente dai suoi pennelli agitati in vari sensi sopra alle tele. Il risultato è un insieme di gocce variopinte che si rincorrono, si intrecciano, si sovrappongono su tele, anche di misure importanti, e che creano un senso di vertigine in chi osserva, confondendo superficie e profondità, prospettiva e forma, lasciando sulla tela un’immagine indefinita e indefinibile, ma che nel suo insieme rappresenta una personale interpretazione della realtà.
Io credo che se si dovesse coniare un termine per definire la tecnica usata da Dylan nella stesura di queste ultime sue canzoni, almeno in quelle dove si indugia in lunghi elenchi di nomi, si potrebbe parlare di name dripping (da non confondersi con name dropping, come ho letto da qualche parte, che tra l’altro ha un’accezione piuttosto negativa e assolutamente fuori contesto).
A questo proposito citerei le parole che Dylan ha usato per commentare le sue ultime canzoni; nell’ultima intervista rilasciata a Douglas Brinkley del New York Times il 12 giugno di quest’anno, Dylan sostiene che
The names themselves are not solitary. It’s the combination of them that adds up to something more than their singular parts. To go too much into detail is irrelevant. The song is like a painting, you can’t see it all at once if you’re standing too close. The individual pieces are just part of a whole. (4)
(I nomi stessi non sono a sé stanti. E’ la loro combinazione che aggiunge qualcosa in più rispetto alle singole parti. Andare troppo nel dettaglio è irrilevante. La canzone è come un dipinto, non puoi vederla nel suo insieme, se stai troppo vicino).
Ed è esattamente così. Non serve soffermarsi su un nome, o sul perché in quel determinato verso quel nome compare accanto a quell’altro, ma va ascoltato nel suo insieme il fluire e il mescolarsi di quei suoni e di quei significati che combinati assieme compongono un’unica armonia fatta dal suono delle parole, le parole stesse, e la musica.
Siamo partiti dal suono delle canzoni di Dylan che negli anni per me, ma non credo di essere il solo, è diventato un suono famigliare, domestico, un luogo dove tornare, un rifugio dalla tempesta.
Di una cosa sono certo, che finché continuerò a sentire quel suono, e quella voce che cambia nel tempo come la pelle di un camaleonte, finché tutto questo ci sarà, io mi sentirò al sicuro.
Mi sentirò di avere riportato tutto me stesso a casa.
note:
- Bob Dylan, The Bootleg Series. Vol. 1-3, Booklet p.19
- M. Bettelli, “Murder Most Foul. Un dono, un’orazione civile, un’esortazione”, Folk Bulletin, 05/04/2020
https://www.folkbulletin.com/murder-most-foul-di-bob-dylan/?fbclid=IwAR0XSqeVwl37-LzPG05lztHb6jUvHIvgbMl_5w3SPyMbMGl6LhRziDOigi4 - D. Brinkley, “Bob Dylan Has a Lot on His Mind”, The New York Times, 2020 /06/12
https://www.nytimes.com/2020/06/12/arts/music/bob-dylan-rough-and-rowdy-ways.html - D. Brinkley, (op. cit.)
La foto di Dylan in apertura d’articolo è di Paolo Brillo.
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