Il musicista newyorkese ama profondamente l’Italia. In compagnia dell’inseparabile Bob Brozman, altro grandissimo chitarrista e dobroista, Woody Mann ha trovato una seconda patria nella nostra terra e l’affetto che ci dimostra è ampiamente ricambiato. I suoi concerti sono sempre affollati di appassionati di chitarra fingerstyle e buona musica. E il suo ultimo lavoro non prescinde da questo binomio, un disco di chitarra, certo, ma lontano dai virtuosismi funambolici che ultimamente sembrano imperare nel genere.Il titolo è ovviamente una dichiarazione d’intenti e Mann ci porta a spasso per il suo personalissimo universo musicale, ricco di citazioni e riferimenti. Del resto, un tratto distintivo della sua musicalità è proprio la sintesi che ha saputo fare della tradizione americana, dimostrando di aver metabolizzato le influenze di Big Bill Broonzy, Woody Guthrie, Brown McGhee, passando per il suo mentore, il reverendo Gary Davis, fino ad arrivare ai contemporanei Bukka White, Son House, John Cepas, Bob Brozman, appunto, o John Fahey. Ne scaturisce uno stile che è la sintesi tra canone di genere e improvvisazione, in cui il fingerstyle non è un puro esercizio di stile, ma un intenso veicolo espressivo.
Supportata da una band eccellente, con Dan Mallon alle percussioni, Brian Galssman al basso, Charlie Kraky al saxofono, Dave Keys al piano, Jeffrey Meyer alla batteria e Larry Wexer al mandoli, la chitarra di Woody Mann è sempre in primo piano, con un suono e una definizione eccezionali. E gli episodi “a solo” si alternano sapientemente ai brani con il gruppo, contribuendo a rendere tutta l’opera intensa e coinvolgente.
Un disco di chitarra, per una volta, non solo per chitarristi: il genere di produzioni di cui fingerpicking e chitarra acustica hanno assolutamente bisogno.
Mario Giovannini
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